lunedì 23 gennaio 2012

L'eterno revival. Il mondo impolitico di Walter Veltroni




di Damiano Palano

Quando «l’Unità» decise di distribuire come allegato al giornale la fedele riproduzione dei vecchi album di figurine Panini, alcuni degli storici lettori del quotidiano rimasero disorientati, se non addirittura indispettiti. Una simile scelta, però, non era soltanto l’ennesima tappa della guerra degli inserti, che i quotidiani italiani avevano da poco iniziato a combattere per arginare l’emorragia di copie vendute. E non era neppure una trovata occasionale per rilanciare un giornale schiacciato dal peso di una spaventosa situazione di bilancio. Da quella scelta trapelavano infatti una specifica visione del mondo e i tratti di una vera e propria politica culturale. Allegare al giornale fondato da Antonio Gramsci gli album Panini, con le figurine dei calciatori degli anni Sessanta e Settanta, significava aprire quello che era stato un simbolo del Partito comunista italiano alla cultura ‘pop’, alla cultura dei beni di consumo di massa. E significava, dunque, rompere con alcune vecchie convinzioni della cultura di sinistra: sia con l’idea ‘alta’ della cultura popolare come espressione autonoma dei ceti subalterni, sia con la concezione della cultura come esito di una lotta fra gruppi per la conquista dell’egemonia nella società.
D’altronde, quella scelta editoriale esprimeva in modo paradigmatico la sensibilità estetica del nuovo direttore del giornale, Walter Veltroni. Una sensibilità di cui i più attenti lettori dei suoi saggi sugli anni Sessanta e delle sue rubriche cinematografiche avevano già iniziato a decifrare da alcuni anni le principali coordinate, ma che sarebbe riaffiorata pienamente nella produzione narrativa di Veltroni, in particolare nei due best seller La scoperta dell’alba Noi. Ora quella stessa sensibilità emerge anche nell’ultima fatica letteraria di Veltroni, L’inizio del buio (Rizzoli, 2011)un libro che segue in parallelo il rapimento di Roberto Peci, da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani, e la tragedia di Vermicino, di cui fu protagonista il piccolo Alfredino Rampi. Per molti versi, L’inizio del buio si colloca all’interno di uno dei filoni più frequentati da Veltroni, in cui la biografia romanzata di personaggi esemplari diventa l’occasione per raccontare – in modo ovviamente personale – una porzione della storia recente. Ed è infatti proprio in questo filone che – a parte i due romanzi citati, i racconti di Senza Patricio (Rizzoli, 2004), il monologo poetico Quando cade l’acrobata, entrano i clown (Einaudi, 2010) – si inseriscono anche le biografie di Berlinguer (La sfida interrotta, Baldini & Castoldi, 1995), di Robert Kennedy (Il sogno spezzato, Baldini & Castoldi, 1993), di Luca Flores (Il disco del mondo, Rizzoli 2007), episodi di un’instancabile attività di poligrafo, di cui possono essere ricordati – oltre a una serie imprecisata di prefazioni – anche testi come Il sogno degli anni ’60 (Savelli, 1981), Il calcio è una scienza da amare (Savelli, 1982), Io e Berlusconi (e la Rai) (Editori Riuniti, 1990), I programmi che hanno cambiato l’Italia (Feltrinelli, 1992), Certi piccoli amori (Sperling & Kupfer, 1994, raccolta delle sue memorabili recensioni cinematografiche sul «Venerdì» di «Repubblica»), Certi piccoli amori 2 (Sperling & Kupfer, 1997), La bella politica (Rizzoli, 1995), Forse Dio è malato. Diario di un viaggio africano (Rizzoli, 2000), Che cos’è la politica (Rizzoli, 2007), La nuova stagione. Contro tutti i conservatorismi (Rizzoli, 2007).
