lunedì 28 settembre 2020

La Casa Bianca nell’età del narcisismo. Un libro di Giovanni Borgognone sulla presidenza Trump





di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Giovanni Borgnognone, House of Trump. Una presidenza privata (Bocconi Editore, pp. 150, euro 17.00), è apparsa sul quotidiano "Avvenire" il 28 maggio 2020.

Il 16 giugno 2016, aprendo a New York la sua campagna elettorale per la Casa Bianca, Donald Trump annunciò che il «sogno americano» era morto e che la sua discesa in campo puntava a far tornare l’America grande come un tempo. La conferenza stampa sembrò allora solo l’ennesima trovata di un tycoon famoso per le manie di grandezza e per la partecipazione a un reality show in cui maltrattava i concorrenti, alla ricerca di un posto nelle sue imprese. Quasi tutti gli esperti esclusero che il miliardario newyorkese avesse qualche credibile possibilità di vincere persino le primarie repubblicane. Ma quel giorno iniziò per molti versi una nuova stagione della politica americana, di cui sarebbe azzardato spingersi a prevedere la durata. Dal 9 novembre 2016 è cominciata una fitta discussione per comprendere le motivazioni di un successo tanto inaspettato. E anche il volume di Giovanni Borgognone, House of Trump. Una presidenza privata (Bocconi Editore, pp. 150, euro 17.00), cerca di proporre un’interpretazione dei motivi che hanno condotto alla Casa Bianca un personaggio tanto controverso. 
Più che stilare un bilancio dell’amministrazione Trump, Borgognone si chiede soprattutto quale sia il rapporto del
tycoon con la tradizione politica americana e con le sue lacerazioni più profonde. E in questo senso la categoria di «populismo» risulta sfocata, perché in realtà le varianti del populismo sono molte e fra loro molto eterogenee. Certo si possono riconoscere numerose analogie fra Trump ed Andrew Jackson, che conquistò la presidenza nel 1828 presentando se stesso come un «uomo della strada» in rotta di collisione con la classe politica tradizionale.  Ma l’«appello al popolo» contro l’establishment è risuonato nella storia degli Stati Uniti troppo frequentemente perché possa essere considerato come un tratto davvero distintivo del «trumpismo». E allo stesso modo risultano semplicistiche altre linee interpretative, centrate sui tratti psicologici del miliardario, sul suo conservatorismo, o addirittura sulla sua prossimità al fascismo. In realtà il vero fattore su cui puntare l’attenzione è secondo Borgognone il «risentimento razziale» che Trump è stato in grado di cavalcare, dando visibilità politica a correnti sotterranee. Il risentimento odierno è in ogni caso differente dal vecchio razzismo, basato sulla convinzione della superiorità dei bianchi. L’ambizione è piuttosto quella di costruire nazioni etnicamente separate. Lo slogan «Make America Great Again» era così soprattutto la promessa di riconsegnare al ceto medio bianco quel benessere perduto nel corso dei decenni e dopo la crisi del 2008. Il risentimento odierno non sembrerebbe comunque avere alla base una solida adesione al «nazionalismo bianco». I suoi tratti appaiono piuttosto il ripiegamento costante verso il privato, l’assenza di una vera progettualità, una marcata componente emotiva. E, incapace di dare coerenza a tutti questi elementi, la «presidenza privata» di Trump, con il suo frenetico iperattivismo, sembrerebbe piuttosto riflettere la grande mutazione narcisistica, che ha contribuito a erodere molte delle basi su cui si reggeva la tradizione civica americana.

Damiano Palano

 


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