sabato 29 dicembre 2018

Il lungo viaggio degli uomini della moneta. Le radici del presente nell'analisi di Rita di Leo



di Damiano Palano

Il giorno di Ferragosto del 1971 l’allora presidente degli Stati Uniti Richard Nixon annunciò da Camp David la sospensione della convertibilità tra dollaro e oro. Molti lessero allora quella clamorosa decisione come il segnale dell’imminente declino dell’«impero americano», impantanato nella guerra del Vietnam e alle prese con le forti tensioni sociali interne, con un’inflazione galoppante, con l’aumento della spesa pubblica. La sospensione della convertibilità – confermata definitivamente nel 1973 – sembrava inoltre concludere la quasi trentennale vicenda del sistema delineato a Bretton Woods nel 1944, quando si fissarono i cardini del nuovo ordine internazionale liberale, fondato sul ruolo egemone degli Usa. Quello che parve allora un tramonto può invece oggi essere considerato come il momento di avvio della globalizzazione (o quantomeno della sua fase più recente), oltre che come il punto di partenza di quella rivoluzione ‘neo-liberale’ che si manifestò compiutamente con la presidenza di Ronald Reagan a partire dagli anni Ottanta. L’ordine internazionale liberale si rivelò infatti molto più vitale di quanto molti avessero previsto, anche se modificò almeno in parte la propria logica. E proprio allora la partita della Guerra fredda conobbe per molti versi una mossa decisiva, destinata a rivelare le proprie conseguenze solo più tardi.

È anche per questo che, nel corso degli ultimi anni, molti studiosi sono tornati alla svolta degli anni Settanta per ripercorrere la genesi del nuovo assetto ‘neo-liberale’ e per individuare le radici della crisi contemporanea. Nel suo nuovo libro, L’età della moneta. I suoi uomini, il suo spazio, il suo tempo (Il Mulino, pp. 197, euro 19.00), Rita di Leo propone invece una rilettura più ambiziosa, che procede ben più indietro rispetto al 1971 e alla sospensione della convertibilità tra dollaro e oro. Per comprendere il presente, a suo avviso è certo indispensabile ricostruire le sequenze cruciali del «secolo breve» e in particolare la sfida rappresentata dall’Unione Sovietica (di cui di Leo ha in molti libri messo in luce, come pochi altri, le tensioni interne e le svolte più importanti). Ma l’ipotesi del libro è che nel Ventesimo secolo si consumi solo l’atto terminale di un lungo processo di affermazione degli «uomini della moneta» su altri soggetti e altre logiche che, di volta in volta, ne hanno contestato l’egemonia.