In molti si sono interrogati sulla prolificità di Veltroni come scrittore, oltre che sulle ambizioni che spingono un navigato uomo politico a sperimentare quasi ogni genere letterario. Ovviamente, non si tratta del primo leader di partito che punta a darsi una veste intellettuale e a firmare libri in prima persona, e, d’altronde, all’interno del partito da cui Veltroni proviene, un’adeguata riflessione culturale rappresentava un bagaglio pressoché indispensabile per raggiungere una posizione di rilievo. Anche di recente, importanti esponenti della sinistra italiana hanno consegnato le loro riflessioni alle dense pagine di autobiografie spesso ricche di spunti importanti, soprattutto per chi intende riflettere sull’auto rappresentazione del ‘militante’ novecentesco (o almeno di una sua frazione significativa), ed esempi di questa memorialistica sono offerti da volumi, a loro modo importanti, come La ragazza del secolo scorso di Rossana Rossanda (Einaudi), Volevo la luna di Pietro Ingrao (Einaudi), Il sarto di Ulm di Lucio Magri (il Saggiatore). Ma anche questa auto rappresentazione subisce trasformazioni nel corso del tempo, e non può che riflettere il mutamento del clima politico, oltre che – probabilmente – lo scadimento culturale delle leadership contemporanee. E proprio la scelta della narrativa, rispetto all’autobiografia, costituisce un buon indice di una simile trasformazione.
Per lungo tempo, l’immagine del militante – e del dirigente comunista – fu segnata dall’abnegazione nei confronti di una causa sostenuta con rigore, dalla tenacia anche dinanzi alle prove più dure della storia, dall’adesione alla ferrea disciplina di partito (anche a dispetto di contrasti più o meno visibili), ma le cose mutarono notevolmente già nel corso degli anni Settanta, in coincidenza con la segreteria di Berlinguer. «Tra i comunisti italiani», ha scritto a questo proposito Giovanni De Luna, «questo tipo di auto rappresentazione cominciò a incrinarsi nella seconda metà degli anni 70, con i libri di Giovanni Amendola (Un’isola e Una scelta di vita) e i loro toni a volte elegiaci, a volte epici. Poi, alla fine degli anni 80, quando il Pci si schiantò contro il muro della Storia (quella drammaticamente concreta delle macerie berlinesi), i prodromi intravisti in Amendola diventarono una valanga. La memoria dei dirigenti comunisti implose su se stessa, i ‘monumenti’ si sgretolarono lasciando affiorare un nuovo registro narrativo, racconti intimistici, rinchiusi in un recinto privato, in cui alla fine (come nel caso dei primi due segretari del Pd, Veltroni e Franceschini) sembra che i romanzi stiano scalzando lo stesso modello autobiografico» (G. De Luna, La sinistra unita al muro del pianto, in «TuttoLibri-La Stampa», 16 maggio 2009, p. VIII).
Se l’impegno narrativo di Franceschini, cui allude De Luna, può essere considerato come il segno di un mutamento culturale, è piuttosto evidente che il caso di Veltroni – per la massa quantitativa dei suoi scritti, e per la ricerca di una specifica cifra stilistica, che accomuna tutta la sua intera produzione – ha una rilevanza assai superiore. A ben guardare, d’altro canto, in tutte le operazioni più strettamente ‘culturali’ avviate da Veltroni – dalle figurine Panini, alle recensioni cinematografiche, dalla storia di Alfredino Rampi fino alla produzione più spiccatamente narrativa – si intravede chiaramente quella stessa cifra stilistica che emerge dall’attività politica dell’ex leader del Pd e dal suo tentativo di costruire un nuovo immaginario per la sinistra italiana: un immaginario che sia in grado di confrontarsi con la trasformazione dei linguaggi della politica e con la fine delle ideologie, ma al tempo stesso di tenere insieme il magmatico, lacerato, disperso popolo degli elettori di sinistra. È così probabilmente a questo immaginario – alle sue modalità di costruzione, ma anche alle sue tappe di sedimentazione nel sentire comune – che è opportuno guardare, per comprendere davvero le motivazioni che stanno alla base della decadenza italiana (una decadenza che viene prima, non solo logicamente, rispetto alla decadenza della politica italiana).
