venerdì 10 aprile 2015

Uno di noi. Matteo Renzi secondo Claudio Giunta


di Damiano Palano

È molto difficile prevedere in questo momento se il governo presieduto da Matteo Renzi riuscirà a mantenere almeno alcune delle sue molte promesse, e se le attese che la sua nascita ha destato in una fetta consistente dell’opinione pubblica italiana non andranno deluse. Ciò nonostante, la sensazione è che la parabola dell’uomo politico fiorentino non sia destinata a entrare rapidamente nella sua fase discendente, e che dunque il volto dell’ex sindaco di Firenze debba accompagnarci ancora a lungo, forse addirittura per un ventennio. Anche per questo la letteratura sul fenomeno non potrà che crescere nel corso dei prossimi anni, colmando il vuoto creatosi sui tavoli delle novità della saggistica con l’uscita di scena di Silvio Berlusconi. Già negli ultimi mesi i libri su Renzi sono d’altronde comprensibilmente aumentati in termini esponenziali, e ai primi istant book, celebrativi e scandalistici, hanno iniziato ad affiancarsi testi di analisi e interpretazione più meditati. Fra questi si inserisce senza dubbio il volumetto di Claudio Giunta Essere #matteorenzi (il Mulino, pp. 80, euro 8.00), un libro che, sulla scorta probabilmente del vecchio saggetto di Umberto Eco su Mike Bongiorno, punta a proporre una sorta di «fenomenologia» del Presidente del Consiglio. 
Giunta insegna Letteratura italiana all’Università di Trento, e in effetti nel suo testo non si occupa propriamente di ‘politica’ (o quantomeno di ciò che di solito si intende con questo termine), ma in pagine godibilissime cerca di portare alla luce quel modo di intendere la vita, il mondo e se stessi di cui Matteo Renzi è portatore. D’altronde Giunta è soprattutto uno straordinario esploratore di luoghi comuni, e in fondo l’operazione che compie consiste proprio nel mostrare come Renzi – il suo modo di parlare, di gesticolare, di pigiare compulsivamente sui tasti dell’iPhone – sia un grumo di luoghi comuni, che condivide con i suoi coetanei. E proprio questo lo rende una fotografia, molto più fedele di quanto si possa pensare, della sua generazione.
È sin troppo facile smontare i discorsi di Renzi per mostrare l’inesistenza di qualsiasi struttura argomentativa e per dimostrare la totale latitanza di idee che non siano la riproposizione elementare delle più classiche conversazioni ferroviarie. D’altronde – ormai lo ha compreso anche il più distratto ascoltatore – la vera specialità di Matteo Renzi è la diversione. In quelle rare occasioni in cui si trova di fronte a un interlocutore che non svolga il ruolo della spalla comica, e che si spinga a fare una domanda minimamente puntuale (sui vincoli di bilancio, sul sistema fiscale, sui contratti di lavoro, sulla forma-partito, ecc.), le risposte di Renzi replicano sempre lo stesso schema, modulato in tre o quattro varianti: «Sarebbe bello parlare della forma-partito, ma temo che lo share crollerebbe…», «avete impegni per domani? Scherzi a parte, il problema non è il sistema in sé, ma il modo in cui finora l’abbiamo affrontato…», «Potremmo parlarne a lungo – e se volete possiamo anche parlarne – ma penso che agli italiani interessi davvero poco affrontare questo tema…». Ma più che di un’abile strategia di diversione, si tratta probabilmente di un modo di pensare istintivo. Un modo di pensare che induce Renzi a muoversi ininterrottamente da un problema a un altro, da un livello a quello successivo, senza mai soffermarsi più di qualche istante su una questione, e senza che ci sia mai (o quasi mai) un rapporto logico fra gli accostamenti. In questo Renzi non è certo un rivoluzionario. Non è infatti il primo politico che non risponde alle domande e che – parlando magari per un’ora di seguito – è in grado di non dire sostanzialmente nulla. Ma l’indubbia capacità dell’attuale segretario del Pd consiste nell’inanellare frusti luoghi comuni, strafalcioni imbarazzanti, battute stantie, giochi di parole stucchevoli con la naturalezza e l’entusiasmo di chi si diverte davvero, e che forse per questo riesce a divertire. 



