mercoledì 9 novembre 2011

La crisi della «democrazia organizzata». A proposito di "La democrazia è una causa persa? Paradossi di un’invenzione imperfetta", un libro di Alfio Mastropaolo


 



di Damiano Palano
La lettera inviata dal Governatore della Banca Centrale Europea al governo italiano nello scorso mese di agosto è diventata rapidamente una sorta di simbolo della condizione delle nostre democrazie, che ci appaiono, sempre di più, come democrazie tenute in scacco dai mercati internazionali e sorvegliate (se non addirittura ‘commissariate’) dalle istituzioni sovranazionali. Così, sembra che ai governi spetti solamente l’esecuzione di decisioni prese altrove e che la volontà dei cittadini diventi solo un fastidioso inconveniente con cui, ogni quattro o cinque anni, ci si deve confrontare. Da questo punto di vista, è quasi paradigmatico che il contenuto specifico della lettera inviata dal Governatore Trichet al Presidente del Consiglio italiano sia stato per lunghi mesi tenuto segreto all’opinione pubblica. Le politiche che quella lettera suggeriva erano piuttosto prevedibili, almeno nei loro contorni generali (dal momento che non faceva che riformulare le indicazioni che le istituzioni finanziarie internazionali prescrivono periodicamente agli esecutivi più o meno di tutti i paesi occidentali). Ma il fatto che il testo della lettera sia rimasto a lungo celato – prestandosi così a mille utilizzi, e destando molte sospettose recriminazioni – è in fondo il simbolo più efficace dalla ‘trasparenza’ così spesso evocata dall’Ue, e così clamorosamente violata. E ancor più significativo è che un organo ‘tecnico’ dell’Unione Europea – un organo ‘neutrale’ rispetto ai singoli governi nazionali, e che dunque dovrebbe mantenersi estraneo alle dinamiche politiche – abbia dettato (o suggerito) misure considerate vitali.
Al di là delle semplificazioni, l’idea di una democrazia ‘svuotata’ dei propri poteri – e di uno Stato privato della propria «autonomia» (più o meno relativa) – coglie effettivamente almeno alcuni tratti delle trasformazioni che nell’ultimo trentennio hanno attraversato i sistemi politici occidentali, proprio perché si connette con le modificazioni dell’economia globale, con la transizione geo-politica in atto e con il mutamento nel ruolo dello Stato: un mutamento per nulla scritto nelle ‘leggi’ del determinismo economico, ma in gran parte conseguenza di decisioni politiche, particolarmente evidenti nel Vecchio continente e nei paesi coinvolti nel processo di integrazione europea. E, così, non è affatto sorprendente che negli ultimi anni, per effetto di queste trasformazioni radicali – e per molti versi irreversibili – si sia consolidata nel dibattito l’idea di una modificazione strutturale delle democrazie occidentali che, sovente, sembra preludere ad una vera e propria ‘crisi’. In un testo recente, Carlo Galli – accantonando la formula ‘crisi’ – ha definito «disagio della democrazia» la condizione in cui si trova oggi l’Occidente rispetto all’ideale della democrazia e alle istituzioni democratiche. Si tratta, secondo Galli, di un disagio duplice: da un lato, «si manifesta con una disaffezione, con un’indifferenza quotidiana per la democrazia che equivale a una sua accettazione passiva e acritica, al rifiuto implicito dei suoi presupposti più complessi e impegnativi» (C. Galli, Il disagio della democrazia, Einaudi, Torino, 2011, pp. 3-4); dall’altro, è anche un disagio strutturale, un disagio che «nasce dall’inadeguatezza della democrazia, dei suoi istituti, a mantenere le proprie promesse, a essere all’altezza del proprio obiettivo umanistico, a dare a ciascuno uguale libertà, uguali diritti, uguale dignità» (ibi, p. 4). A questo disagio – soggettivo e oggettivo – vengono date però risposte diverse, sia perché la lettura delle trasformazioni in atto è differente, sia perché la stessa concezione della democrazia – dei suoi obiettivi, dei suoi fondamenti, dei suoi caratteri distintivi – risulta tutt’altro che riconducibile a un modello unanimemente condiviso. Tra gli osservatori più ‘pessiministi’, Colin Crouch, per esempio, sostiene che ci troviamo ormai in una sorta di ‘post-democrazia’, o che comunque la democrazia occidentale abbia imboccato la fase discendente della propria parabola storica (C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma – Bari, 2003). Massimo L. Salvadori definisce invece i regimi democratici contemporanei come sostanzialmente oligarchici e dominati da «plutocrazie» compatte (M.L. Salvadori, Democrazie senza democrazia, Laterza, Roma – Bari, 2009), in cui soprattutto la dimensione dell’eguaglianza sociale, grande obiettivo delle democrazie postbelliche, diventa sempre meno rilevante (come osserva per esempio N. Tranfaglia, La democrazia è ancora un’utopia?, in «l’Unità», 31 agosto 2011, pp. 40-41). Una visione sostanzialmente simile emerge anche dal quadro delineato, per esempio, da Sheldon Wolin a proposito del sistema politico americano (S. Wolin, Democrazia Spa, Fazi, Roma, 2011), oppure dalla lettura proposta da Wendy Brown, secondo cui nei paesi occidentali è in atto un processo di de-democratizzazione che comporta, fra l’altro, la fusione del potere economico con il potere statale. Altri osservatori, adottando una chiave di lettura meno pessimista, certo riconoscono la realtà di alcune trasformazioni, ma non ritengono né che la fisionomia distintiva della democrazia – ossia l’esistenza di alcune fondamentali procedure – venga colpita in modo rilevante, né che il venir meno di alcuni diritti (in particolar modo dei diritti sociali) configuri qualcosa di più che il semplice riflesso di un mutamento ideologico (cfr. in questo senso il recente fascicolo di «Paradoxa» Quelli che… la democrazia, a proposito del quale rimando alle osservazioni critiche svolte in Il rischio della critica della critica). Ma, anche in quest’ottica, difficilmente possono essere sottovalutate o negate le dimensioni delle sfide che oggi sono poste ai sistemi democratici. Perché – come ha scritto per esempio Ernesto Galli della Loggia, un osservatore tutt’altro che incline a inalberare la bandiera di una democrazia ‘tradita’ dalle promesse del liberismo economico – ciò che oggi appare messo in discussione, prima ancora delle singole politiche pubbliche, o delle linee programmatiche portate avanti dalle diverse coalizioni di governo, è la stessa capacità degli Stati democratici di ‘governare’ i molteplici flussi che attraversano i confini nazionali, o che influiscono sulle risorse a disposizione. La globalizzazione – o, prima di tutto, la sua radice tecnologica, che riduce gli spazi contraendo il tempo –  innesca processi che sfuggono totalmente, o nella massima parte, alla presa del controllo statale. Per utilizzare le parole di Galli della Loggia, la difficoltà che oggi sperimentano le democrazie occidentali «è legata alla ridotta estensione dello spazio statale, al suo restringimento di fatto, dovuto principalmente alla velocità ormai fantastica di ogni genere di comunicazione, vicino ormai al traguardo dell’istantaneità» (E. Galli della LoggiaLa democrazia non è in rete, in «Corriere della Sera», 13 settembre 2010, p. 1 e 34). Proprio per questo, la democrazia si trova – se non del tutto impotente – comunque in larga parte disarmata dinanzi a queste sfide:

«stretto come in una tenaglia dentro una spazialità da un lato dominata dall’immediatezza e dall’altro caratterizzata dalla lontananza, il regime democratico vede oltre modo indebolite le sue antiche possibilità di controllo e di autonomia). Per entrambi i versi vede assottigliarsi i margini della sua sovranità: e tanto più in quanto proprio le sue caratteristiche democratiche, la sua tutela dei diritti individuali e collettivi, rendono sempre più problematica la difesa di quella sovranità. La quale, lungi dall’essere ‘superata’ a favore di inesistenti e fantasmatiche sovranità sovra o internazionali – come credono gli ottimisti – viene semplicemente messa in mora da altre minisovranità al suo interno ovvero, dalle leggi senza volto della tecnologia, che operano nell’interesse esclusivo di sé medesime e/o degli incontrollabili interessi economici (per esempio della finanza o della grande informazione commerciale globale)» (ibidem).

Per comprensibili motivi, in Italia il dibattito teorico sulle trasformazioni della democrazia si è però intersecato con le discussioni sulle sorti della democrazia italiana, sulle ‘promesse non mantenute’ della Seconda Repubblica e del bipolarismo, oltre che sui molteplici conflitti di interesse che rendono quasi inestricabile la trama del potere. Così, la riflessione sul ‘presente’ e sul ‘futuro’ della democrazia è stata spesso declinata in una direzione specifica, che forse ha finito col rendere la matassa ulteriormente intricata, proprio perché ha condotto nel vicolo cieco dell’«anomalia italiana». Nel suo ultimo libro, La democrazia è una causa persa? Paradossi di un’invenzione imperfetta (Bollati Boringhieri, pp. 363, euro 18.00), Alfio Mastropaolo cerca invece di sbrogliare la matassa di questo dibattito, esaminando, uno per uno, i molti fili che si aggrovigliano nell’idea della ‘crisi’ della democrazia, e, soprattutto, inquadrando le trasformazioni dei nostri sistemi politici in un’ottica di lungo periodo, in grado per questo di sfuggire alle scorciatoie teoriche o retoriche e a una prospettiva eccessivamente ‘italo-centrica’.


Un’invenzione umana

Inserendosi in un dibattito ormai piuttosto affollato, il libro di Mastropaolo ha alcuni grandi meriti. Il primo consiste nel rimettere la democrazia ‘con i piedi per terra’, ossia nel ‘demitizzare’ il concetto di democrazia, distinguendo la storia dell’ideale – che percorre la vicenda occidentale con alterne fortune e che si intreccia con le aspirazioni all’eguaglianza politica, giuridica e sociale – dalla concreta realtà delle istituzioni politiche rappresentative. Per molti versi, Mastropaolo, sotto questo profilo, si limita a segnalare un punto che la retorica celebrativa della «fine della Storia» ha finito con l’offuscare, e da cui è stato contagiato – in modo purtroppo non episodico – anche il campo di quanti, per mestiere, studiano le trasformazioni dei sistemi politici. Mentre rifiuta l’immagine che rappresenta la democrazia liberale contemporanea come il punto di arrivo dell’evoluzione politica e ideologica del genere umano, Mastropaolo non offre però soltanto un antidoto al profluvio retorico dell’ultimo ventennio, perché consente anche di considerare la democrazia contemporanea come un ‘prodotto’ storico, risultato di scontri, di conflitti, di soluzioni non sempre preordinate, oltre che come un’«invenzione imperfetta». Ed è infatti proprio l’adozione di questa prospettiva analitica che spinge Mastropaolo a collocare la storia intellettuale e politica della democrazia contemporanea in un quadro articolato, capace di tenere insieme dimensioni diverse.
Prima ancora di formulare previsioni sul futuro della democrazia, Mastropaolo invita infatti alla cautela a proposito del modo di utilizzare la stessa parola ‘democrazia’ e della tentazione di attribuire al regime democratico promesse che non può mantenere. Benché sia una formula straordinariamente evocativa, la ‘democrazia’ – ricorda Matropaolo proprio nelle prime pagine – è un’«invenzione umana e un fatto storico»:

 «Anche se ne ha la pretesa, non è il sommo bene. Non è il destino della specie, né una necessità. Ha avuto un’origine da qualche parte, donde si è largamente diffusa, modificandosi e adattandosi, ed è destinata ad avere una fine. Come per tutti i fatti storici, un largo margine di casualità ne segna nascita, fortuna e traversie» (ibi, p. 7).

Nel corso del tempo, soprattutto dopo la fine del blocco sovietico, la democrazia ha mostrato tutta la sua «smisurata ambizione», diventando «una parola magica, che beneficia di un pregiudizio positivo resistente a qualsiasi riserva e che consacra tutto quanto riveste, che annuncia addirittura l’impegno a trasformare i governati in governanti e quindi ad abrogare il potere» (ibidem). Ma la democrazia non può davvero mantenere l’altisonante promessa di consegnare il potere al popolo e di trasformare i governati in governanti (e anche per questo – come suggerisce Robert Dahl – sarebbe forse più appropriato definire i sistemi politici occidentali come ‘poliarchie’). Al di là della retorica, ciò che chiamiamo ‘democrazia’ è infatti – come scrive Mastropaolo – solo una «tecnologia del potere»:

«Spogliata dei suoi sacri paramenti, la democrazia è null’altro che una tecnologia del potere trattante, utile a coordinare, prescrivere, condizionare, orientare la condotta d’individui e gruppi sociali, quindi a regolare la vita collettiva e a dirimere i conflitti che la agitano. Storicamente si è rivelata in special modo appropriata alle società differenziate e pluralistiche proprie della modernità, ma il nesso non è obbligato: tali società le si è governate anche reprimendo il pluralismo e imponendo il conformismo» (ibi, p. 26).