Nel suo nuovo libro, è inevitabile riconoscere l’ennesima tappa del percorso compiuto da Rita di Leo nel corso di più di quasi sessant’anni nei quali le sue ricerche si sono intrecciate con la storia dell’operaismo italiano, oltre che con la vicenda teorica e politica di Aris Accornero, «intellettuale della classe operaia» – come l’ha definito recentemente Mario Tronti – che dell’esperienza operaista fu al tempo stesso protagonista (seppure in incognito) e coscienza critica. Rita di Leo entrò infatti in contatto con Raniero Panzieri nel 1959, ben prima che vedesse la luce il primo numero dei «Quaderni rossi», mentre conduceva una ricerca sui braccianti pugliesi, poi destinata a diventare un libro (I braccianti non servono. Aspetti della lotta di classe nella campagna pugliese, Einaudi, Torino, 1961). Grazie a Panzieri, di Leo conobbe – oltre al folto gruppo di giovani torinesi, che avrebbe contribuito alla nascita della rivista – anche i romani Asor Rosa, Umberto Coldagelli e lo stesso Tronti, con cui da quel momento iniziò una discussione destinata a protrarsi negli anni e a procedere, per molti versi, su binari paralleli. Sul secondo numero dei «Quaderni rossi» - quello che ospitava il saggio trontiano La fabbrica e la società, di solito individuato come il vero punto di origine dell’operaismo italiano – era pubblicato anche un articolo su Lavoro necessario e valore della forza-lavoro in edilizia in cui di Leo, sulla scorta di Marx (e della lettura che ne proponeva il giovane Tronti), cominciava a svolgere i primi elementi di un’inchiesta sul conflitto di classe tra gli edili. E dopo il 1963, in seguito alla decisione del gruppo romano di dare vita (insieme alla componente veneta e alla pattuglia raccolta attorno a Romano Alquati) all’esperienza di «classe operaia», di Leo si dedicò con intensità all’intervento politico, concentrandosi in particolare su alcune fabbriche romane. Fu però dopo la fine di «classe operaia», e la conclusione di un periodo di militanza politica a tempo pieno, che la ricerca di Rita di Leo, iniziando a riflettere sulla classe operaia in Unione Sovietica, imboccò un sentiero che avrebbe continuato a percorrere per molti anni. Nel 1969, su «Contropiano» compariva infatti I bolscevichi e «Il Capitale», un saggio che per la prima volta esplicitava l’esigenza di rileggere l’esperienza del socialismo sovietico «dal punto di vista operaio», a partire dalla Nep fino alla stagione di Stalin. Come si leggeva nell’incipit di Operai e sistema sovietico, pubblicato l’anno successivo, si trattava di esaminare l’esperienza sovietica da una prospettiva radicalmente diversa da quella che aveva indirizzato sia le letture ortodosse, sia quelle trotskiste: «fare un discorso sull’Urss ha oggi un significato se il discorso è allo stesso tempo sul capitalismo, se serve a portare avanti l’analisi su una realtà oscura qual è ancora il rapporto tra operai e capitale. […] Sta diventando chiaro che la forza del sistema non sta nella proprietà privata dei mezzi di produzione oppure nella destinazione egoistica del prodotto sociale, ovvero nel caos del processo economico complessivo, bensì nel semplice e resistentissimo stato di fatto che vede da un lato la forza lavoro e dall’altro le condizioni sociali per utilizzarla e ricavarne un valore maggiore del suo costo. Al di là delle trasformazioni avvenute, il rapporto tra lavoro e capitale sembra rimasto saldamente ancorato alle sue fondamenta materiali, oggettive, non scalfito da nulla e tantomeno dall’ideologia del socialismo o dalla esperienza del socialismo realizzato nell’Urss. […] Il controllo sul valore di scambio della forza lavoro e l’utilizzo più conveniente del suo valore d’uso hanno condizionato la costruzione del socialismo né più né meno di quanto è avvenuto per il capitalismo alle sue origini» (R. di Leo, Operai e sistema sovietico, Laterza, Bari, 1970, pp. 7-9). Rifiutare l’«ideologia socialista», per di Leo, significava articolare le ipotesi operaiste anche per studiare le sequenze e le dinamiche dello sviluppo capitalistico in Unione Sovietica: «L’analisi del rapporto di produzione nei paesi socialisti mette allo scoperto la sopravvivenza tenace della relazione fondamentale tra lavoro e capitale; riporta quindi la questione al suo punto di partenza. Perché e come si produce la subordinazione del lavoro vivo alle strutture produttive, della classe operaia al potere politico del sistema? Con il suo tormentato passato, con il suo ricco presente, ha un futuro lo scontro tra lavoro e capitale?» (ibi, p. 17).

A queste domande Rita di Leo ha cercato di rispondere per decenni, con libri come Operai e fabbrica in Unione sovietica nelle lettere alla «Pravda» e al «Trud» (De Donato, Bari, 1973), Il modello Stalin (Feltrinelli, Milano, 1978), Occupazione e salari nell’Urss 1950-1977 (Etas, Milano, 1980), L’economia sovietica tra crisi e riforme (1965-1983) (Liguori, Napoli, 1983), Vecchi quadri e nuovi politici. Chi comanda davvero nell’ex Urss (Il Mulino, Bologna, 1992), L’esperimento profano. Dal capitalismo al socialismo e viceversa (Ediesse, Roma, 2012) e Cento anni dopo: 1917-2017. Da Lenin a Zuckerberg (Ediesse, Roma, 2017), oltre che in molti articoli e saggi che varrebbe la pena raccogliere in volume. A quelle stesse domande, dopo la conclusione dell’«esperimento profano», se ne sono però aggiunte altre, che hanno a che vedere con la sconfitta storica del movimento operario e con l’affermazione di un’antropologia che pare persino refrattaria all’idea stessa del conflitto di classe. A questi interrogativi Rita di Leo ha cercato alcune risposte alcuni anni fa nel suo Il ritorno delle élite (Manifestolibri), ma la risposta più ambiziosa giunge proprio con L’età della moneta.

L’uomo della moneta per di Leo coincide con un modello antropologico, secondo il quale ogni singolo individuo è valutato per ciò che vale sul mercato. Inoltre, l’uomo della moneta è anche il rappresentante di una specifica élite, il cui potere non si basa sulla forza coercitiva, bensì sulle risorse economiche. Come scrive di Leo in alcune dense pagine: «L’uomo della moneta è antropologicamente oltre l’uomo economico nella definizione che si ritrova nella letteratura dei filosofi, degli economisti, dei politologi. Quella definizione è suggerita dall’irruzione dell’economia mercantile nel Settecento di Mill e Smith come fenomeno irreversibile, come male/bene nell’Ottocento di Marx e Walras, come ‘il’ capitalismo nel Novecento di Pareto e Lenin. Quella definizione contiene di per sé una forma-sostanza che si identifica nel possesso di beni, in redditi, in salari, in flussi finanziari. L’uomo economico è per l’appunto valutato per quanto vale sul mercato, e il mercato è indispensabile al comune esistere quotidiano. Il valore è concreto: esisti per quello che fai e hai. Sono il fare e l’avere a determinare il tuo valore agli occhi del mondo» (L’età della moneta, p. 153).