Da questo punto di vista, il primo romanzo di Veltroni, La scoperta dell’alba, restituisce nel modo migliore il paradigma di un atteggiamento emotivo, culturale e politico nei confronti della Storia e del mondo. In quel libro, l’archivista Giovanni Astengo ha una famiglia felice, una moglie con una carriera avviata e due figli amatissimi. Ma qualcosa minaccia la felicità di Astengo, una «paura» indeterminata, generica, che affiora già in un dialogo – a suo modo formidabile – fra il protagonista e il figlio, che, nella sua grottesca solennità, mostra già come le ambizioni letterarie di Veltroni si combinino tanto con l’abuso insistito del luogo comune, quanto con una strabiliante ingenuità stilistica:

«Sai, papà, ho visto una foto di tutti voi il giorno dell’inaugurazione della casa di campagna. I grandi sembrano di un altro tempo se li confronti con le foto della festa per la mia nascita, meno di vent’anni dopo. Vestiti diversi, occhiali diversi, capelli diversi. Come se la società fosse andata veloce, così come era andata veloce dal dopoguerra al Sessantotto. Correvate, correvano. E il vento si vedeva nei vostri capelli, nei costri vestiti. Invece se vi guardo oggi e vi confronto con una foto alla metà degli anni Ottanta mi sembra che voi grandi siate uguali. Avete più tecnologie ma il vostro linguaggio, quello dei vostri vestiti e dei vostri atteggiamenti, persino dei vostri corpi, indica un rallentamento. Le cose sono cambiate poco. D’altra parte, quasi trent’anni dopo, che cosa ne è della luna, dello spazio, dell’uomo che conquistava nuove frontiere? Siamo in una simulazione virtuale, papà. Come quelle di Disneyland. Siamo convinti di andare a velocità supersonica ma siamo fermi. E alla porta delle nostre case bussano le epidemie dei polli. E ci mettono paura».
«È la paura, Lorenzo, che domina la nostra vita. Paura degli attentati, paura delle malattie, paura della natura. Paure dovunque. Anche piccole. Paura che avendo messo tutta la vita nella memoria di un computer un virus, stavolta telematico, ce la consumi lasciandoci vuoti, nudi, senza tracce. E una sensazione di oppressione, di controllo. Qualcuno può sapere che spese abbiamo fatto, le malattie che abbiamo, può leggere le nostre e-mail, può sapere dove siamo grazie al cellulare. Siamo tutti registrati alla locanda della paura» (pp. 40-41).

Se questo dialogo contiene – con i suoi limiti e soprattutto la sua enfasi sovrabbondante – tutto il mondo di Veltroni, le matrici divengono ancora più esplicite quando riaffiora il trauma non rimarginato che lacera la memoria di Astengo: la scomparsa del padre, un professore universitario di Architettura, avvenuta circa trent’anni prima e rimasta senza spiegazione. In un giorno d’estate, Astengo ritorna nel casale di campagna della sua famiglia, abbandonato da anni, e diventa ben presto chiaro che quella gita è destinata a trasformarsi in un viaggio nella memoria. L’archivista ritorna infatti nei luoghi di un’infanzia felice e ritrova l’albero in cui lo zio – gita dopo gita – segnava la misura della sua crescita. E quando Astengo riconosce l’albero, il lettore non può certo non cogliere quali siano le date della prima e dell’ultima misura:

«Un passo, una sosta. Mentre i flash della memoria mi inebetivano e mi sentivo, insieme, bambino e vecchio. Eccolo l’albero. Era sulla sinistra della casa. I rami, un’infinità, sembrava lo piegassero. Ed era, come tutto, assai più piccolo di quanto la mia memoria ricordasse. Trovai le iscrizioni, ancora leggibili. Cominciavano dal marzo del 1968, quando avevo quattro anni e finivano, nel febbraio del 1977. Un mese prima. E l’albero, in fondo, aveva ragione. Anche la mia normale crescita si era fermata lì, e quel segno sull’albero indicava l’ultima nostra visita, tutti insieme, alla ‘casa del sertão’» (p. 52).

