giovedì 3 marzo 2016

Il «capitale umano» nella fabbrica della vita. «Biolavoro globale» di Melinda Cooper e Catherine Waldby




di Damiano Palano

Chi riveda oggi Traitement de choc – un vecchio polar francese del 1973 firmato da Alain Jessua e noto in Italia con il titolo L’uomo che uccideva a sangue freddo – non può non riconoscere, seppur nella forma esasperata della cinematografia di genere, almeno alcuni dei problemi in cui ci imbattiamo quando consideriamo le potenzialità offerte dalle tecnologie di manipolazione della vita. Nel film la protagonista, una non più giovanissima Annie Girardot, dopo essere stata lasciata dal marito, decide di ricorrere alle cure della dottor Devilars, un medico, impersonato da Alain Delon, celebre per aver scoperto formidabili metodi di ringiovanimento. Ospite della clinica, la donna inizia però a nutrire qualche sospetto sui metodi di cura, che inizialmente sembra si basino sull’utilizzo di una sostanza di origine ovina, che consentirebbe di rigenerare i tessuti. Ma i ripetuti malori dei inservienti, tutti giovanissimi africani che parlano solo portoghese, inducono la protagonista a indagare ancora. Fino al momento in cui scopre – come gli spettatori hanno già intuito – che il misterioso componente in grado di ringiovanire viene estratto da esseri umani, i quali però, prelievo dopo prelievo, si indeboliscono fino a morire. Nel tentativo disperato di mettere a tacere la donna, il dottor Devilars – come vuole il copione di ogni buon film d’azione – ha la peggio. Ma qualcun altro prenderà il suo posto. E il film si conclude così con le immagini di un furgone che conduce verso la clinica un nuovo carico di disperati, provenienti da qualche sperduto Sud del mondo e destinati a rifornire di carne viva l’inquietante fabbrica della giovinezza.
Nei poco più di quarant’anni trascorsi dalla realizzazione del film, l’elisir dell’eterna giovinezza naturalmente non è stato scoperto. Ma certo le tecnologie di manipolazione della vita si sono notevolmente modificate, e hanno preso forma settori potenzialmente molto remunerativi soprattutto per le industrie farmaceutiche. Spesso il dibattito – soprattutto in Italia – si concentra sulle dimensioni ‘bioetiche’ poste da queste nuove tecnologie, e la discussione tende quasi invariabilmente ad assumere il profilo di una contrapposizione tra i sostenitori del ‘progresso’ e della ‘scienza’, da un lato, e, dall’altro, gli alfieri dei valori confessionali e della ‘natura’. Un contributo interessante per uscire dalle secche di questa contrapposizione viene dal volume delle ricercatrici australiane Melinda Cooper e Catherine Waldby, Biolavoro globale. Corpi e nuova manodopera (DeriveApprodi, pp. 253, euro 18.00). 
Mentre molti studi sul postfordismo hanno considerato le diverse forme di lavoro immateriale, poche ricerche, scrivono le sue autrici, «hanno […] studiato le nuove forme di lavoro iscritte nei corpi (maternità surrogata, reperimento e vendita di tessuti del corpo, partecipazione a studi clinici), che proliferano ai margini delle economie bio-mediche post-fordiste». Il loro studio si concentra infatti proprio su queste forme di lavoro, che – secondo le due ricercatrici – tendono a far fuoriuscire il processo di produzione biologica dalla sfera privata della famiglia per portarlo verso il mercato. La «bioeconomia» di cui parlano è dunque un tipo di produzione che utilizza i processi biologici in molti campi differenti: «L’industria farmaceutica esige un numero sempre più elevato di soggetti per la sperimentazione, per rispondere all’imperativo dell’innovazione. Il mercato della riproduzione assistita continua a espandersi, dal momento che sempre più persone vogliono avere un figlio proprio ricorrendo alle tecniche di fecondazione assistita o di maternità surrogata, impiegando anche terze persone esterne alla famiglia – i venditori di gameti e le madri surrogate – e che i settori industriali delle cellule staminali necessitano di tessuti riproduttivi. Le industrie delle scienze della vita si basano su un’ingente forza-lavoro ancora non riconosciuta, cui vengono richiesti servizi legati a esperienze molti viscerali, come il consumo di farmaci in via di sperimentazione, la trasformazione ormonale, l’eiaculazione, l’estrazione dei tessuti e la gestazione, con procedure biomediche più o meno invasive. Solo negli Stati Uniti, l’epicentro dell’industria farmaceutica globale, un numero crescente di lavoratrici/ori precarie/i viene impiegato nella fase I, ad alto rischio, dei lavori di sperimentazione clinica in cambio di denaro, mentre le/i pazienti non assicurate/i vengono indotte/i a prendere parte a studi clinici in cambio di farmaci il cui prezzo sarebbe altrimenti insostenibile. Con la diffusione delle tecnologie di riproduzione assistita, la vendita di tessuti come oociti e spermatozoi, o di servizi riproduttivi come la maternità surrogata, appare sempre più come un fiorente mercato del lavoro, in cui la manodopera viene prodotta e selezionata secondo linee di classe e di razza. Il risultato si chiama lavoro clinico» (p. 32).
