lunedì 5 dicembre 2016

Il sinistro laboratorio della «scienza della felicità». Un libro di William Davies




di Damiano Palano

Questa recensione al volume di W. Davies, L'industria della felicità (Einaudi, Torino, 2016), è apparsa con il titolo La "scienza della felicità", fra emozioni e big data, in "Avvenire", 22 novembre 2016.


Nel 1927 la Jwt, una grande azienda pubblicitaria di New York, siglò un contratto con la General Motors che prevedeva l’apertura di proprie sedi anche al di fuori degli Stati Uniti. La Jwt era stata la prima ad adottare sistematicamente tecniche di profiling psicologico, ma fino a quel momento le sue indagini si erano rivolte solo al pubblico americano. Il contratto con la Gm apriva invece un terreno inesplorato alla nuova «pubblicità scientifica». La costruzione della prima mappa dei gusti globali del consumatore incontrò però ben più di qualche resistenza. Ponendo domande su argomenti che riguardavano le automobili, ma anche il cibo e il consumo di articoli per l’igiene personale, gli intervistatori si inoltravano infatti in una sfera che molti in Europa consideravano ancora inviolabile. In Gran Bretagna alcuni ricercatori furono addirittura arrestati. In Germania la Jwt fu accusata di spionaggio industriale. E a Copenaghen un intervistatore fu addirittura spinto giù da una rampa di scale.
Questi episodi – che sono raccontati da William Davies nel suo L’industria della felicità. Come la politica e le grandi imprese ci vendono il benessere (Einaudi, pp. 240, euro 20.00) – riescono a chiarire in modo emblematico la portata del mutamento culturale che, nel corso di un secolo, ci ha assuefatto ai sondaggi. Ma nel suo libro Davies ricostruisce soprattutto la storia intellettuale della convinzione secondo cui il monitoraggio di gusti e comportamenti consentirebbe di raggiungere la «felicità». E naturalmente trova le radici di questa idea innanzitutto nell’utilitarismo di Jeremy Bentham, secondo cui il principale obiettivo di ogni Stato doveva essere proprio il perseguimento della massima «felicità» dei cittadini. Nel tentare di dare una veste ‘scientifica’ al proprio progetto, Bentham cercò infatti di misurare ‘quantitativamente’ la felicità, utilizzando per esempio come indicatori il denaro e il battito cardiaco. E in quel modo indicò le due strade che la «scienza della felicità» avrebbe imboccato in seguito. Per un verso, l’economia neo-classica negli ultimi decenni dell’Ottocento adottò l’idea che l’individuo fosse un «edonista calcolante». Per l’altro, la psicologia comportamentista americana, studiando solo il comportamento ‘osservabile’, cercò di capire come l’«animale uomo» rispondesse agli stimoli esterni. Ma questa vicenda giunge sino a nostri giorni, anche perché l’«industria della felicità» ha oggi a disposizione un enorme laboratorio. Quasi tutte le nostre transazioni quotidiane sono infatti ormai digitalizzate e vanno a rimpinguare un preziosissimo patrimonio di big data. Al tempo stesso, l’accumulazione di informazione viene alimentata da quel nuovo narcisismo di massa che, per esempio, spinge a rispondere alla domanda «A cosa stai pensando?», posta quotidianamente da Facebook a un miliardo di utenti. 
Come sottolinea Davies, la «scienza della felicità», nel suo tentativo di ‘quantificare’ qualcosa che va ben al di là di un oggetto materiale, è destinata a rimanere imprigionata in un paradosso insolubile. Ciò non significa però che dentro quell’utopia non si nascondano implicazioni dirompenti. Nel piccolo passo che conduce molti di noi a esibire spontaneamente la propria vita più intima qualcuno può forse intravedere un grande passo verso la conquista della «felicità» (o quantomeno della soddisfazione personale). Proprio compiendo quel ‘piccolo passo’ finiamo però anche dentro un immenso laboratorio in cui libertà, l’autonomia e la realizzazione degli esseri umani vengono ridotte a causalità neurali o psicologiche. E, soprattutto, dimentichiamo ciò che quell’anonimo cittadino di Copenaghen aveva forse intravisto già nel lontano 1927. 

Damiano Palano



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