giovedì 25 gennaio 2018

Il gigante insicuro. Il paradosso della geopolitica americana in un libro di Corrado Stefanachi




di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Corrado Stefanachi, America invulnerabile e insicura. La politica estera degli Stati Uniti nella stagione dell’impegno globale: una lettura geopolitica (Vita e Pensiero, pp. 396, euro 28.00), è apparsa su "Avvenire" il 3 gennaio 2018.

Nel 1893, intervenendo in un convegno organizzato a margine dell’Esposizione Universale di Chicago, il giovane storico Frederick J. Turner illustrò una tesi fulminante sull’esperienza politica degli Stati Uniti. «Fino ai nostri giorni», osservava Turner, «la storia americana è stata in grande misura la storia della colonizzazione del grande West». La presenza di terre libere a Ovest non era stata cioè soltanto un fatto geografico. La proiezione verso la Frontiera aveva influito anche sulla formazione dei caratteri culturali e politici della giovane nazione americana. Le radici europee, combinandosi con il contesto della Frontiera, avevano dato origine alla nuova cultura americana, contrassegnata da un ruvido individualismo, dallo spiccato senso pratico e dalla fiducia riposta nel principio secondo cui il lavoro della terra dava diritto alla proprietà. E il successo dell’esperimento democratico – così lontano dai modelli europei – doveva essere spiegato proprio come risultato di quello specifico contesto ambientale. Se Turner in questo modo celebrava l’«eccezionalità» americana, lanciava però anche un allarme. Nell’ultimo decennio dell’Ottocento – segnalava infatti – la «Frontiera» non esisteva più, perché tutte le aree coltivabili tra la costa atlantica e il Pacifico erano ormai state colonizzate. E ciò rappresentava un rischio formidabile. La Frontiera aveva consentito di neutralizzare i conflitti sociali e di riequilibrare le diseguaglianze. Ma la ‘chiusura’ dello spazio cambiava completamente le cose. I conflitti potevano diventare distruttivi, mentre l’american way of life rischiava di scomparire per sempre.
Nel suo volume America invulnerabile e insicura. La politica estera degli Stati Uniti nella stagione dell’impegno globale: una lettura geopolitica (Vita e Pensiero, pp. 396, euro 28.00), Corrado Stefanachi prende le mosse proprio dall’impatto che la fine della Frontiera ebbe sulle classi dirigenti americane. La percezione di vivere in uno spazio «chiuso», come mostra il politologo nella sua ambiziosa ricostruzione, modificò infatti il quadro «geopolitico» della sicurezza americana. La geopolitica non è d’altronde determinata solo dai condizionamenti geografici, ma è anche il frutto della percezione che – in connessione con i mutamenti tecnologici – gli attori politici hanno dello spazio. E sul finire dell’Ottocento alcuni mutamenti modificarono completamente la percezione dello spazio degli americani. L’esaurimento della Frontiera alimentò cioè una sorta di claustrofobia politica, che spinse ad abbandonare il tradizionale isolazionismo. Cominciò proprio allora a fare proseliti l’idea che si dovesse aprire la «porta del mondo» (principalmente verso l’Estremo Oriente). Ma, di lì a poco, le classi dirigenti americane si resero conto anche che il mondo era ormai piccolo e soprattutto «saturo». In altre parole, le élite americane si persuasero che, in un mondo ‘chiuso’ e sempre più affollato, Washington dovesse impegnarsi attivamente per ricreare una «distanza di sicurezza» e per impedire la conquista imperiale dello spazio euroasiatico.
Stefanachi mostra in particolare come l’apparente paradosso geopolitico di una potenza al tempo stesso «invulnerabile» e «insicura» spieghi molte scelte compiute dagli Stati Uniti in più di un secolo di storia, dalla fine dell’Ottocento fino ai giorni nostri. 
E naturalmente non può evitare di interrogarsi – ma solo nelle pagine finali – sul destino dell’internazionalismo americano e sulla promessa di neo-isolazionismo che ha contribuito a portare Donald Trump alla Casa Bianca. Più che un vero isolazionismo, quello di cui Trump sembra farsi portatore è però un nazionalismo che trova il suo modello in Andrew Jackson, il settimo presidente degli Stati Uniti. Forse, suggerisce Stefanachi, seppur in modo molto cauto, siamo perciò di fronte a un nazionalismo che «non smania per andare a contrarre impegni politici in giro per il mondo», ma che tende comunque a vedere la politica globale come «un’arena competitiva, in cui può essere necessario impegnarsi per promuovere i propri interessi fondamentali». In altri termini, il nazionalismo di Trump rappresenterebbe una nuova declinazione del vecchio paradosso geopolitico americano. Una declinazione che riflette però la nuova percezione di una potenza che, in un mondo sempre più affollato di rivali insidiosi, si sente probabilmente ancora meno sicura che in passato.

Damiano Palano


Nessun commento:

Posta un commento