L’indagine si concentra in realtà soprattutto sui due più grandi mercati transnazionali del «lavoro clinico», ossia i lavori connessi alla fecondazione assistita e quelli legati alla sperimentazione di nuovi farmaci. Particolarmente interessante è proprio la ricostruzione dedicata ai processi di esternalizzazione della fertilità, ai criteri di selezione dei donatori utilizzati dalle banche del seme, allo sviluppo delle tecniche di stimolazione ovarica umana e di prelievo e conservazione degli ovociti, alla nascita delle agenzie di maternità surrogata (agenzie sorte alla fine degli anni Settanta in Florida e California, la cui attività a lungo si limitò, prima del riconoscimento giuridico, all’elaborazione di test per individuare il profilo psicologico adeguato a questo tipo di attività). Ma è importante anche il ruolo che le due ricercatrici riconoscono alla relazione contrattuale, soprattutto in un contesto in cui il contratto tra individui viene celebrato come lo strumento adeguato a garantire la libertà di entrambi i contraenti, e dunque a impedire forme di ‘sopraffazione’, senza che sia in alcun modo necessario l’intervento dello Stato. In realtà, però, sia le madri surrogate sia le venditrici di oociti non partecipano alla contrattazione sul prezzo, che viene gestita dall’agenzia, nonostante gli operatori del settore ricorrano costantemente a retoriche che presentano la maternità surrogata come un «dono»: «Le donne che cercano di stabilire da sole il valore della propria ricompensa sono considerate psicologicamente inappropriate e possono per questo essere scartate. Questo paradosso deriva dalla retorica di marketing tipica delle agenzie di intermediazione, satura di rimandi ai principi astratti del ‘dono della vita’ e della ‘generosità materna’, presentati come prerogative necessarie per divenire madri surrogate e fornitrici di oociti. La mistificazione della compravendita di oociti è evidente. Essa è presentata nei termini di una relazione di dono, perché in questo modo le parti contraenti possono intendere lo scambio in termini meno economici e commerciali di quelli stabiliti dal contratto. Senza questo espediente retorico, la rappresentazione della venditrice di oociti come efficace negoziatrice del proprio capitale riproduttivo minaccia di contaminare il principio della generosità materna che ha formato parte del suo valore sul mercato» (p. 88). 