Mastropaolo non si limita però a spogliare la democrazia dei suoi abiti più solenni, perché mostra anche come qualcosa nell’ultimo trentennio – a dispetto di un’apparente continuità – sia effettivamente cambiato. In primo luogo, secondo il politologo, è infatti cambiato il nostro modo di concepire la democrazia. Se nel secondo dopoguerra, la democrazia viene incardinata nei partiti e nelle organizzazioni sociali, che hanno sia la funzione di aggregare e mediare gli interessi, sia quella di integrare i gruppi nello Stato, a partire dagli anni Ottanta la democrazia tende invece a essere concepita – non solo nel dibattito teorico – come la forma di regime in cui i cittadini designano i loro governanti in elezioni competitive, in modo analogo a quanto fanno i consumatori scegliendo il prodotto preferito tra quelli che offre il mercato. Un simile passaggio – che ovviamene riflette una modificazione nelle relazioni sociali e nei rapporti di forza – viene in parte testimoniato a livello teorico dal contrasto fra i sostenitori di una ‘democrazia sostanziale’ e gli alfieri di una concezione puramente ‘procedurale’ della democrazia: un contrasto che ha radici profonde e che si protrae fino a oggi. Scrive Mastropaolo a questo proposito:

 «Per quanti sforzi di conciliazione si compiano, in sede politica come in sede teorica la controversia tra democrazia formale e sostanziale resta al momento insolubile. Meglio: il proceduralismo prevale. Alla contesa sul significato sono palesemente sottesi un conflitto di valori e una lotta di potere, che sono la stessa cosa. I regimi democratici sorti nel secondo dopoguerra coniugavano, nei loro stessi dettati costituzionali, le due dimensioni, ma l’accordo era provvisorio ed è stato disdetto. I due significati della parola democrazia si sono allontanati, addirittura entrando in collisione. Che non convegna contentarsi della convergenza attorno alla democrazia procedurale, che dovrebbe almeno rendere pacifico il confronto?» (ibi, p. 37).

Anche se, sotto un profilo strettamente teorico, la contrapposizione fra visioni ‘sostanzialiste’ e visioni ‘proceduraliste’ non è risolvibile, Mastropaolo osserva però che la questione, dal punto di vista storico, presenta un paradosso che non può essere sottovalutato:

Il paradosso è che, una volta ridotta la democrazia a procedura, non è affatto scontato che alle sue politiche non sia prescritto alcun contenuto. Anche quando la si vorrebbe addirittura scheletrica, scarnificata da ogni impedimento alla sovranità popolare, ridotta a poche regole e a qualche minimo presupposto, essa è ben in carne. Se la democrazia – procedurale – è un modo per regolare la competizione politica, un contenuto è prescritto alle politiche democratiche anche quando ci si s’impunta a vietarne ogni altro. In teoria la democrazia procedurale consente il welfare e può non consentirlo. Ma, se siamo realisti, la storia non passa invano. Dopo una lunga stagione di attenzione a un certo tipo di misure politiche, rivendicare un  proceduralismo sbrigativo e disseccato implica ufficializzare l’indifferenza della democrazia alle diseguaglianze. Definire democraticamente illegittimo, dopo decenni di Stato sociale, che chi governa si astenga di fronte alla povertà, alla malattia, all’ignoranza, e affidare ogni intervento riparatorio ai governanti in carica, implica riconoscere piena legittimità alle diseguaglianze, non senza vantaggio per i ceti abbienti» (ibi, p. 39).

In altre parole, l’idea che la democrazia debba essere definita soltanto da una serie di procedure non risolve i problemi una volta per tutte, perché non si possono sottovalutare i mutamenti che, nel corso del Novecento, sono avvenuti proprio in ordine alle procedure, e che hanno prodotto non poche conseguenze sulle dinamiche delle democrazie occidentali. Proprio esaminando queste trasformazioni ‘nelle’ procedure, Mastropaolo colloca il mutamento delle democrazie occidentali in un quadro più ampio, che coinvolge i processi economici e gli assetti sociali.



Democrazia e post-fordismo

Nel corso della sua analisi, Mastropaolo individua cinque grandi modificazioni ‘nelle’ procedure. Le prime – l’universalizzazione del suffragio e l’intensificazione dei diritti – avvengono nelle prime stagioni della democratizzazione. Le altre – il ridimensionamento del potenziale di mobilitazione dei grandi numeri, la limitazione del campo di applicazione delle procedure democratiche più restrittive (per esempio, mediante l’istituzionalizzazione delle procedure di governance, o l’introduzione di autorità indipendenti), l’adozione procedure di governo d’emergenza – risalgono invece agli ultimi tre decenni, e accompagnano una trasformazione che innesca la riduzione nella garanzia dei diritti. A questa modificazione nel concetto di democrazia si accompagnano – e si affiancano – anche mutamenti profondi nella società e nei sistemi politici. Ed è proprio a questo livello che è possibile riconoscere il secondo merito dell’operazione di Mastropaolo. La gran parte del dibattito politologico tende infatti a considerare la democrazia – le sue trasformazioni storiche, le tappe della democratizzazione, il rendimento istituzionale, o persino la ‘qualità’ di un regime democratico – come il prodotto di circostanze che stanno ‘al di fuori’ del sistema politico, e che possono riflettersi – più o meno direttamente – sulla dinamica e sull’efficienza delle istituzioni. Per esempio, la ‘cultura politica’ o il ‘capitale sociale’ possono favorire la stabilità o l’efficienza del sistema, una determinata configurazione dell’economia può determinare un assetto economico-sociale che va a incidere positivamente o negativamente sulla vitalità della ‘società civile’ e, dunque, sulle stesse istituzioni democratiche, o, infine, la presenza di fratture nel tessuto culturale di un Paese può rendere più difficile la formazione di esecutivi omogenei e stabili. In ognuna di queste ipotesi – che ovviamente continuano a fornire contributi validi – la connessione fra ‘società’ e ‘politica’ appare – come nella metafora sistemica – come il rapporto che si viene a creare fra l’ambiente e una ‘scatola nera’ in cui si prendono le decisioni politiche: si tende perciò a pensare alla politica, al sistema politico e ai suoi attori, in termini funzionali rispetto all’ambiente sociale e alle sue mutevoli richieste. Col risultato che la ‘politica’ è pensata come un insieme di apparati che sono chiamati a ‘rispondere’, con politiche più o meno appropriate, alle richieste provenienti dalla società, e che invariabilmente appaiono in ‘ritardo’ rispetto ai mutamenti.
Molto probabilmente, è invece più utile adottare uno schema che, pur senza invertire l’ordine dei fattori (e dunque senza evocare l’idea di una politica capace di plasmare la società a propria immagine e somiglianza), consideri i mutamenti del sistema economico-sociale e del sistema politico in parallelo, come dimensioni differenti ma connesse delle relazioni di potere che si producono nella società. Mastropaolo compie proprio un’operazione di questo genere, perché la sua analisi delle trasformazioni che avvengono ‘nelle’ procedure democratiche è inserita nel quadro di un grande processo, che il politologo descrive nei termini di un passaggio cruciale dal «capitalismo organizzato» a un «capitalismo disorganizzato», e cioè all’assetto post-fordista.
Per quanto le modalità con cui il dibattito ha dato conto di questo insieme di processi siano molto differenti, gli elementi di fondo su cui Mastropaolo di concentra sono tre: a) il processo di globalizzazione economica; b) la decadenza dell’azione regolatrice dello Stato; c) la rottura del precedente assetto di relazioni industriali e la modificazione del profilo del lavoro dipendente (ibi, pp. 89-92). Pertanto, la traiettoria seguita a partire dagli Ottanta appare segnata da una logica interna piuttosto coerente:

