mercoledì 19 dicembre 2018

Sulle tracce di un’utopia realistica. "Il senso della possibilità" di Salvatore Veca



di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Salvatore Veca, Il senso della possibilità. Sei lezioni (Feltrinelli, pp. 238, euro 22.00), è apparsa su "Avvenire" il 22 luglio 2018.

Quasi un secolo fa, al termine di una celebre conferenza pronunciata a Monaco, Max Weber mise in guardia dalle insidie che si nascondevano nella politica intesa (in senso nobile) come «professione». E soprattutto indicò alla platea degli studenti che aveva di fronte quali fossero gli ostacoli contro cui doveva scontrarsi chiunque intendesse dedicarsi seriamente a questa attività. «È certo del tutto esatto, e confermato da ogni esperienza storica», disse allora il sociologo, «che non si realizzerebbe ciò che è possibile se nel mondo non si aspirasse sempre all’impossibile». Chi era in grado di assumersi davvero un simile compito, proseguì, doveva essere «un capo», se non addirittura «un eroe». Ma coloro che non erano né capi né eroi dovevano «armarsi di quella fermezza interiore che permette di resistere al naufragio di tutte le speranze», perché «altrimenti non saranno in grado di realizzare anche solo ciò che oggi è possibile». Il sociologo di Economia e società pronunciava la propria lezione al principio del «secolo breve», nel clima rivoluzionario dell’Europa post-bellica, in cui le speranze di trasformazione della realtà andavano spesso ben al di là dei confini del possibile. Come avrebbero fatto mezzo secolo dopo i contestatori del Sessantotto, anche gli studenti cui si rivolgeva Weber pensavano infatti che essere realisti significasse chiedere l’«impossibile». E probabilmente ritenevano che lo strumento per modificare la realtà fosse la politica. Oggi le cose sono ovviamente ben diverse. Non soltanto perché le grandi utopie che hanno nutrito il Novecento si sono dissolte, ma anche perché la politica pare incapace di governare i flussi dell’economia globale e perché i suoi margini d’azione sembrano essersi ridotti alla pura amministrazione dell’esistente.

Il nuovo libro di Salvatore Veca, Il senso della possibilità. Sei lezioni (Feltrinelli, pp. 238, euro 22.00) torna a esplorare la tensione che segnalava Weber. Ma proprio perché lo scenario con cui si confronta è segnato dall’impotenza della politica e dall’apparente assenza di alternative, per molti versi rappresenta un elogio dell’utopia. «Lo spazio del possibile», scrive infatti, «è contratto e come dissolto», mentre «la densità e la rigidità dei vincoli sono tali che non abbiamo più risorse intellettuali, né morali, né motivazioni per prenderci per mano e ragionare e operare insieme su forme più decenti di convivenza». Un po’ come faceva Weber, anche Veca invita allora a ripensare il realismo, discostandosi però da quella tradizione di pensiero che considera la realtà come un insieme di determinanti inaggirabili. Naturalmente non nega che i vincoli esistano, ma cerca di mostrare che lo spazio della realtà non è mai totalmente determinato dalla necessità. In altre parole, c’è sempre un margine di incertezza, in cui si situa la possibilità di sviluppi alternativi. L’elogio dell’utopia in cui Veca si impegna è allora una sollecitazione a esplorare lo spazio della possibilità dentro i confini che il mondo concede, a immaginare «mondi possibili», «modi differenti di convivere, ideali di società ed esperimenti di vita individuali e collettivi».

L’utopia di Veca naturalmente ha poco a che vedere con quelle che hanno nutrito le rivoluzioni novecentesche. Si tratta piuttosto di un’«utopia realistica», che, sulla scia di John Rawls, punta principalmente a estendere «quelli che di solito sono considerati i limiti delle possibilità politiche pratiche». E, dunque, più che a fornire una visione radicalmente contrapposta alla rappresentazione del mondo offerta dal realismo, si propone di indicare l’utilità di uno scavo dentro le nicchie della contingenza. «Il discorso dell’utopia ragionevole non rinuncia all’esplorazione delle possibilità istituzionali e politiche alternative», scrive infatti il filosofo, «ma assume che questa esplorazione abbia luogo entro lo spazio che il mondo ci concede». Ed è anche per questo che, secondo Veca, l’immaginazione politica e sociale non eleva castelli su una tabula rasa, ma attinge alle voci dell’umanità che abbiamo alle spalle. Qualsiasi progetto futuro non può che alimentarsi cioè al senso del passato, alle esperienze riuscite, oltre che alle catastrofi e ai fallimenti. Ma allora non è solo per la presa dei vincoli economici che l’immaginazione politica si restringe. L’utopia scompare infatti dalla nostra mappa anche perché il nostro sguardo è schiacciato sul presente. E proprio perché non siamo più davvero in grado di guardare alle nostre spalle, tendiamo a concepire il futuro come un destino già scritto. 

Damiano Palano

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