Il ricorso alla retorica del «dono» è legata anche al fatto che alcune organizzazioni professionali che si occupano dell’autoregolazione della medicina riproduttiva sono contrarie per motivi etici alla vendita di oociti e sostengono che alla vendita sia invece preferibile un ‘rimborso’ a beneficio della donatrice. Ma l’enfasi sul «dono» di fatto costituisce solo uno strumento con cui le agenzie di intermediazione hanno nel tempo legittimato una relazione che rimane invece soprattutto ‘contrattuale’. Il contratto d’altronde impone in California – lo Stato che detiene il primato in questo settore – l’esecuzione in forma specifica, e cioè l’adempimento dei doveri previsti dall’accordo siglato dalle parti, secondo una formula in vigore alla fine del Diciannovesimo secolo e in seguito abbandonata per le altre forme di lavoro, su pressione delle lotte sindacali. Ciò significa in sostanza che lo Stato non può intervenire in caso di controversia, se non per far rispettare l’accordo sottoscritto dalle parti. Un caso celebre, che il libro ovviamente menziona, è quello che nel 1993 oppose una donna afroamericana, Anna Johnson, ai committenti bianchi, i Calverts. Benché i Calverts avessero fornito spermatozoi e oocita, Johnson rivendicava di essere la madre legittima, dal momento che aveva portato a termine la gravidanza. Dopo una lunga vicenda processuale, la Corte Suprema, pur riconoscendo Johnson come la «madre naturale», non la considerò come la «madre legittima», e così obbligò la donna a restituire il bambino ai Calverts (anche se non la condannò al pagamento della sanzione economica prevista dal contratto). Questo caso, secondo Cooper e Waldby, mostra in modo chiaro la differenza tra normali contratti di lavoro e contratti di lavoro riproduttivo, una differenza che discende dal fatto che «la madre gestazionale incarna letteralmente i mezzi di produzione: lavora grazie alla stessa biologia femminile della riproduzione» (p. 91). Se i proprietari di impianti produttivi hanno raramente fatto ricorso all’esecuzione in forma specifica, questo strumento si rende invece necessario nel campo del lavoro riproduttivo, perché i datori di lavoro non hanno altri strumenti per far rispettare la disciplina e per sostituire la manodopera: «Nonostante le tecnologie di riproduzione assistita taylorizzino la biologia, esternalizzando e razionalizzando le sue componenti, la gravidanza rimane un processo che non può (almeno non ancora) essere completamente esternalizzato» (p. 91).
Se gli Stati Uniti (in realtà solo alcuni Stati) hanno svolto un ruolo da apripista in questi settori, nel corso dell’ultimo decennio sono entrati nel mercato anche alcuni paesi poveri, in cui il costo di una maternità surrogata è sensibilmente più basso. Cooper e Waldby non mancano di compiere una rassegna di queste realtà, e in particolare considerano il mercato degli oociti in Europa (con rimborsi e indennizzi), la vendita degli oociti in Romania e il settore della maternità surrogata in India, un paese che ha adottato un modello simile a quello californiano. In India, il fatto che le donne coinvolte provengano spesso da fasce sociali molto basse rende la maternità surrogata una leva di promozione sociale, in una logica di tipo imprenditoriale in cui al ‘rischio d’impresa’ corrisponde la possibilità di ottenere un guadagno: «La maternità surrogata come modello economico», scrivono infatti le due autrici, «colloca queste donne in un mercato e in un insieme di relazioni transnazionali molto diversi da quelli del villaggio di origine. Diventando una madre surrogata, la donna assume finalmente un ruolo economico imprenditoriale, anche se in questo modo espone a rischi elevati il suo stesso corpo. Per affermare il proprio valore, le donne scelgono la maternità surrogata, in quanto proprietarie della loro capacità riproduttiva. In sostanza, le donne acconsentono alla trasformazione del loro utero in una risorsa, capace di produrre rendite monopolistiche» (p. 117). 