«Inaugurato da una straordinaria rivoluzione tecnologica, quella dell’informatica, il trentennio postfordista è segnato da una manovra politica fondamentale. Da un lato lo Stato ha rinunciato a difendere l’occupazione, pubblica e privata, e i servizi pubblici, a benefico della crescita economica e dei profitti delle imprese. Da lato opposto, col pieno consenso delle autorità politiche nazionali e sovranazionali, i frutti della crescita, i profitti imprenditoriali, ma anche i risparmi delle famiglie e gli accantonamenti pensionistici, sono stati dirottati nel gorgo della speculazione finanziaria globale. Non tutti i risparmi, ma in misura variabile, e con un grado di consapevolezza diversa da parte degli attori, senza tuttavia sortire significative riduzioni della spesa pubblica, perché altre esigenze erano insorte nel frattempo, né sempre si è ridotta la pressione fiscale, mentre è in genere cresciuto il costo dei servizi. Di contro, tra attività finanziarie e attività produttive si è aperto un drammatico contrasto, a tutto vantaggio delle prime. A ulteriore discapito degli investimenti, dell’occupazione, nonché del benessere dei cittadini e della stessa coesione sociale» (ibi, pp. 93-94).

In parallelo al passaggio dal «fordismo» al «post-fordismo», la transizione alla stagione del «post-materialismo» scava in profondità sotto il terreno dei grandi soggetti della politica. In qualche misura, sembra prodursi un doppio movimento, perché l’azione ‘dall’alto’ – nei processi economici e politici – trova un corrispettivo al livello delle relazioni interpersonali. Così, mentre lo Stato e i partiti perdono (anche per propria decisione) potere di intervento nella sfera economica e sociale, la stessa politica – con i suoi grandi ideali e i suoi miti novecenteschi – viene di fatto logorata da una costante azione di ‘delegittimazione’, proveniente dal ‘basso’, dalla società.
A segnare la tappa di un passaggio d’epoca è – secondo Mastropaolo – il celebre La crisi della democrazia, il rapporto alla Commissione Trilaterale steso da Crozier, Huntington e Watanuki, alla metà degli anni Settanta, perché proprio in quel rapporto il politologo intravede tanto i segnali di una lettura destinata a imprimersi nell’immaginario dei decenni seguenti, quanto l’anticipazione di una serie di linee di intervento politico che, di lì a poco, tutti i governi occidentali avrebbero adottato in modo più o meno coerente (ibi, pp. 140-141). Il rapporto scandiva, secondo Mastropaolo, «il transito dal paradigma democratico di matrice kelseniana a quello postdemocratico, di cui Schumpeter è fondamentale – benché un po’ tradito – ispiratore» (ibi, p. 142). Nel rapporto si possono così trovare le tracce originarie di quella trasformazione che investe le democrazie occidentali: secondo Mastropaolo, si registra una passaggio da un modello ‘kelseniano’ di democrazia – in cui sono fondamentali le procedure, ma in cui esse prevedono per esempio la costante ricerca del compromesso fra le diverse parti della società, un ruolo cruciale da parte dei partiti politici, la rappresentanza politica proporzionale – a un modello ‘schumpeteriano’, all’interno del quale la partecipazione popolare si risolve sempre più nella semplice indicazione del leader, oltre che nella decisione delle sorti della competizione elettorale. Un simile passaggio ha ovviamente i suoi effetti (oltre che alcune sollecitazioni) anche nel dibattito politologico, all’interno del quale la proposta schumpeteriana viene ulteriormente superata ed estremizzata, in una combinazione fatale con gli assunti di un liberalismo economico spesso non immune da deformazioni biecamente ideologiche. E le ricadute sul terreno dell’indagine della scienza politica finiscono con l’incoraggiare spesso l’abbandono di qualsiasi spirito critico e col produrre un’autentica rivoluzione lessicale, su cui Mastropaolo si sofferma, non senza una condivisibile ironia:

«Tutto un dizionario di parole e concetti è caduto in desuetudine: le classi, lo Stato, la solidarietà, l’eguaglianza, il collettivo, il pubblico, l’interesse generale, il bene comune, il collettivo, l’interesse generale, il bene comune, il partito, il lavoro, il compromesso. Al loro posto sono balzati in primo piano l’individuo, il mercato, l’impresa, la governabilità, il profitto, il merito, la leadership, cui da ultimo, quando si sono cominciate ad apprezzare le inefficienze, malgrado tutto, del mercato, e le manchevolezze del nuovo ordine democratico, si sono aggiunti, oltre all’ormai onnipresente società civile, l’identità, il capitale sociale, i legami deboli, i networks, la trasparenza, l’accountability, la sussidiarietà, la governance, il nonprofit, il terzo settore e via di seguito. Non li abbiamo citati neanche tutti, ma c’è di che riempirne un dizionario» (ibi, p. 151). 