Giunta lo sa bene, e la strada che percorre non è certo quella della critica a Renzi,  anche se la sua «fenomenologia» è costellata dai contrappunti di un «amico snob», cui è affidato il compito di mettere in luce tutte le enormità, le semplificazioni, il cattivo gusto dell’uomo politico. Piuttosto Giunta punta sull’elemento generazionale, sulla generazione dei quarantenni overachiever, di cui Renzi non fa che riproporre – in termini forse deformati e abnormi – tutti i tic culturali: «Degli overachiever Renzi possiede, più che la fretta, la concitazione. […] Il fare di Renzi, l’ossessione di fare, il progetto subito rientrato di fare una riforma al mese, non una buona riforma ma una riforma, purché venga fatta – tutta questa smania è dunque anche malattia dell’età e del tempo, cioè dell’età di Renzi, dei quarant’anni di Renzi vissuti dentro questo tempo: è la stessa smania che porta i coetanei di Renzi, i normali quarantenni che siamo, a mettere il proprio nome ai piedi di qualsiasi lista, a iscriversi a tutto, dal corso di Tai Chi alla Stramilano, dalle lezioni di cucina macrobiotica allo stage di counseling filosofico, dalla meditazione sufi al crossfit, a imparare un po’ di tutto ma niente davvero bene, perché lo specialismo è arido, e nessuna possibilità deve restare inevasa per questi Urlich in trentaduesimo: saperne un po’ di vino, parlare un po’ di tedesco, cavarsela ai fornelli, mandare la palla al di là della rete a tennis, ballare passabilmente la pizzica» (p. 51). 