Il dibattito su questi temi, e in particolare sulla maternità surrogata, è destinato a protrarsi a lungo, sia perché – nonostante questa pratica sia vietata in quasi tutti i paesi europei e in buona parte del mondo – la ‘domanda’ (che ovviamente proviene dalle fasce più abbienti dei paesi occidentali) è probabilmente destinata a crescere, sia perché i margini di redditività per le agenzie che si occupano dell’intermediazione fra committenti e madri surrogate sono notevoli. Il volume di Cooper e Waldby assume rispetto all’insieme del «lavoro clinico» una posizione interlocutoria, nel senso che, se da un lato certo mostra la realtà di sfruttamento che si cela in questo settore (e anche dietro le retoriche del «dono»), dall’altro non indica strategie politiche o normative da adottare. Le due autrici si limitano infatti a sottolineare la necessità di ripensare i termini dello scambio, solo all’apparenza simmetrico, in vista di una trasformazione «in una prospettiva più equa» del lavoro clinico (p. 203). Una maggiore ambiguità si può leggere forse, almeno tra le righe, nella prefazione e della postfazione all’edizione italiana, firmate rispettivamente da Angela Balzano e di Carlo Flamigni, che si soffermano sui limiti della legislazione italiana in materia di procreazione assistita e che lasciano trapelare anche l’ipotesi di un utilizzo ‘alternativo’ delle tecniche della fertilità, basate su principi di trasparenza, sulla co-resposabilità e sulla libera scelta dei donatori, come strumento per ‘spezzare’ le catene del biolavoro globale. Anche se certo non tutti i casi di maternità surrogata possono essere ricondotti alla logica dello scambio mercantile (per esempio quando a essere coinvolti sono dei familiari), la realtà descritta dal volume di Cooper e Waldby dovrebbe lasciare però davvero poche illusioni sulle possibilità di poter contrastare solo con i buoni propositi la capacità di penetrazione della «bioeconomia». Anzi, proprio la retorica che rappresenta la maternità surrogata come «dono» – o, nei termini in cui l’ha definita recentemente Roberto Saviano, «un atto d’amore» – rischia semplicemente di offrire alimento alla legittimazione del processo di mercificazione della riproduzione biologica e della sua esternalizzazione. In una conversazione di alcuni anni fa, una delle due autrici del volume, Melinda Cooper, metteva d’altronde in guardia dai rischi insiti in quelle prospettive che, esaltando il desiderio di andare «oltre i limiti della vita umana», finivano in realtà per trascurare il peso delle reali dinamiche economiche: «non dovrebbe coglierci impreparate il fatto che alcuni tipi di imprese commerciali nelle scienze della vita si siano dimostrati disposti a sfruttare questi aspetti non riproduttivi delle relazioni (in particolare attraverso rDNA o tecnologie del DNA ricombinante) per espandere la possibilità di autovalorizzazione del capitale. Queste imprese saranno contente di trasgredire i limiti della riproduzione biologica tra le specie almeno fino a quando queste trasgressioni saranno brevettabili. Perché no? L’era postfordista del capitale si mostra abbastanza disposta a interloquire con gli spazi anti-riproduttivi della vita queer, in nuovi mercati di consumo, anche se finora l’ha fatto esigendo un determinato tipo di normatività in cambio» (M. Cooper, La vita come plusvalore. Biotecnologie e capitale al tempo del neoliberismo, Ombre corte, Verona, 2013, p. 15).
Non si tratta peraltro di discussioni nuove. Negli anni Novanta la giurista israeliana Carmel Shalev, mentre presentava le argomentazioni a favore e contro il libero mercato della riproduzione, proponeva una sorta di ‘nuovo contrattualismo’, in grado di far emergere i diritti della maternità surrogata. Ma – come Shalev ha riconosciuto in chiave autocritica – la studiosa aveva notevolmente sottovalutato le capacità espansive del «biobusiness», e cioè di un settore i cui obiettivi sono la ‘produzione’ di bambini per mezzo di madri surrogate e la realizzazione di profitti attraverso la vendita del prodotto. Ed è sufficiente anche una semplice occhiata ai siti delle agenzie che si occupano di surrogazione, per esempio in Ucraina, per rendersi conto di quale sia il livello di organizzazione di queste attività e per immaginare quale posto abbia – almeno nella grande maggioranza dei casi – la dimensione del «dono». Come ha scritto di recente Marco Dotti, sintetizzando il quadro del mercato della «maternità surrogata»: «Quello dell’outsourcing pregnancy è un mercato non solo ad altissimo rischio per i diritti elementari dell’uomo, ma è un rigged market, ovvero