Per una lunga stagione storica, il confronto è così soprattutto con gli «uomini della spada», e cioè con una logica che fa discendere la legittimazione del potere dalla forza, prima dalla spada del cavaliere e poi dagli eserciti mercenari. Per tutta la prima età moderna, gli uomini della moneta rimangono in una posizione del tutto subalterna rispetto al potere politico. Ma, nella loro sotterranea lotta contro gli «uomini della spada». trovano negli intellettuali – gli «uomini del libro» - degli alleati preziosi, che per secoli utilizzano gli strumenti della critica per dissolvere le basi culturali della società feudale. Il rapporto tra «spada» e «moneta», per quanto problematico, non è però sempre conflittuale, e, anzi, nella stagione del nazionalismo – mentre i mercanti si trasformano in produttori – si risolve molto spesso in un saldo compromesso. Ma quando incomincia il tramonto delle élite aristocratiche – un tramonto che si conclude per molti versi solo con la Prima guerra mondiale – si profilano per «gli uomini della moneta» nuovi insidiosi contendenti. Sono naturalmente gli «uomini del lavoro», ossia il movimento operaio, le prime organizzazioni sindacali, che contestano nei luoghi stessi della produzione il potere del capitale. E un’insidia ulteriore giunge dagli «uomini del libro», che – dopo avere contribuito alla dissoluzione del mondo feudale – si fanno portavoce degli sfruttati in nome di una trasformazione radicale della società. Naturalmente il 1917 è per di Leo – ben più che una rivoluzione operaia – la vittoria di un manipolo di «filosofi-re», di politici professionali. Se la Nep di Lenin rappresenta il tentativo compiuto dagli «uomini del libro» di strappare agli uomini della moneta le conoscenze tecniche per gestire l’economia pianificata, la lunga stagione di Stalin ne sancisce la brusca interruzione. L’«operaismo» di Stalin si nutre infatti della diffidenza, o persino del disprezzo, per gli intellettuali. E così la costruzione di una nomenklatura di estrazione esclusivamente operaia sancisce la rottura dell’alleanza tra intellettuali e movimento operaio, ma il nuovo ceto dirigente operaio non si rivela tecnicamente all’altezza del compito, con esiti disastrosi per le ambizioni sovietiche. E il divorzio tra gli «uomini del lavoro» e gli «uomini del libro» non coinvolge solo l’Urss di Stalin. Perché da allora prende forma quel ‘lungo addio’ destinato ad allontanare gli intellettuali dal movimento operaio (o quantomeno dai partiti comunisti). «Fare a meno degli uomini del libro», d’altronde, «è un preciso obiettivo degli uomini della moneta» (p. 160).

I fattori che entrano in gioco nel «secolo breve» sono ovviamente molti. Uno di questi è il ruolo cruciale della tecnologia nello smantellamento del potenziale conflittuale della classe operaia, su cui spesso le indagini ‘post-operaiste’ hanno insistito, e su cui anche di Leo ha attirato l’attenzione, per esempio in Cento anni dopo, dove osserva: «l’informatica e la globalizzazione, le due brillanti stelle del firmamento tra la fine del Novecento e l’inizio del XXI secolo, hanno influito nel senso opposto a quello di stelle dell’avanguardia loro attribuito, giacché nei fatti sono servite ai datori di lavoro per far rinascere il passato nel rapporto con l’uomo del lavoro. E non si tratta della semplice attività di comando ripristinata su un esercito sconfitto, ma della scomparsa dell’esercito. Nei paesi coinvolti la novità è la fine dell’assembramento operaio in un solo spazio. Gli uomini del lavoro hanno materialmente perso il proprio essere collettivo e si ritrovano intrappolati nell’antico rapporto ad personam con il datore di lavoro. Ciascuno solo con se stesso e di nuovo subalterno senza sponde di difesa. In un tempo di strepitosi successi della tecnica, dai droni agli algoritmi, stregoni infallibili, l’antico odio operaio per le macchine ha un’innegabile ragion d’essere» (R. di Leo, Cento anni dopo: 1917-2017, p. 27).