Ma la concitazione ha un riflesso evidente anche nel modo di rapportarsi con la cultura, una cultura fatta di frammenti di immagini televisive, film, canzoni, che affiora costantemente dai discorsi di Renzi. Un simile impasto raggiungeva in Walter Veltroni – il ‘politico-intellettuale’ cui i posteri dovranno riconoscere il ruolo di autentico ‘precursore’ del «renzismo», un po’ come D’Annunzio fu il ‘precursore’ del fascismo – una notevole coerenza e assumeva persino i contorni di una filosofia volta a espellere dal mondo qualsiasi dimensione conflittuale che non fosse la distinzione netta fra il Bene e il Male assoluto (vedi L’eterno revival). In Renzi naturalmente tutto questo è molto più sfumato, forse persino incoerente. E in un simile atteggiamento Giunta ritrova proprio un tratto comune alla generazione di Renzi: « I quarantenni attuali misurano questa concitazione non solo nel loro presente ma anche nel loro passato, nell’incalcolabile numero di mode, film, canzoni, libri, spettacoli televisivi, e insomma nell’incalcolabile numero di cose che gli sono passate attraverso gli occhi e le orecchie dalla fine degli anni Settanta, quando hanno acquistato coscienza del mondo, sino ad oggi. Tutto questo tempo, compresso, dà le vertigini, e uno degli atteggiamenti più comuni, fra i quarantenni, è la verbalizzazione di queste vertigini, il continuo riferirsi a una ‘cultura’ percepita sia come straniante sia come intimamente connessa a ciò che si è. Per capirsi, la commercializzazione del pop puberal-adolescenziale in TV o nelle serate in discoteca: le sigle dei cartoni, Furia cavallo del West, Cristina D’Avena, il Trio Medusa. Tra i quarantenni, ripeto, perché tra i quaranta e i cinquanta cade l’ombra: cade cioè la sentenza della Corte costituzionale che mette fine al monopolio RAI, cade la fondazione di Telemilano, cade Drive-In» (pp. 51-52).
L’ossessivo ottimismo di Renzi ha incontrato un certo successo in una fetta consistente di italiani. È ancora difficile valutare l’entità reale di questo entusiasmo e soprattutto la sua capacità di resistere nel tempo. Ma dal contagio di questo ottimismo Giunta sembra immune proprio per motivi generazionali. «Quando uno ha vent’anni», scrive Giunta nelle pagine concluse del suo volumetto, «è portato a pensare che il ministro in giacca e cravatta che parla al microfono guardando in camera sappia cose che lui, ancora giovane, non sa». E immagina anche che «nell’incontro a Palazzo Chigi, con quelle facce serissime, quei completi scuri, si sia deciso qualcosa di risolutivo sulle banche, sulle pensioni, sull’immigrazione, qualcosa che avrà lunghi e positivi effetti sui destini di tutti», e «si aspetta che dietro quella evanescenza ci sia un macchinario perfettamente oliato, che i quarantenni hanno imparato a far camminare, e a mettere a posto se s’inceppa» (p. 75). E chi è più anziano finisce col rimanere vittima di una distorsione ottica del tutto speculare a quella dei ventenni. «Quando uno ha sessant’anni il mondo comincia a ridiventare incomprensibile, e allora si pensa che i più giovani abbiano la chiave non solo per interpretarlo ma anche per migliorarlo; e se il loro modo di pensare e di agire sembra strano s’incolpa non la loro stranezza, che nel frattempo è diventata la norma, ma la propria incapacità di stare al passo coi tempi» (p. 76). Ma chi ha quarant’anni o giù di lì, chi appartiene a quella stessa generazione che ha espresso Renzi, chi condivide con lui i percorsi di formazione ‘culturale’, gli stessi riferimenti cinematografici, televisivi, musicali, chi ha esattamente gli stessi ‘tic’ culturali, non può credere davvero in quell’ottimismo esibito, sbandierato ossessivamente. Semplicemente perché sa riconoscere bene cosa c’è dietro alcune parole, dietro alcune formule rituali, dietro le battute autoironiche, dietro le strategie di diversione, dietro i riferimenti pop al Ridge di Beautiful o alle televendite di Giorgio Mastrota. Un quarantenne – scrive infatti Giunta, cogliendo un punto centrale - «sa quando Matteo Renzi ha imparato parole di gomma come brainstorming, digital divide, Ceo, duepuntozero; sa come suonavano strane all’inizio; sa da dove gli arrivano tutti gli pseudo-concetti, le semplificazioni, il kitsch, la retorica, soprattutto la retorica – che significa ossequio, riconoscimento di valore reso non per sperimentata convinzione ma per conformismo ai luoghi comuni messi in circolo dai media, la retorica che è il contrario della deferenza -, la retorica che scambia gli slogan motivazionali con le buone intenzioni, e le buone intenzioni con la capacità di metterle in pratica, e posandosi sui concetti li svuota di senso e di aderenza alle cose, e li trasforma in arnesi da imbonitore: l’eccellenza, l’imprenditorialità, la Grande Bellezza, i Valori… Sotto l’intonaco dello storytelling, del positive thinking, il quarantenne vede saltar fuori tutta un’atroce Italia in cartongesso, riconosce la malattia nazionale del comparire, del fare bella figura o almeno non sfigurare, delle feste di matrimonio pagate con l’ipoteca sulla casa, ripensa alle parate mussoliniane coi dieci aerei cambiati di posto perché sembrino cento, riascolta l’abc berlusconiano a proposito del manager di successo – sorridere sempre, stretta di mano asciutta, niente barba – e ritrova insomma, sotto la crosta sottile delle fregnacce, che come diceva Gadda “so’ sempre fregnacce”, il volto familiare del’Italia Eterna, la Repubblica democratica fondata sulla Fuffa» (pp. 76-77).



Anche il più strenuo sostenitore di Matteo Renzi farebbe davvero fatica a contestare il ragionamento di Giunta. La «fenomenologia» dell’ex-sindaco di Firenze coglie infatti nel segno, nel senso che inserisce davvero il ‘fenomeno’ all’interno del contesto culturale che l’ha partorito e di cui porta interamente i segni. Ma – a dispetto dell’efficacia dell’operazione – è anche piuttosto chiaro che il ritratto di Giunta non serve ‘politicamente’ a nulla, se non a gratificare i palati fini di quegli «amici snob» che trovano nel «renzismo» niente altro che un’espressione degenerativa del «berlusconismo». E come vent’anni di critiche al «berlusconismo» - alla sua visione della donna, dell’impresa, della società, della democrazia, della libertà, e così via – non hanno partorito politicamente nulla di rilevante, ci si deve attendere che le critiche alla ‘cultura’ di Renzi non daranno origine proprio a niente, se non a un profluvio di pubblicazioni di cui il libretto di Giunta verrà considerato il capostipite. D’altronde, l’obiettivo che si propone Essere#matteorenzi non è certo politico, tanto che Giunta – forse più per retorica che per reale convinzione – non esclude neppure di poter essere contagiato dall’entusiasmo del Presidente del Consiglio. Ma, al di là dei risvolti specificamente politici, è indubbio che questo saggio inizia a indicare anche la direzione di un lavoro di scavo sulla metamorfosi delle culture (politiche) degli italiani, una metamorfosi di cui Renzi – più che artefice – è davvero il prodotto. E anche in questo caso, si dovrà probabilmente ritornare agli anni Ottanta, a quella «mutazione antropologica» in cui qualcuno ha intravisto la genesi di quell’«egemonia sottoculturale» di cui il «berlusconismo» si è alimentato, e di cui il «renzismo» costituisce forse l’apogeo.



