sabato 20 ottobre 2018

L'America di Trump e la 'lezione della storia'. "How Democracies Die" di Steven Levitsky e Daniel Ziblatt





di Damiano Palano

Questa recensione al libro di Steven Levitsky e Daniel Ziblatt, How democracies die (Viking) è apparsa su "Avvenire" il 18 ottobre 2018.

In uno dei suoi ultimi romanzi, Il complotto contro l’America, Philip Roth immaginò che, allo scoppio della Seconda guerra mondiale, la storia degli Stati Uniti fosse andata in un’altra direzione. L’«ucronia» di Roth descriveva infatti la travolgente ascesa politica di Charles Lindbergh, protagonista nel 1927 della prima trasvolata oceanica in solitario a bordo del suo monoplano Spirit of St. Louis. Dopo aver conquistato una vasta popolarità grazie alle proprie imprese, l’aviatore era divenuto il portavoce di uno schieramento isolazionista, che – con dichiarate simpatie per la Germania hitleriana e un evidente antisemitismo – si opponeva all’ingresso degli Stati Uniti nel conflitto bellico. Privo di qualsiasi esperienza politica, ma sostenuto da un travolgente consenso popolare (oltre che dall’occulto appoggio tedesco), Lindbergh, nella ‘storia alternativa’ di Roth, irrompeva a sorpresa nella campagna presidenziale del 1940, ottenendo la nomination del Partito Repubblicano, paralizzato da lotte intestine. E con lo slogan «America First» riusciva a conquistare la Casa Bianca, portando con sé una pattuglia di elementi filo-nazisti che, già nei primi mesi di governo, introdussero forti limitazioni alle libertà civili e avviarono persecuzioni contro gli ebrei. Nel romanzo ‘ucronico’ di Roth la misteriosa scomparsa di Lindbergh finiva comunque col riportare la storia americana sul binario democratico, e già nel 1942 gli Stati Uniti – nuovamente guidati da Franklin Delano Roosevelt – potevano entrare in guerra contro le potenze dell’Asse.

Se i timori per una deriva autoritaria negli Stati Uniti sono rimasti a lungo solo il materiale per romanzi fantapolitici, agli occhi di molti quei timori sono diventati invece realistici nel novembre 2016, con la conquista della Casa Bianca da parte di Donald Trump. La travolgente ascesa politica del miliardario newyorkese – peraltro all’insegna dello stesso slogan «America First», che aveva inalberato il vecchio comitato isolazionista animato nel 1940 da Lindbergh ed Henry Ford – ha acceso violente polemiche e alimentato contestazioni da molto tempo sconosciute sull’altra sponda dell’Atlantico. Ma ha anche finito col sollecitare discussioni vivaci tra i politologi, che – spesso risentendo dell’animosità del momento – hanno iniziato a interrogarsi sul modo in cui un regime democratico può crollare. In questa discussione spicca in particolare il lavoro di due politologi di Harvard, Steven Levitsky e Daniel Ziblatt, che nel loro How democracies die (Viking, pp. 312), hanno cercato di trovare nella ‘lezione della storia’ qualche indicazione sui rischi che corrono le democrazie occidentali (e non solo quella a stelle e strisce). Come sottolineano i due studiosi, ci sono due strade che possono condurre alla fine di un regime democratico. La prima è quella del ‘colpo di Stato’, con cui un piccolo gruppo di armati si impossessa del potere e sospende libertà e garanzie, schiacciando con la violenza qualsiasi traccia di opposizione. Una seconda strada – meno drammatica ma ugualmente distruttiva – prevede invece che siano dei presidenti o primi ministri eletti a sovvertire le regole democratiche. Ed è proprio questa seconda dinamica che risulta più frequente nel mondo nato dal crollo del Muro di Berlino. Dopo il 1989 le dittature più palesi sono in gran parte scomparse, e anche i colpi di Stato militari sono diventati meno frequenti, mentre nella maggior parte dei paesi si tengono elezioni (anche se non sempre competitive). E, soprattutto, notano Levitsky e Ziblatt, la maggior parte delle rotture democratiche è avvenuta per opera di governi eletti. I due politologi si riferiscono al Venezuela di Chávez, oltre che alle tensioni in Georgia, Ungheria, Nicaragua, Perù, Filippine, Polonia, Russia, Sri Lanka, Turchia e Ucraina. Ciò significa che i mutamenti avvengono senza che siano cancellate le carte costituzionali o che siano sospese le elezioni. La democrazia viene dunque abbandonata ‘legalmente’, nel senso che viene accettata dalle assemblee elettive o dalle corti. E, soprattutto, tutto ciò avviene in modo «impercettibile», perché i cittadini non si rendono conto né che stia prendendo forma un regime autoritario, né che siano abbandonate le garanzie della democrazia liberale

Mettendo insieme le loro competenze, Levitsky e Ziblatt cercano dunque di ‘imparare dalla storia’, e cioè di capire quali siano stati i fattori che – nel passato – hanno favorito (o impedito) il crollo della democrazia per ‘via elettorale’. In questo senso, non possono evitare di tornare all’Italia di Mussolini e alla Germania di Hitler, ma guardano anche al Venezuela degli ultimi vent’anni e alla Spagna della guerra civile. In tutti questi casi, erano visibili fin dall’inizio alcune tracce della torsione autoritaria, che secondo i due politologi rappresentano indicatori del rischio che corre una democrazia: il rifiuto delle regole del gioco democratico, la delegittimazione degli avversari politici, la tolleranza della violenza, la restrizione mediante disposizioni di legge delle libertà degli oppositori. Per Levitsky e Ziblatt alcuni di questi segnali sono riconoscibili anche nell’America di Donald Trump, anche se in realtà il logoramento delle istituzioni democratiche negli Stati Uniti ha, per loro, radici più profonde. La convinzione dei due studiosi è infatti che la divisione dei poteri e gli equilibri fissati dalle costituzioni non siano sufficienti, da soli, a salvaguardare la democrazia. A rappresentare un presidio ben più saldo sono regole non scritte, ma riconosciute e adottate dai principali attori politici. Regole che consistono, innanzitutto, nella reciproca tolleranza degli avversari e, in secondo luogo, nell’auto-disciplina che induce chi occupa le cariche pubbliche a rispettare lo ‘spirito’ (e non solo la forma) delle regole istituzionali. Ma sono proprio questi due elementi a essere colpiti dalla crescente polarizzazione che da un decennio ha investito la politica americana. I sostenitori dei diversi schieramenti hanno iniziato a contestare la stessa legittimità dei rispettivi avversari, le contrapposizioni politiche hanno assunto spesso anche una connotazione violenta, e ciò ha indotto una parte della classe politica a ricorrere a forzature istituzionali (per esempio, al Gerrymandering, ossia alla artificiosa segmentazione dei collegi elettorali con l’obiettivo di favorire il partito al potere).

La lettura di Levitsky e Ziblatt è evidentemente influenzata dalle tensioni della politica americana. E qualcuno potrebbe considerare eccessivi i timori dei due politologi. Ma è davvero plausibile che la polarizzazione visibile in molte democrazie occidentali possa produrre conseguenze rilevanti. Naturalmente la polarizzazione non è una novità, specie per il Vecchio continente. Ma il fatto inedito è che oggi i partiti – o ciò che ne rimane – non sembrano in grado di poter controllare e disciplinare la polarizzazione, come invece fecero almeno per una parte del Novecento. E se ci auguriamo che questa tendenza non debba condurci verso nuovi regimi autoritari, si deve però riconoscere che, molto probabilmente, è destinata a mutare il volto delle nostre democrazie.

Damiano Palano

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