La prima data si riferisce al momento in cui la casa viene inaugurata, mentre la seconda è quella dell’ultima gita, precedente di un mese la scomparsa del padre di Astengo, il quale, improvvisamente, in un giorno di marzo, non torna più a casa, senza dare alcuna notizia alla famiglia. Ma, ovviamente, come il lettore intuisce, quelle due date indicano anche altro. Benché le agitazioni studentesche e le occupazioni di sedi universitarie abbiano già iniziato a prendere piede nell’autunno del 1967, nel mese di marzo del 1968 gli scontri fra studenti e polizia a Valle Giulia, sede della Facoltà romana di Architettura, fanno scoprire alla stampa nazionale quello che sarebbe poi divenuto il «Sessantotto». Nel febbraio del 1977, invece, si consuma la parabola del movimento del «Settantasette», che vede l’episodio culminante – almeno sotto il profilo mediatico – nella contestazione del comizio di Luciano Lama alla Sapienza. La coincidenza delle date non è ovviamente casuale, ma il mistero che si cela dietro questa corrispondenza fra biografia individuale e storia politica è destinato a svelarsi gradualmente. La vicenda compie un passaggio cruciale quando Astengo – con un’invenzione memorabile di Veltroni – impugna un vecchio telefono di bachelite e compone il numero della propria casa di trent’anni prima. Naturalmente, per una sorta di incantesimo, alla chiamata risponde la voce di un ragazzino di dodici o tredici anni, che non è altri che lo stesso Astengo, ma l’Astengo di trent’anni prima, e per la precisione dei primi mesi del 1977. Così, l’archivista ha l’occasione per tornare a quei giorni, e per capire finalmente perché suo padre sia scomparso da casa. Incomincia così una sorta di indagine, che si protrae per diversi giorni e che lo conduce a una scoperta sconvolgente. Il padre non scompare casualmente il 12 marzo del 1977, proprio nel giorno in cui a Roma, sotto una pioggia battente, si svolge il corteo di protesta per la morte dello studente bolognese Francesco Lorusso. Astengo scopre infatti che il padre ha ispirato un attentato mortale contro il Preside della Facoltà di Architettura, in passato suo amico ma diventato in seguito acerrimo rivale accademico. Il padre è in rapporto con una cellula terroristica, che ha organizzato e realizzato l’attentato al Preside, ma le sue motivazioni – scopre Astengo – sono esclusivamente personali, legate a pure rivalità professionali, e non hanno nulla di politico. Una volta scoperta la cellula terroristica, nel timore di essere coinvolto, il vecchio Astengo fugge, senza lasciare tracce e senza fornire alcuna spiegazione neppure alla famiglia. 
Il viaggio di Veltroni-Astengo dentro la memo-ria si conclude con questa scoperta, e il trauma così sembra risolversi. Come dice il protagonista nelle ultime pagine: «Ora so. Ora il mosaico può ricom-porsi. Ora tutto quello che mi volava dentro, fram-mentato e puntuto, raggiunge il fondo, come un di-luvio di petali di fiori neri. Non mi importa ciò che so, che mi fa orrore e miseria. Mi importa di sapere, mi importa di aver visto la luce» (p. 149). Ma, in realtà, non è significativa tanto la composizione del mosaico, quanto la modalità stessa con cui quel mo-saico viene composto, e con cui i frammenti di una memoria incompleta, lacerata, vengono rimessi in ordine.
Christian Raimo, in un breve ma denso articolo apparso su «alfalibri», si è interrogato sulle motiva-zioni che alimentano la bulimia poligrafica dell’ex leader del Pd, e ne ha fornito una spiegazione estremamente interessante, suggerita proprio dall’Inizio del buio (o, meglio, dalle sue prime pa-gine). Prima di giungere alla soluzione, Raimo si era chiesto più volte quali fossero i moventi che stavano dietro l’attività letteraria di Veltroni, e soprattutto dietro quell’insistenza così maniacale per personaggi – veri o immaginari – segnati da una fi-ne improvvisa o da esperienze traumatiche: «Perché Veltroni aveva bisogno di scrivere? Perché aveva bisogno di mettere in fila tutti quei morti: i desapa-recidos, i morti dell’Heysel, Bob Kennedy, Berlinguer, Luca Flores, i morti degli anni di piombo e ora, nell’ultimo uscito, Alfredino Rampi e Roberto Peci?». Raimo ritiene che la risposta dell’insistenza di Veltroni su tanti drammi, su tante morti, vada rinvenuta in un tratto psicologico, che diventa però qualcosa di più: «Questa sua insistenza sulle trage-die non porta mai a nessuna elaborazione. Nella sua visione del mondo, il male non ha senso (non tollera alcuna spiegazione politica, sociale, di teodicea, di psicologia sociale). Il male arriva e le persone ne sono in balia. Il buonismo è una sorta di utopia leibniziana, quella di vivere nel meno peggiore dei mondi possibile. Un’altra conclusione è che nella sua visione non si distingue l’elemento immaginario da quello reale. Il continuo ricorso a una narrazione ipotetica, il prevalere di una memoria emotiva sulla ricostruzione storica, definiscono una visione in-fantile, priva di quel principio di realtà, che seppure permette di salvare un bambino dalla violenza del reale quando si manifesta, rischia per un adulto di trasformarsi in una prigione mentale, in un sogno nostalgico in cui appunto non c’è differenza tra i propri desideri e quelli degli altri» (C. Raimo, Il dolore non è un ciao. Walter, perché scrivi?, in «al-falibri», ottobre 2011, p. 7).