Lo snodo che per di Leo è davvero decisivo è proprio quello che rompe l’alleanza fra intellettuali e mondo del lavoro. La battaglia più importante vinta dagli «uomini della moneta» sembra infatti proprio quella combattuta contro il filosofi-re, contro gli «uomini del libro». Ciò che resta sul tappeto dopo quella vittoria è allora il «vuoto del pensare», o l’illusione che un pensiero possa essere valutato positivamente o negativamente sulla base di algoritmi: «Nel nuovo secolo quei fili si sono spezzati, grazie ai sofisticati giochi matematici come l’arma vincente, sperimentata con successo dagli artisti degli algoritmi. E dunque che un qualsiasi giro di pensiero possa essere valutato utile o nocivo sulla base di algoritmi, ha reso il pensiero un esercizio matematico. Di conseguenza le categorie fondative della cultura classica europea sono apparse superate proprio come gli stati, i parlamenti, i partiti i sindacati, i conflitti sociali, nati tutti dalle antiche teste di antichi uomini del libro. Le nuove teste sono ormai catturate dai numeri e con essi definiscono lo stato delle cose, con algoritmi che assicurano il risultato e quel risultato è la prova di aver ben pensato» (L’età della moneta, p. 161). E, come ha scritto in Cento anni dopo, il tempo dell’algoritmo non consente spazio alla critica: «Il tempo nuovo che sta sorgendo dall’eclissi è l’universo degli algoritmi, i quali consistono nei passi da fare per raggiungere un risultato entro un tempo previsto. Passi, risultati, tempi sono espressi in formule matematiche, in codici propri al campo dell’informatica. Nell’universo degli algoritmi non è escluso il pensare, ma si pensa attraverso numeri, espressioni, codici. È escluso il pensare alla Aristotele e alla Dante Alighieri, alla Machiavelli e alla Hobbes. […] Nel tempo degli algoritmi, i passi, i tempi, i risultati di una qualsiasi azione comportano una tecnica che appare invincibile in confronto all’uomo che pensa per pensare. Il quale per ci stesso è divenuto un rischio per l’equilibrio dell’universo. Come nell’epoca del golem operaio, anche in quella del golem algoritmico i filosofi-re appaiono alieni cui spetta l’ostracismo. Viene da ciò l’ipotesi già espressa che si sia esaurita la ragion d’essere delle sirene-Platone, dei filosofi-re che si attribuivano la capacità di cambiare lo stato delle cose. A questo ‘risultato’ provvederebbe la tecnica quando se ne presentasse l’esigenza» (Cento anni dopo: 1917-2017, cit., pp. 101-102).        

In un paesaggio segnato dall’egemonia dell’uomo della moneta, il tratto più macroscopico non può che essere il riconoscimento della ‘natura asociale’ dell’uomo come dato ‘originario’. E la conseguenza diventa fatalmente l’accettazione della solitudine come condizione ineluttabile: «Nell’età della moneta l’uomo si riconosce primariamente nella condizione originaria di animale asociale. È una condizione antichissima, tornata sulla scena con le sue conseguenze. La prima conseguenza è la concezione del mondo della moneta spazza via i tanti conflitti tra gli uomini nelle tante loro società, e porta non alla pace kantiana ma ad accettare come ineluttabile l’essere solo dell’individuo. Dalla sua solitudine ciascuno ricava il proprio stare al mondo, da debole o da forte, e nel XXI secolo ciò è sempre più visibile e sempre più accettato. Non è subìto, è accettato» (p. 176). Le domande che per molti versi orientano l’intera indagine compiuta da di Leo non possono però non coinvolgere il ruolo degli «uomini del libro», di quei «filosofi-re» che hanno rinunciato al ruolo politico che per buona parte dell’Ottocento e del Novecento erano stati in grado di interpretare, e dalla cui capacità di articolare una critica all’altezza del tempo dell’algoritmo dipende probabilmente anche il futuro della politica nel XXI secolo: «accecati dalle antiche, classiche certezze dei filosofi-re, non sono stati capaci di vedere e di capire il percorso che portava all’età della moneta? Oppure non sono stati essi capaci di sbarrarlo? Forse a impedirlo è stata la loro fede nell’illuminismo, una fede che ha fatto leggere il Capitale di Marx come il manuale per l’edificazione della società perfetta mentre era l’analisi del capitalismo. E la prova del fraintendimento è venuta quando i pianificatori sovietici hanno preso a modello gli schemi di riproduzione del secondo libro del Capitale per la loro economica senza capitalisti, creando un capitalismo anomalo ma pur sempre un capitalismo, come si è visto dopo la fine dell’Urss» (pp. 171-172). E se la risposta a queste domande ha certo una notevole importanza per comprendere il nostro passato, oltre che per ricostruire le sequenze che conducono al nostro presente, forse – come suggerisce Rita di Leo nelle pagine conclusive – si tratta anche di una risposta che coinvolge il nostro futuro. Perché, «nel secondo decennio del nuovo secolo, la risposta alla domanda riguarda il futuro degli uomini dei libri: torneranno per sempre nella caverna, o cominceranno a pensare contro gli algoritmi?».

Damiano Palano


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