giovedì 10 ottobre 2019

Alla ricerca di una democrazia 3.0. "Popolo ma non troppo" di Yves Mény



di Damiano Palano


Questa recensione al volume di Yves Mény, Popolo ma non troppo. Il malinteso democratico (Il Mulino), è apparsa sul quotidiano "Avvenire".

In una celebre conferenza della metà degli anni Ottanta, Norberto Bobbio individuò una serie di grandi «promesse» che la «democrazia reale» non era stata in grado di mantenere. I pensatori democratici moderni avevano infatti confidato che, una volta consegnato al «popolo» lo scettro del potere, la politica avrebbe radicalmente cambiato volto: le oligarchie sarebbero scomparse, i rappresentanti avrebbero agito senza subire condizionamenti, l’uguaglianza si sarebbe estesa a tutti gli ambiti della vita associata e i cittadini avrebbero conquistato una cultura politica responsabile. Naturalmente – lo riconosceva lo stesso Bobbio – non tutte quelle promesse erano davvero realizzabili. E probabilmente alcune di quelle ambizioni nascondevano anche una vocazione ‘totalitaria’. Ma in ogni caso si doveva prendere atto della notevole distanza che separava gli ideali dalla realtà della democrazia.

Nei trent’anni seguiti alla Guerra fredda la discussione sulle «promesse non mantenute» si è notevolmente infittita, e si sono così moltiplicate le diagnosi – più o meno pessimiste – sulla «crisi», sul «disagio» o persino sul declino delle istituzioni democratiche occidentali. Per molti versi è inevitabile che ciò accada, perché la democrazia – molto più di altre forme di regime – non può evitare di alimentare attese destinate a essere deluse. Negli ultimi anni il dibattito ha però imboccato una direzione differente. Per circa un ventennio, la denuncia dei critici è stata soprattutto legata alla difficoltà dei sistemi democratici di mantenere l’impegno a ridurre le diseguaglianze, alle conseguenze della globalizzazione, allo spostamento del potere verso centri decisionali sottratti al controllo degli elettori. Anche se questi temi non sono affatto assenti nella discussione contemporanea, dopo il 2008 l’attenzione ha cominciato a soffermarsi anche su altri aspetti, e in particolare sulla capacità delle istituzioni democratiche di resistere all’impatto delle trasformazioni economico-sociali e all’ascesa delle nuove forze «populiste», che di quei mutamenti sono in gran parte una conseguenza.



Una testimonianza di questa nuova stagione di discussione è offerta dal volume La démocratie dans l’adversité, curato in Francia da Chantal Delsol e Giulio De Ligio (Cerf), nel quale circa quaranta studiosi di varia provenienza si interrogano sulle implicazioni politiche delle trasformazioni sociali, economiche e comunicative che stiamo vivendo. In molti casi si focalizzano sul nesso tra l’esplosione populista e i vincoli ‘tecnocratici’ che – non solo in Europa – riducono i margini di azione dei leader eletti dai cittadini. E non è casuale che questa stessa tensione sia al centro dell’ultimo libro di Yves Mény, Popolo ma non troppo. Il malinteso democratico (Il Mulino, p. 210, euro 15.00). Quasi vent’anni fa il politologo francese, insieme al collega Yves Surel, pubblicò una delle prime indagini sui movimenti populisti, che nel frattempo è diventata un classico sul tema. E tornando oggi sulla questione non può evitare di riconoscere il successo clamoroso di quei movimenti. Negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, i populisti erano infatti sfidanti radicali ma quasi sempre marginali, mentre oggi sono diventati i protagonisti della scena, non solo perché hanno talvolta conquistato la guida politica dei loro paesi, ma anche perché hanno modificato sostanzialmente lo stile e i temi del dibattito. Una simile fortuna viene ricondotta a due grandi processi: per un verso, il mercato globale ha contribuito a ‘svuotare’ di potere le democrazie nazionali; per l’altro, le nuove tecnologie hanno colpito i sistemi di rappresentanza e mediazione degli interessi su cui le democrazie si sono costruite: «internet, con una potenza di fuoco e una rapidità mai viste prima», scrive Meny, «rende ogni cittadino-utente uguale a chiunque altro, dà lo stesso peso a qualsiasi opinione o preferenza, qualunque essa sia: informata, consapevole, brillante, ignorante, innovativa, consumata o mostruosa». Mentre nel passato i critici della democrazia ne auspicavano un superamento, oggi pretendono però di parlare «in nome del popolo», ossia di farsi portavoce di quello stesso popolo che l’establishment e la classe politica hanno lasciato indietro. I populisti non ricorrono cioè a ideologie anti-democratiche, ma attingono allo stesso patrimonio del pensiero democratico, anche se ne danno ovviamente una declinazione ben precisa (e tendenzialmente anti-pluralista). Dal momento che le cause del fenomeno sono profonde, Meny esclude che l’ondata populista sia destinata a esaurirsi a breve, anche perché l’«uberizzazione» della politica a suo avviso è destinata a proseguire. Ma il quadro delineato dallo studioso francese non è segnato (solo) dal pessimismo, principalmente perché non esclude che le sfide di oggi possano contribuire a rinnovare il patrimonio delle liberaldemocrazie e a trovare un nuovo compromesso in grado di conciliare libertà, uguaglianza e giustizia sociale. Guardando al passato (e soprattutto alla vecchia esperienza del People’s Party americano), Meny osserva infatti che «sono stati proprio i populisti, con le loro cattive maniere, le loro intemperanze e la loro ignoranza, a fare qualche passo in più nelle giusta direzione». Ma la sfida della democrazia 3.0 è probabilmente oggi ancora più complessa che in passato. Si tratta infatti di immaginare e costruire una convivenza democratica capace di oltrepassare la dimensione dello Stato nazionale, in cui storicamente la democrazia moderna è nata e cresciuta. E più che tornare alle vecchie «promesse non mantenute» del progetto democratico, si tratta allora di proiettare quelle promesse in una nuova dimensione e in un nuovo spazio istituzionale. Cercando la strada che passa tra le due opzioni – forse tra loro neppure alternative – di un mercato globale senza regole e di una democrazia nazionale chiusa in se stessa e concentrata nella difesa di un demos sempre più simile a un ethnos. 

Damiano Palano




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