Per quanto solo accennata, la chiave di lettura indicata da Raimo apre una prospettiva estrema-mente efficace non soltanto per comprendere il fenomeno di quella sorta di eterno e goffo Peter Pan, che ormai da due decenni è un protagonista fisso del teatrino politico italiano, oltre che uno dei più note-voli esemplari dell’esposizione teratologica che è divenuto il nostro Parlamento. La chiave di lettura indicata da Raimo – nel momento in cui riesce a portare alla luce il ‘trauma’ originario alla base di tutta la ‘poetica’ veltroniana – è forse in grado anche di aiutare a comprendere i motivi del successo di un politico ‘senza qualità’ e senza carisma, che, nonostante tutto, è riuscito a rimanere in sella per decenni, passando peraltro indenne da tutte le catastrofi di cui è stato spesso diretto protagonista e artefice. L’idea suggerita da Raimo riesce infatti anche a illuminare qualcosa che va ben al di là del ‘fenomeno Veltroni’, qualcosa che appartiene allo Zeitgeist, al nostro modo di intendere la Storia e i suoi drammi, e dunque (inevitabilmente) anche la Politica.
 Non è d’altronde certo casuale che l’infanzia di Astengo – o almeno la sua infanzia felice – si svolga nel periodo che va dal 1968 al 1977. Non è casuale che la brusca interruzione di quella fase sia segnata dall’irruzione del terrorismo. E, infine, non è neppure casuale che proprio in quel momento emerga una fatale lacerazione col Padre, il quale – proprio in quelle drammatiche giornate di marzo – si rivela molto diverso da come era stato immaginato fino a quel momento. Nella vicenda di Astengo, si può infatti leggere in filigrana la stessa biografia intellettuale e politica di Veltroni, il rim-pianto nostalgico verso un’infanzia ‘leggera’, bruscamente interrotta non soltanto dal dramma del terrorismo e degli ‘anni di piombo’, ma soprattutto dalle conseguenze che ne derivano: la scoperta della vera identità del padre è infatti la scoperta che ciò che viene imputato alla follia dei terroristi non è qualcosa di interamente estraneo, ma è davvero un elemento che è possibile ritrovare nell’«album di famiglia»; è cioè un elemento incardinato in profondità nella storia del movimento dei lavoratori, nella storia del socialismo e – va da sé – nella stessa identità del Partito comunista italiano. Ma la scoperta di quella ‘parte maledetta’ è un trauma che, in realtà, non viene mai interamente superato. È un trauma che costringe Astengo/Veltroni in una con-dizione di perenne infantilismo, in una condizione in cui il dolore, le lacerazioni, le violenze diventano di fatto spiegabili solo all’interno di un mondo in cui non si muovono forze storiche, politiche, reali, ma solo forze prive di storicità, prive di tragicità, esclusivamente ‘morali’, che si muovono dentro la dicotomia di bene e male, di giusto e ingiusto, di felicità e dolore. Tanto Astengo quanto Veltroni si muovono infatti in un mondo simbolico infantile e ‘destoricizzato’, un mondo in cui la violenza non ha senso, in cui la complessità della Storia si trasforma nella ricerca infantile di una felicità intesa come il regno dei piccoli piaceri e dell’assenza di sofferenze. In questo mondo infantile, la politica non può che perdere del tutto la propria componente ‘tragica’ e diventare soltanto la speranza di una possibile ‘felicità’, mentre i progetti politici sono sostituiti dai buoni sentimenti e il miraggio di una trasformazione sociale – più o meno radicale – lascia il posto al revival. 
