sabato 14 ottobre 2017

Quando il mondo divenne un globo. Un libro di Matteo Vegetti sulla "rivoluzione spaziale" contemporanea



di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Matteo Vegetti, L’invenzione del globo. Spazio, potere, comunicazione nell’epoca dell’aria (Einaudi, Torino, 2017), è apparsa su «Avvenire» il 22 agosto 2017 con il titolo Dall’«epoca dell’aria» alla «rivoluzione dello spazio».

Nel 1942, proprio mentre la Seconda guerra mondiale entrava nella fase più drammatica, Carl Schmitt consegnò alle pagine di Terra e mare i cardini di una folgorante «considerazione sulla storia del mondo». Tra la fine del XV e il XVI secolo, secondo la sua lettura, si era determinata una cruciale alterazione dell’equilibrio fra Terra e Mare. Le innovazioni nelle tecniche di navigazione e la scoperta di nuovi continenti avevano fatto nascere un nuovo tipo umano, interamente legato all’elemento marino, amante del rischio e anticipatore della futura etica capitalistica. Ma non si trattava solo di un mutamento negli equilibri politici o nelle dinamiche economiche. Si era realizzata infatti una vera e propria «rivoluzione spaziale». «Ogni volta che sotto la spinta di forze storiche o grazie alla liberazione di nuove energie, entrano nell’orizzonte della complessiva coscienza dell’uomo nuovi territori e nuovi mari», scriveva Schmitt, «mutano anche gli spazi dell’esistenza storica», e sorgono così «nuove misure e nuovi criteri dell’attività storico-politico, nuove scienze, nuovi ordini, una nuova vita di popoli nuovi e rinati». In altre parole, dinanzi a simili scoperte, ancora prima che la scienza fornisse adeguate spiegazioni, aveva preso forma una nuova concezione del mondo, che non comportava solo un ampliamento dell’orizzonte, bensì una radicale modificazione del concetto stesso di spazio.
Per dare una raffigurazione simbolica alla contrapposizione tra potenze terrestri e potenze marittime, Schmitt evocava Behemot e il Leviatano, le due figure mostruose descritte nel Libro di Giobbe. Ma suggeriva anche che ormai si stava già delineando una nuova «rivoluzione spaziale», perché l’aria stava diventando la «nuova sfera elementare dell’esistenza umana». E tanto Behemot quanto il Leviatano sarebbero stati alla fine surclassati da un misterioso Grifo, che Schmitt – in una lettera all’amico Ernst Jünger – riconobbe nella figura di Ziz, un grande uccello menzionato nel libro dei Salmi. Nei suoi scritti successivi Schmitt sviluppò solo parzialmente l’idea della nuova rivoluzione spaziale innescata dalla conquista dell’aria. È invece proprio da quell’ipotesi che prende le mosse Matteo Vegetti nel suo volume L’invenzione del globo. Spazio, potere, comunicazione nell’epoca dell’aria (Einaudi, pp. 219, euro 22.00). L’autore percorre infatti un viaggio affascinante attraverso il Novecento, nel tentativo di portare alla luce tutti i passaggi di una riflessione collettiva capace di cogliere per tempo la portata di una trasformazione davvero epocale. Vegetti ripercorre innanzitutto le tappe della riflessione geopolitica classica condotta da studiosi come Alfred T. Mahan e Halford Mackinder. Ma un punto di snodo è rappresentato da Il dominio dell’aria del generale italiano Giulio Douhet, che già nel 1921 comprese che la conquista di una «terza dimensione», quella verticale, sconvolgeva la classica geometria delle relazioni umane. La successiva riflessione geopolitica statunitense avrebbe poi riconosciuto come l’air power rendesse obsoleto il vecchio equilibrio fra terra e mare. E con il trauma di Pearl Harbor divenne evidente che il mondo era diventato «un unico sistema dominato dall’elemento aereo».
Per ognuno di noi pensare al mondo significa oggi davvero concepirlo come un’unità percorsa da mille linee di interconnessione. Ma il problema che Schmitt rilevava alla fine della Seconda guerra mondiale, quando indicava la necessità di un nuovo nomos della terra, sembra oggi ancor più complesso di allora. Perché se i flussi globali mostrano costantemente la vulnerabilità economica e sociale connessa all’interdipendenza, l’ipotesi di riconquistare un pieno dominio dello spazio da parte degli Stati appare davvero ostica. I «grandi spazi» non sembrano inoltre poter contare sulla forza di quei legami simbolici che sostenevano gli Stati nazionali e che la dimensione economica e gli scambi comunicativi non sono in grado di produrre (almeno in modo automatico). Ma anche il ritorno a quella che Vegetti definisce la «greve retorica tellurica dei muri» rappresenta solo una risposta simbolica, incapace di aggredire davvero la portata della «rivoluzione spaziale» che percorre il nostro tempo. E quando si evoca la possibilità di una «deglobalizzazione» - al di là delle concrete implicazioni che essa potrebbe avere – si rischia così di sottovalutare la portata dei mutamenti. Perché certo si tratta di trasformazioni che hanno una dimensione economica. Ma sono soprattutto dinamiche che modificano in profondità la nostra stessa condizione esistenziale.

Damiano Palano

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