Se la «democrazia organizzata» postbellica si reggeva su partiti e organizzazioni degli interessi (associazioni imprenditoriali e sindacati), e se proprio per questo riusciva a ‘organizzare’ la vita collettiva, a partire dagli anni Ottanta proprio questi pilastri si sgretolano gradualmente. Si sgretolano per effetto dei mutamenti economici, ma anche in seguito a quella modificazione ‘culturale’, che allontana i cittadini dai partiti e che favorisce invece la moltiplicazione di mobilitazioni al di fuori dei canali istituzionali della rappresentanza. In realtà, nessuna delle grandi promesse del neo-liberalismo è stata davvero mantenuta, e Mastropaolo segnala per esempio come il livello della spesa pubblica – a dispetto di tanta retorica – non sia diminuito negli ultimi decenni, ma abbia semmai fatto segnare un riorientamento. Inoltre, non è neppure corretto descrivere questo insieme di processi nei termini di una «spoliticizzazione», perché – come scrive - «è politico anche il diverso dosaggio di dispositivi regolativi, così come sono politici i processi di alienazione del settore pubblico dell’economia, nonché le nuove gerarchie del potere stabilitesi nelle società democratiche a seguito dei processi privatizzazione e deregulation e della cessione di cospicue competenze alle autorità sovranazionali» (ibi, p. 167). Infine – e questo è un passaggio estremamente importante – l’apparente ‘declino dello Stato’ ha coperto, in realtà, la crescita della discrezionalità di autorità tecniche, burocratiche e anche politiche (ibi, pp. 167-171), tanto che si è trattato di un processo, al tempo stesso, di ‘spoliticizzazione’ e ‘politicizzazione’, come nel caso emblematico del New Public Management:

"La politicità della burocrazia weberiana è stata negata, ma in compenso è cresciuta la sottomissione formale dei suoi vertici al potere esecutivo. È quest’ultimo che detta gli obiettivi di gestione, che sceglie il management – secondo criteri fiduciari e non senza qualche sospetto di spoil system – e ne verifica i risultati, proiettando su di esso i suoi orientamenti politici. Allontanate le amministrazioni dai partiti, si è soprattutto ristretto il luogo a cui provengono le pressioni della politica, potenziando tali pressioni con l’abbattimento di antiche barriere – il monopolio delle procedure e il rispetto delle norme – che proteggevano, seppur imperfettamente, le ex burocrazie weberiane, oggi riconvertite all’efficienza e alla discrezionalità del management" (ibi, p. 171).

In questo modo, allora, il passaggio verso la ‘post-democrazia’ schumpeteriana non configura affatto quel ‘dimagrimento’ dello ‘Stato panciuto’ di cui hanno parlato molti osservatori – deviati da uno schema liberale, che contrappone meccanicamente ‘Stato’ e ‘mercato’ – bensì una modificazione nella logica di erogazione della spesa pubblica e dell’intervento statale. Una modificazione che non ha certo ‘eliminato’ la politica, ma che ha piuttosto spostato il potere decisionale in un ambito ‘tecnico’:

"Ridisegnando la stateness, si sono volute sottrarre a quest’ultima ampie porzioni di potere, per trasferirle a un’altra politica, fatta dalle authorities, dalle banche centrali, dagli esperti, dagli attori del mercato. Con ciò, un’accanita – e cruciale – partita si è giocata proprio tra gli addetti alla politica, la quale ha tra loro istituito nuove gerarchie e una nuova organizzazione del lavoro" (ibi p. 183).

Le trasformazioni nella stateness sono ovviamente strettamente correlate al mutamento che avviene nel «secondo fondamentale pilastro» della democrazia organizzata, e cioè i partiti, oltre che nella composizione e nel ruolo della classe politica. A questo proposito, sintetizzando i risultati di una sterminata letteratura, Mastropaolo ricostruisce le traiettorie di un processo che inizia a modificare il profilo del partito già a partire dagli anni Sessanta, da quando Otto Kirchheimer prese a intravedere i contorni del catch-all-party. Ma si tratta naturalmente di una dinamica che subisce un’accelerazione a seguito dell’impatto della logica mediatica, che d’altronde – e Mastropaolo lo sottolinea – i partiti stessi incoraggiano, senza essere così del tutto passivi e disarmati dinanzi all’incedere della mediatizzazione (cfr. ibi, pp. 201-203). E, soprattutto, si tratta di un processo che si interseca con quella ‘presidenzializzazione’ strisciante che investe i sistemi politici occidentali e che altera la classica distinzione fra legislativo ed esecutivo. 
A dispetto della reiterata critica mossa ai partiti – e alla «partitocrazia» – di essere soltanto latori di interessi specifici, settoriali, ‘di parte’, la ridefinizione del loro ruolo e della loro fisionomia ha condotto al paradosso di un ritorno in scena, da protagonisti, degli interessi frazionali. «Tra le accuse più frequenti rivolte ai partiti» - scrive Mastropaolo - «c’è quella di veicolare interessi parziali. Anche a prenderla sul serio, e a credere nell’esistenza di un interesse generale, difficile è però negare che se non vi fossero stati partiti in grado di rappresentare gli interessi diffusi e di mobilitare i grandi numeri, alcuni interessi parziali – quelli degli ambienti economici – avrebbero ottenuto un ascolto predominante. Che è quello che da ultimo sta accadendo» (ibi, p. 217). Naturalmente, Mastropaolo si riferisce non soltanto agli interessi economici, ma in generale agli ‘interessi concentrati’. Il punto è però che la pressione di tali gruppi sulle istituzioni di governo non può che crescere proprio contestualmente all’erosione del ruolo di linkage fra cittadini e istituzioni in precedenza assolto dai partiti e dal sistema partitico nel suo complesso. 
Il politologo non esclude che la mobilitazione torni in futuro a essere ‘incapsulata’ all’interno delle organizzazioni partitiche, ma deve prendere atto che oggi non ci sono segnali rilevanti che paiano preludere a una simile eventualità. Anche perché – sottolinea Mastropaolo – i partiti stessi sembrano rimanere soggiogati dal potere suggestivo della «democrazia dello scontento», ossia di quel «racconto di successo» (ibi, p. 220) che rappresenta i cittadini come insoddisfatti, delusi, disincantati rispetto alla democrazia e alla politica. Segnali in questa direzione provengono dal calo della partecipazione alle consultazioni elettorali (benché non manchino controtendenze e nonostante molti studiosi non ritengano simili dati rilevanti per valutare lo stato di salute di una democrazia), dalle differenze fra astensione sistematica e abituale, dall’aumento della volatilità elettorale, o dalle rilevazioni sul clima di opinione, che più o meno in tutti i paesi occidentali fanno registrare da anni un’altissima sfiducia nei confronti della politica. Tutti questi segnali – avverte però Mastropaolo – sono a loro volta la conseguenza di quello stesso mutamento che è andato a colpire i pilastri della «democrazia organizzata». Non si tratta, cioè, esclusivamente di un cambiamento culturale, bensì anche di un cambiamento che gli stessi partiti hanno più o meno implicitamente alimentato: abbandonando la funzione di canalizzatori del dissenso sociale verso determinati obiettivi politici e verso il personale politico (e quantomeno verso una sua parte), gli stessi partiti hanno infatti contribuito a radicare i sentimenti di insoddisfazione e discredito. «A osservare gli attori politicamente rilevanti che gareggiano nel classificare come malessere atteggiamenti e gesti ben più articolati», scrive per esempio Mastropaolo, «appare legittimo il sospetto che la politica stessa si presti a recitare la parte del capro espiatorio di quanto nella società non funziona e d’ogni sorta di malcontento» (ibi, p. 250). In sostanza, il personale politico non solo non ha tentato di rigettare l’accusa rivolta contro la politica, ma ha addirittura trasformato l’antipolitica in una preziosa risorsa retorica. «Per questo, oltre ad abusare imprudentemente dei media e dei sondaggi, senza posa ripetono imprudentemente il racconto del malessere, sebbene ne patiscano l’azione corrosiva», e, «inoltre, verso la politica mostrano essi stessi un atteggiamento non solo critico, ma irriverente, quando non sprezzante» (ibi, p. 251).
Rispetto al quadro postbellico, anche la democrazia contemporanea si basa su un armistizio, benché le clausole siano ben differenti rispetto a quelle del passato. «Se tuttavia nel corso del primo ciclo il mondo del lavoro era ritenuto politicamente troppo forte per rischiare la collisione, nel secondo altrettante energie sono state spese per disperderlo, per naturalizzare le diseguaglianze e per riformulare l’idea stessa di conflitto» (ibi, p. 314). Così, benché sotto il profilo formale non siano intervenute rotture, nella realtà la dinamica appare come nettamente diversa:

«L’armistizio postbellico presupponeva il conflitto di classe e provava a mediarlo. Nell’attuale situazione il conflitto parrebbe scomparso, insieme alle classi sociali. Non ritenendolo più una risorsa politicamente spendibile – anche nelle forme più disciplinate che aveva assunto – l’azione collettiva è stata screditata e riclassificata come spreco e motivo di disturbo. Ma parcellizzare e occultare il conflitto non basta a cancellarlo. Ne mutano semmai forme e direzione. Il conflitto verticale tra classi superiori e classi subordinate non procede dal basso verso l’alto, ma dall’alto verso il basso. Inaspettatamente si è acceso un micidiale conflitto ridistributivo all’incontrario. Il mondo imprenditoriale, i manager pubblici e privati, le professioni autonome, i ceti superiori – l’inventario è impreciso – hanno beneficiato di un’impressionante ridistribuzione di risorse, mentre una sorda conflittualità orizzontale si registra fra le altre classi, le cui straificazioni interne si sono complicate» (ibi, p. 315).

Per effetto dell’azione combinata di questi fattori, nella «democrazia disorganizzata» le oligarchie finiscono col conquistare un ruolo sempre più significativo, e i «piani alti» dei nostri sistemi democratici tendono a diventare sempre più distanti dai ‘piani bassi’. Ai vertici, si assiste – a tutti i livelli di governo – a una presidenzializzazione che consegna il potere decisionale ai leader eletti, sempre meno vincolati dal controllo delle assemblee rappresentative. Alla base, invece, una molteplicità di associazioni e soggetti più o meno connotati politicamente si contende lo spazio della partecipazione. Forse – osserva Mastropaolo – si tratta delle prime tracce di una nuova ‘divisione del lavoro’, e dunque dei primi segnali di ciò che potrà diventare nel futuro la democrazia, in cui le pratiche deliberative potrebbero avere un ruolo significativo (ibi, pp. 335-337). Ma non è neppure da escludere che si tratti di un’involuzione, e, anzi, l’intreccio di tutte queste tendenze è tale da suggerire quantomeno l’ipotesi che la divaricazione fra «piani alti» e «piani bassi» configuri una vera e propria rivincita delle oligarchie e una trasformazione radicale della dinamica democratica. Come scrive Mastropaolo a questo proposito:

«Ciò invita a concludere chiedendosi se la mutazione che ha investito i regimi democratici non sia per caso paragonabile per la sua portata a quella imposta ai regimi rappresentativi dal suffragio universale, salvo che è di segno opposto. Che non sia in atto una rivincita contro quest’ultimo, senza neanche prendersi il disturbo di revocarlo?» (ibi, p. 338).

Il quadro così delineato è quantomeno piuttosto fosco, ma la crisi economica che stiamo vivendo dal 2008 getta un’ombra ancor più sinistra sul nostro futuro. Tanto che Mastropaolo si chiede se davvero la democrazia potrà sopravvivere al declino del benessere materiale, all’aumento delle diseguaglianze sociali, alla crescita del disordine, al mutamento degli equilibri internazionali che le trasformazioni dell’economia mondiale sembrano portarci in dote. Mastropaolo non sposa interamente la tesi della ‘crisi’ della democrazia, e tantomeno l’idea che la democrazia si sia già trasformata in qualcosa di diverso, in un regime autoritario o ‘plutocratico’ travestito di abiti seducenti. Ma, al tempo stesso, riconosce che, dentro il guscio della democrazia contemporanea, si è prodotta una modificazione che autorizza almeno il sospetto che, dietro la continuità formale, dietro la conservazione delle ‘procedure’democratiche (o quantomeno dietro il rispetto di procedure scheletriche), si nasconda di fatto una rottura:

«Ciò, a quanto pare, non autorizza a parlare di lesa democrazia. La democrazia delle regole minime è tollerante e può farsi con tanti mezzi. Democrazia si chiamava quella vigente in precedenza, democrazia seguita a chiamarsi quella attuale. Se non che, cambiata la società, disperse di sicuro simbolicamente e politicamente le classi sociali, riaggiustate, senza bisogno di rumorosi sommovimenti, le regole del gioco, i risultati – o le politiche – sono ben altri e altre le gerarchie statali. E l’homo democraticus plasmato dalla cultura individualista e pro-market, nobilitata dai diritti o tempestata dalla società civile e dal comunitarismo Third way, è ben diverso, sul piano normativo e su quello dei comportamenti sociali, da quello forgiato dalle culture politiche di marca solidarista – socialista e non solo – che avevano contrastato in passato la differenziazione e il pluralismo suscitati dalla modernità e dall’industrializzazione. C’è dunque da domandarsi se l’accanimento con cui si difende l’impiego del medesimo termine serva volutamente a occultare una rottura anziché indicarne una continuità» (ibi, p. 341).