un mercato truccato dove la stessa logica liberal-individualista e contrattualista rivela che il proprio portato simbolico è arrivato al fine corsa, a tutto vantaggio di meri rapporti di forza che presto o tardi non avranno imbarazzo a rivelarsi come tali. Diventa molto interessante comprendere che, in molti formulari statunitensi (ovviamente quelli tipizzati dagli studi legali non sono pubblici), là dove costi, “prestazioni” e aspettative dei committenti sono ovviamente molto alte in conformità con la classe sociale di provenienza, i rapporti vengono regolati minuziosamente Non c’è particolare che sfugga: dall’alimentazione alla musica da ascoltare durante la gestazione, dall’eventualità di un aborto alla malnutrizione, dalla morte dei genitori committenti al divieto di fumare, bere, assumere sostanze da parte della madre surrogata, dal caso di una depressione improvvisa della madre a quello della nascita di un figlio con malformazioni o presunte disabilità relazionali. Ci sono anche clausole che permettono l'uscita dal contratto, da parte dei committenti, salvo il pagamento di una penale. Resta il fatto che una serie clausole vessatorie per la madre surrogata permette di “ricusare” il figlio, qualora non conforme alle aspettative della committenza. A proposito di “rischi”, in un formulario standard di agreement leggiamo che i rischi del parto sono interamente a carico della madre surrogata, che dichiara di aver compreso le condizioni contrattuali. Questo, ovviamente, non esclude penali economiche a carico della madre surrogata che, in questo caso, si troverebbe a precipitare in una spirale di indebitamento senza fine, considerando che le “donatrici” sono solitamente donne in difficoltà o studentesse indebitate per i loro corsi all’università. Penali ancora più pesanti sono previste nel caso di rottura del patto di riservatezza che mira a tutelare l’identità dei committenti e impedisce alla madre di dare o cercare informazioni tramite media o altri mezzi (compresa l’investigazione privata), nel caso volesse mettersi sulle tracce del figlio naturale. Si tratta di una gabbia giuridica difficilmente aggirabile, che pone in capo alla madre surrogata una serie di vincoli che, là dove non vi sia sfruttamento a monte (come nei casi di Thailandia e India, Paesi scossi da scandali in tal senso), getta un’ombra oscura sulla logica stessa che presiede questo outsourcing di maternità» (M. Dotti, Derivati di merce umana. Il biobusiness della maternità surrogata, in «Vita», 6 febbraio 2016).
Probabilmente, per interpretare processi così complicati e per molti versi inediti, l’approccio ‘neo-marxista’ adottato da Cooper e Waldby potrà apparire a molti riduttivo, o forse anche semplicistico. Al di là di alcune soluzioni proposte dalle due ricercatrici (come per esempio la ridefinizione del «lavoro astratto», in relazione alla dimensione della temporalità), è però davvero difficile negare che la vecchia chiave di lettura marxiana riesca a cogliere almeno alcuni aspetti del «biobusiness». E così è difficile non ricordare le vecchie parole Manifesto in cui Marx ed Engles scrivevano –certo non per riferirsi alla maternità surrogata – che con l’affermazione della grande industria per i proletari i fanciulli si trasformano «in semplici articoli di commercio e strumenti di lavoro» (Manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, Roma, 1996, p. 30). Oppure rievocare le pagine in cui il giovane Marx  scriveva che il «lavoro alienato […] estrania all’uomo il suo proprio corpo, come la natura di fuori, come il suo spirituale essere, la sua umana essenza» (K. Marx, Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma, 1981, p. 200). È però sin troppo ingenuo pensare di poter contrastare la mercificazione della riproduzione biologica con la retorica dell’«essenza» umana cui si richiamava il giovane Marx, così come è ingenuo pensare di arginare queste logiche evocando l’orrore per pratiche ‘contro natura’. Perché è facile immaginare che nei prossimi anni – in campi anche differenti dalla vendita di oociti e della maternità surrogata – le possibilità di sviluppo commerciale del «lavoro clinico» si moltiplicheranno. E perché è facile pensare che troveranno nelle aspettative del consumatore globale un mercato tendenzialmente sterminato. 