Ma al di là di tutto questo, è inevitabile che la lettura di un libro come quello di Giunta sia destinata a suggerire anche altre domande. Domande che chiamano in causa proprio la generazione dei quarantenni, cui – detto per inciso – appartiene anche chi scrive queste righe. Per anni sulla stampa italiana sono affiorate periodicamente lamentazioni sulla scarsa valorizzazione dei giovani, di quella generazione di trenta e quarantenni ostacolata dalle resistenze della ‘gerontocrazia’ diffusa in Italia in tutti i settori. Si è letto di una guerra fra generazioni, che avrebbe danneggiato le giovani generazioni e privilegiato quelle meno giovani, nate tra gli anni Quaranta e Cinquanta, colpevoli di avere vissuto al di sopra dei propri mezzi e di avere sperperato risorse a tutto svantaggio di chi sarebbe venuto dopo. Oggi, dopo tante recriminazioni, con Matteo Renzi quella generazione ha ‘preso il potere’. Ma a questo punto si ci si potrebbe chiedere perché quella generazione non abbia saputo esprimere nulla di meglio di Renzi. E ci si potrebbe anche chiedere se davvero quella generazione, che tanto ha biasimato la propria condizione di marginalità, abbia realmente qualcosa da dire, qualcosa di rilevante che non coincida più o meno fedelmente con il vuoto pneumatico – un vuoto di idee, di prospettive, di progettualità – che traspare prepotentemente da qualsiasi esibizione pubblica del Presidente del Consiglio. Perché la sensazione – una sensazione anche angosciante – è che Renzi non sia affatto un’anomalia, ma restituisca invece con grande precisione proprio tutti i tratti, e tutta l’inconsistenza, il pressapochismo la superficialità di quella generazione, nata fra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, che è cresciuta e si è formata ‘culturalmente’ negli anni Ottanta. Certo – come l’«amico snob» di Giunta – possiamo consolarci mettendo alla berlina gli strafalcioni di Renzi, le sue citazioni kitsch, le sue stucchevoli immagini sul fare e sulla comunità. Ma la verità più sconcertante – e forse anche umiliante – è che ogni quarantenne di media cultura, guardando Renzi mentre si sbraccia scompostamente, mentre indica delle slide, mentre commenta un video, mentre ammicca al pubblico in sala o preme compulsivamente sulla tastiera del suo telefonino, non può non riconoscere se stesso. Di fronte alle sue palpebre semichiuse, al suo labbro pendulo, allo sguardo che sbircia verso lo schermo del tablet e che non si fissa su nulla per più di qualche secondo, ogni quarantenne non può infatti evitare di ammettere quella verità perturbante che più si fatica ad accettare, e che dentro di sé si conosce fin troppo bene. Quella verità che ci dice ogni volta: «sì, è proprio vero: Matteo Renzi è uno di noi». 

Damiano Palano

P.S. Nel gustoso libretto di Giunta su Renzi non mi torna una frase (citata anche nella recensione): "Per capirsi, la commercializzazione del pop puberal-adolescenziale in TV o nelle serate in discoteca: le sigle dei cartoni, Furia cavallo del West, Cristina D’Avena, il Trio Medusa". Quello che non mi torna è proprio il Trio Medusa... Probabilmente - ma qui interpreto Giunta - il riferimento è ai Trettré, celebri tra i quarantenni per un tormentone non proprio fine. E chissà che il lapsus di Giunta non nasconda qualcosa... 

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