In effetti, nella democrazia odierna, secondo Mastropaolo, si cela proprio il «privilegio di pochi» (ibi, p. 341), e inoltre l’attuale riconfigurazione degli equilibri mondiali fa presagire un’ulteriore abbassamento dei livelli di benessere delle società occidentali, con conseguenze non certo positive sui sistemi politici democratici. Così, il politologo – formulando nelle pagine conclusive una previsione segnata da un certo pessimismo –  si chiede se la democrazia non sia ormai una «causa persa», nel senso in cui ne parlava Edward E. Said, ossia una causa nobile, ma per cui è ormai del tutto inutile combattere: 

«se è consentito all’autore di queste pagine avanzare – alla luce dei valori equipaggiato dei quali anch’egli partecipa al complicato gioco democratico, nonché degli strumenti interpretativi di cui dispone – qualche previsione sullo stato futuro del mondo, la sola che verrebbe di fatto di azzardare, è che la democrazia è una causa persa. Anche se resta una causa nobile. I suoi principi ispiratori – la libertà e il rispetto dell’altro – e la sua ambizione di pacificare il conflitto, di contenere e civilizzare il potere e metterlo al servizio della collettività, sono di alto pregio. Purtroppo, le regole democratiche sono quel che sono, cioè imperfette. Da esse, di per se stesse, è arduo cavare più di tanto. Il resto tocca alla politica che, ultimamente, per gran parte dei governanti si è fatta molto avara» (ibi, p. 345).

Mastropaolo non rinuncia a riconoscere – già nel nostro presente – i segnali di una possibile inversione di rotta. «Se la condizione attuale delle società democratiche – e del mondo intorno ad esse – è come sempre instabile», scrive infatti il politologo, «come sempre non mancano uomini e donne che non solo ragionano e discutono, ma che sono pure disponibili a incantarsi». A dispetto di tutti quei segnali che inducono a previsioni funeste, diventa così possibile concedere almeno uno spiraglio alla democrazia. Anche perché, come conclude, «se l’ottimismo sovente è fatuo, il pessimismo ancor più spesso è ottuso» (ibi, p. 353). 


Democrazia e potere

L’immagine di una democrazia ‘commissariata’ dalla Bce, o la sagoma scheletrica di una politica ‘svuotata’ dal pervasivo potere dei mercati, dicono naturalmente solo una parte della realtà. Non tanto perché – come ha sostenuto per esempio Barbara Spinelli (L’irruzione della realtà, in «la Repubblica», 10 agosto 2011, p. 1) – gli Stati del Vecchio continente abbiano effettivamente e definitivamente rinunciato alla loro sovranità (a meno di non ‘reinventare’ il concetto di sovranità, o di equiparare l’Unione Europea a uno Stato sovrano). Quanto perché proprio una simile rappresentazione finisce col costituire un’attenuante nei confronti dei governi occidentali, i quali – nel momento in cui ritraggono se stessi come semplici esecutori delle direttive delle istituzioni sovranazionali o della volontà un mercato onnipotente e incontrollabile – finiscono di fatto con lo scaricare su altri soggetti ogni responsabilità politica, e prima di tutto la responsabilità di non avere compreso – né ora, né dieci anni fa – la portata della modificazione geo-politica e geo-economica in atto. Il fatto che la rappresentazione di una democrazia ‘svuotata’ dai mercati e di una sovranità insidiata dal potere dell’economia globale sia solo in parte adeguata a comprendere la realtà, non significa però che l’impotenza degli Stati e della politica sia oggi solo l’effetto di una distorsione ottica. Piuttosto, i rapporti fra Stato e mercato, fra politica ed economia, fra la democrazia e ‘globalizzazione’, vanno inseriti in un quadro più ampio, in cui i rapporti economici, gli assetti sociali, le dinamiche istituzionali sono il risultato delle relazioni di potere e del loro mutamento storico. In altri termini – come rileva anche Mastropaolo – persino la democrazia contemporanea può essere considerata come un «armistizio», ma si tratta di un armistizio molto diverso da quello del passato. L’ascesa della finanza e il passaggio a un regime di accumulazione trainato dalla finanza richiedono infatti forme conflittuali radicalmente differenti rispetto alla stagione fordista. In questa transizione, la politica non gioca un ruolo secondario, e non si limita a subire gli effetti della globalizzazione. Gli Stati – e dunque le democrazie occidentali – agiscono con un ruolo di primo piano nel destrutturare l’assetto fordista, e dunque nel superare l’«armistizio» postbellico, per il semplice motivo che questa strada consente – o almeno ha consentito fino a un certo momento – di superare la ‘stagnazione’ e la ‘crisi’ degli anni Settanta. Oggi la fase di ascesa del ‘post-fordismo’ è probabilmente ormai giunta al termine, o quantomeno si sono esauriti i benefici che la finanziarizzazione ha parzialmente consentito, e così si scopre quanto le speranze riposte in una nuova fase di accumulazione fossero in gran parte illusorie. Il punto è però che – dopo questa lunga stagione – sul tappeto non rimane più alcun soggetto capace di esercitare un potere di contrattazione e interdizione all’interno della contrapposizione capitale-lavoro. In altri termini, per quanto esista un nesso fra il lavoro e il capitale finanziario, e dunque fra ‘economia reale’ ed ‘economia finanziaria’, non si tratta di un legame che consente la strutturazione di soggetti conflittuali, e perciò non esistono margini reali per la regolazione delle tensioni sociali. Se da un lato il versante degli interessi imprenditoriali appare frammentato, dall’altro la forza materiale di ciò che rimane del lavoro organizzato, polo cruciale del vecchio assetto fordista, è inadeguata: inadeguata non tanto per pensare il conflitto o per impostare singole vertenze, quanto per ipotizzare una strutturazione del conflitto e una sua regolazione. Così, se l’armistizio che reggeva la democrazia di ieri appare ormai superato in mille direzioni, e se le condizioni interne e internazionali che resero possibile e necessario quell’assetto sono ormai definitivamente tramontate, diventa invece molto difficile ipotizzare se, come e quando si giungerà a un nuovo armistizio. Tanto che risulta impraticabile anche solo pensare quali soggetti potrebbero sedersi al tavolo della tregua (a meno di non credere alle formule rituali della concertazione).
Negli ultimi anni, il dibattito si è spesso soffermato sulle possibilità che offrono le pratiche deliberative. Nel suo recente Democrazie (Il Mulino, Bologna, 2011), Donatella della Porta propone una rassegna di queste posizioni, e soprattutto sostiene che si tratta, forse non di un’alternativa, ma comunque di uno strumento in grado di rispondere alle sfide cui è sottoposta la democrazia liberale rappresentativa. Anche Mastropaolo – come si è visto – prende in considerazione questa ipotesi e valuta persino l’eventualità che l’affermarsi di una sorta di ‘contropotere’ dal basso possa prefigurare un’inedita forma di divisione dei poteri. Ma se nel suo precedente volume La mucca pazza della democrazia (Bollati Boringhieri, Torino, 2005) assegnava a questa ipotesi una maggiore credibilità, oggi pare invece abbandonare alcune delle precedenti speranze. E scrive per esempio che la proliferazione dei fenomeni di ‘auto-organizzazione’ della società civile, mentre punta alla costruzione di spazi di partecipazione oltre i partiti, potrebbe addirittura legittimare l’approfondimento della separazione fra «piani alti» e «piani bassi»:

«Nei regimi democratici tra piani bassi e piani alti il rinnovamento delle procedure ha promosso un singolare processo di dissociazione. Ai piani alti vige la presidenzializzazione, o qualcosa di assimilabile. A loro volta società civile, associazioni, movimenti, istanze deliberative, stake-holders, si disputano accanitamente lo spazio della partecipazione: per la negoziazione spiccia e per la protesta. Solo che ciò avviene prevalentemente ai piani bassi, ma ai piani alti suscita non poco imbarazzo. Potrebbe essere il segno di una divisione del lavoro in via di perfezionamento. La presidenzializzazione semplifica all’estremo l’eterogeneità dei governati intorno al leader da essi eletto. Dal canto opposto, la governance e tutto il resto permettono al popolo – seppur ridotto alle sue parti ritenute politicamente significative – di far sentire le sue tante voci. Il parlamento e il governo locale fanno da riempitivo, seppure non irrilevante, mentre l’atmosfera è impregnata da mille retoriche in contrasto, tra cui quelle dedicate alla trascendenza del collettivo e al protagonismo della cittadinanza. In aggiunta, un po’ di eccitazione antipolitica e pseudopolitica sembra ai governanti così conveniente da promuoverla essi stessi» (A. Mastropaolo, La democrazia è una causa persa?, cit., pp. 337-338). 

A ben vedere, è molto difficile non condividere il pessimismo di Mastropaolo anche a questo proposito. Non certo perché la richiesta di partecipazione da parte della società o la sperimentazione di pratiche deliberative siano fenomeni deprecabili. Ma perché affidare a strumenti di questo tipo le residue speranze di rivitalizzare la democrazia contemporanea rischia di condurre a una disillusione quasi inevitabile. Per molti versi, sarebbe come pretendere di combattere una guerra opponendo truppe male armate di volontari a un esercito di professionisti ben equipaggiati e dotati di ogni ritrovato tecnologico: forse può consentire una resistenza efficace, forse può persino dare la possibilità di spingere sulla difensiva le truppe avversarie, ma non può certo condurre a uno stabile armistizio, non può portare all’affermazione di un reale equilibrio di poteri. E, soprattutto, non può ‘mettere in forma’ i magmatici conflitti del XXI secolo e i soggetti frammentati che nascono nelle reti e nei flussi del capitalismo cognitivo.
Dinanzi a questa situazione non ci sono soluzioni facili, e cadere nella tentazione dell’anti-politica è quasi inevitabile. Probabilmente, le ondate – comprensibili e giustificabili – di sentimenti antipolitici, di disgusto nei confronti del ceto politico, di ‘indignazione’ nei confronti delle istituzioni finanziarie, non possono dare una spinta reale alla definizione di un ‘armistizio’, capace di dare sostanza alla dinamica democratica, ma rischiano persino di legittimare (più o meno implicitamente) derive opposte. E, sotto questo profilo, Mastropaolo ha ricostruito in modo esemplare gli effetti distruttivi che la seduzione dell’anti-politica ha prodotto sul sistema italiano, a partire dalla retorica del «nuovo che avanza» (cfr. A. Mastropaolo, Antipolitica. All’origine della crisi italiana, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2000). L’unica soluzione – ancora una volta – passa per la ‘porta stretta’ della politica: non di una politica che punti a conquistare posti di potere, ma di una politica che possa ‘esprimere’ potere, che sappia ‘mettere in forma’ i conflitti poggiando sulle basi dell’economia postfordista, prima ancora che di definire le condizioni di un nuovo armistizio.
In questa prospettiva, il lavoro degli intellettuali forse non è proprio del tutto inutile come si è pensato in questi anni, in cui la funzione intellettuale si è limitata allo sgomento commento della «mutazione antropologica», della deriva personalistica, del trionfo del più becero edonismo e della trivialità più oscena, quando non si è ridotta a una semplice funzione ornamentale e alla compiaciuta legittimazione di effimere mode culturali e di disastrose avventure politiche. La democrazia d’altronde – e Mastropaolo l’ha scritto in molte occasioni – è anche il risultato del confronto culturale, ossia dello scontro e della contrapposizione fra immagini diverse del ‘dover essere’ della democrazia, dei diritti e della dignità umana. E proprio per questo – si potrebbe dire utilizzando la formula gramsciana, ripresa da Ernesto Laclau e Chantal Mouffe – la democrazia è in fondo una sagoma vuota, riempita dagli esiti della battaglia per la definizione dell’ordine simbolico, e costantemente ridefinita dai conflitti per l’egemonia. Naturalmente, sarebbe fin troppo semplicistico pensare che gli intellettuali e il lavoro sull’ordine simbolico possano davvero mutare gli assetti egemonici e gli equilibri di potere, senza tener conto delle forze materiali che si muovono nei ‘piani bassi’ della società, nella vita quotidiana, nei luoghi e nei flussi del lavoro contemporaneo. Come, d’altronde, sarebbe una furbesca (o ingenua) semplificazione ritenere che la seduzione di qualche nuova ‘narrazione’ del presente possa invertire le sorti di una trasformazione radicale, o arrestare la marcia della «mutazione antropologica». Ma la strada per ripensare alla possibilità di un nuovo armistizio democratico passa anche dalla capacità di coniugare il pensiero con il potere, l’immaginario con l’organizzazione, la visione e la forza. Perché, forse, la salvezza della democrazia dei posteri richiede davvero una sorta di inedito «Principe postmoderno». 

Damiano Palano




Questo testo è ora raccolto in La dissolvenza democratica. Cronache nella crisi, un e-book che raccoglie alcuni posti apparsi sul maelstrom.

Il libro è disponibile anche in formato cartaceo.

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Il rischio di una critica della critica
L'ombra di Cesare
La democrazia dei buoni sentimenti
La nuova fine della Storia

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