Ovviamente possiamo condannare l’egoismo di chi decide di utilizzare, come un semplice ‘consumatore’, i ‘servizi’ offerti dalle imprese che operano nel campo della maternità surrogata. Ma ci deve essere comunque chiaro che queste riserve morali costituiscono argini debolissimi in un quadro che assegna al dispositivo del mercato il compito (e la capacità) di realizzare le aspirazioni di libertà di ciascun individuo. Un esempio chiaro in questo senso è stato offerto di recente da una storica dirigente del Partito radicale, a suo tempo impegnata all’interno del movimento femminista, la quale, a proposito della discussione sulla liceità del ricorso alla maternità surrogata, ha dichiarato che, se è lecito donare un rene, allora non si può escludere la possibilità di donare l’utero. Affermazioni di questo genere – che trovano peraltro un’accoglienza particolarmente favorevole negli ambienti ‘progressisti’ e di ‘sinistra’ – evidentemente sottovalutano, un po’ come faceva Shalev trent’anni fa, la realtà che ha ormai assunto il «biobusiness»: una realtà in cui la componente del «dono» è evidentemente marginale, e in cui la ‘cessione’ a un’agenzia delle proprie capacità riproduttive da parte di una donna è in realtà una relazione economica, dettagliatamente contrattualizzata e retribuita in misura variabile a seconda dei paesi. Ma in questa ingenua (o forse consapevole) sottovalutazione della realtà si nasconde un aspetto che non può essere sottovalutato, ossia il fatto che la legittimazione di una pratica si rivela tanto più efficace nel momento in cui procede dal riconoscimento della legittimità di un desiderio, e non dagli strumenti che vengono utilizzati per soddisfarlo. E non si tratta certo di una componente irrilevante. A ben guardare, infatti, anche la ricerca di una nuova giovinezza da parte della protagonista del vecchio Traitement de choc era un desiderio comprensibile: un desiderio anzi tanto umano da essere in fondo comune a tutti. Del tutto comprensibili sono anche tutti quei desideri che vanno ad alimentare il mercato della procreazione assistita e la maternità surrogata. E, così, è perfettamente comprensibile il desiderio che una persona in attesa di trapianto ha di ottenere un organo compatibile (un desiderio che può persino spingersi fino al pagamento del ‘donatore’, il quale in questo caso diventerebbe evidentemente un ‘venditore’, come sono di fatto molte madri surrogati, se non certo tutte). Ma in questo modo – sarà persino un po’ fuori moda riconoscerlo – scompaiono, sotto la superficie di una relazione di mercato, tutte le implicazioni di sfruttamento che la relazione ‘contrattuale’ tra acquirente e venditore nasconde. E cioè scompare innanzitutto il fatto che non si tratta quasi mai – almeno nel mercato del «biobusiness» – di una relazione simmetrica. Perché sarebbe a dir poco ingenuo evocare la ‘libertà’ per spiegare il comportamento con cui la madre surrogata decide di ‘vendere’ la propria capacità rigenerativa in cambio di una remunerazione monetaria. A meno di non riconoscere che in fondo ciascun lavoratore è ‘libero’ e ‘sovrano’, perché è del tutto ‘libero’ di vendere la propria forza lavoro al prezzo che ritiene più opportuno. A meno di non riconoscere l’esercizio concreto di questa libertà nella possibilità con cui ciascun lavoratore – manifestando la propria autodeterminazione – può derogare ai vincoli di contratti nazionali e di categoria, prestandosi ‘liberamente’ a lavorare dodici ore al giorno, sette giorni su sette, trecentosessantacinque giorni all’anno. E a meno di non riconoscere la manifestazione suprema della libertà nella decisione con cui molti giovani italiani in cerca di un reddito si prestano a ‘lavorare gratuitamente’, e cioè a ‘donare’ il loro tempo e le loro energie senza avere in cambio nulla. Ma è in fondo proprio per questo che la vicenda del «biolavoro» risulta tanto indicativa. 
Al di là degli enormi problemi etici che solleva, il «biolavoro» diventa infatti quasi il paradigma di un quadro generale, nel quale ogni individuo diventa solo il titolare di uno specifico ‘capitale umano’. Un ‘capitale’ che ciascuno è chiamato a preservare, coltivare e accrescere. Un ‘capitale’ che ciascuno può vendere ‘liberamente’ tuffandosi in una immensa distesa di merci. Un ‘capitale’ che ognuno può utilizzare ‘liberamente’ – spremendo dalla propria mente e dal proprio corpo ogni ipotetica possibilità commerciale – per le transazioni più vantaggiose e per ottenere le risorse necessarie per soddisfare i propri desideri. In altre parole, il «biolavoro» è solo la più drammatica testimonianza della logica che si nasconde dietro la retorica del ‘capitale umano’. E forse l’aspetto più sinistro non è che dietro l’utilizzo che ciascuno di noi è chiamato a fare del proprio ‘capitale umano’ si nasconde spesso (o sempre) la realtà dello sfruttamento. Ma è piuttosto che quel formidabile dispositivo – invitandoci a gettare in una sterminata raccolta di merci le nostre energie, le nostre idee e nostri corpi, e a mettere a valore tutte le nostre potenzialità – «ci fa credere che ne va della nostra liberazione».

Damiano Palano 

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