Per molti versi, è infatti proprio il revival, il rimpianto nostalgico di un passato de-storicizzato, il motivo che accomuna l’intera produzione del politico romano. Tutti i libri di Veltroni sono ricchi, addirittura strabordanti (in modo spesso fastidioso), di riferimenti a libri, film, canzoni, lasciati cadere sulla pagina con noncuranza, eppure non senza ag-gettivazioni invariabilmente entusiastiche (perché i libri sono sempre ‘formidabili’ e i film ‘grandiosi’). Ma tutti questi riferimenti sono effettivamente affastellati l’uno sull’altro, come frammenti di una me-moria in cui non esistono un ‘prima’ e un ‘dopo’, in cui tutto è collocato in un flusso costante, in cui non si cresce mai realmente e si resta sempre in una condizione emotiva di nostalgia. Da questo punto di vista, alcuni passaggi di Noi – l’ambizioso romanzo con cui Veltroni, ponendosi nel solco del Thomas Mann dei Buddenbrook, del Federico de Roberto dei Viceré, del Tomasi di Lampedusa del Gattopardo, ha ripercorso la storia della famiglia Noi (sic) lungo alcuni passaggi della seconda metà del Novecento (l’estate del 1943, la primavera del 1963, l’autunno del 1980) – restituiscono forse nel modo più chiaro il ruolo cui assolve il revival all’interno del meccanismo veltroniano della memoria. Non si tratta infatti soltanto di un elemento della caratterizzazione storica, di cui lo scrittore si serve per ricrea-re un ambiente, un’epoca, un clima emotivo. Nel mondo di Veltroni, il revival equivale all’immersione in una sorta di fluido amniotico in cui è possibile trovare riparo dall’incombenza del trauma. È il rifugio da un mondo ostile, dalla tragedia, dalla violenza. E non è certo casuale che la memoria sia sempre – o in modo privilegiato – la memoria dell’infanzia, come nel caso del tredicenne Astengo. 
Anche i protagonisti di Noi sono infatti quattro ragazzi: il quattordicenne Giovanni, che assiste alla caduta del fascismo, al bombardamento di Roma, alla deportazione degli ebrei; il tredicenne Andrea, che nel 1963 attraversa l’Italia in compagnia del padre; l’undicenne Luca, che nell’Italia cupa del terrorismo, fissa le conversazioni domestiche su un registratore a cassette; l’adolescente Nina, che nel 2025, guarda alla storia della sua famiglia. L’appassionato cultore del trash contemporaneo potrebbe trovare nelle pagine di Noi delle autentiche perle, ma anche al più distratto lettore non può sfuggire l’insistenza con cui Veltroni riempie la scena di oggetti, di sequenze film, di brani musicali, di fotografie. Perché di fatto, in questo romanzo, del tutto privo di una storia, l’ordito narrativo è costituito semplicemente dal gusto esibito del revival, dalla rievocazione di un clima mediante la manipolazione di oggetti di consumo. Tutti i prodotti che Veltroni chiama in causa non sono infatti evocati per il loro significato, per il loro reale valore. Compaiono per un attimo, solo come ‘oggetti di consumo’, solo come tasselli della cultura di massa, se-dimentati nella memoria di ciascun individuo. E, considerati sempre nello strato più superficiale, rimangono solo frammenti fuggevoli, privi di una reale profondità.
Forse il più emblematico dei quadri di Noi rimane quello del 1980, perché si tratta del periodo simbolicamente più rilevante per Veltroni, quello in cui, definitivamente perdute le speranze del boom, si consuma il dramma del terrorismo. Con gli occhi del piccolo Luca, si assiste agli scontri fra i due ge-nitori, che rappresentano in sostanza le due anime dei giovani degli anni Settanta: da un lato, quelli che guardano con partecipazione e sconforto alla crisi della sinistra extra-parlamentare, e, dall’altro, quelli che si gettano con entusiasmo nel ‘nuovo che avanza’. I dialoghi fra i due – che, prevedibilmente si svolgono non a Roma, ma a Milano – dovrebbero restituire così il dissidio fra l’Italia degli anni Set-tanta e gli anni Ottanta, ma, al di là di questo, l’impasto di retorica e trivialità che li caratterizza riesce a fornire la migliore esemplificazione dello stile veltroniano. Alla moglie che lo accusava di perdere tempo a rincorrere i sogni spezzati della giovinezza, il padre – che è Andrea Noi, il protago-nista del quadro precedente, ormai adulto – rispon-de:

«Vuoi dire che sono un fallito? O che hanno fallito le nostre idee? Sono due cose diverse, se permetti. E comunque erano anche le tue idee. Non scordartelo. Stasera sei stata dura e sincera, meglio così. Ma ora ti posso dire la mia. Anche tu stai parlando di te stessa. Io forse sarò rimasto troppo uguale ma tu ti sei trasformata troppo. Ti ricordi C’eravamo tanto amati?. “Volevamo cambiare il mondo e il mondo ha cambiato noi”. Che ti è successo? Noi vorremmo forse ritrovare il passato ma tu invece sembri la nemica della tua giovinezza, sembra che usi argomenti per giustificare la rinuncia a quei sogni e a quei pensieri. Come se volessi dire a te stessa che sei un’altra persona. E forse questo ti fa odiare tutto quello che ha popolato finora la tua vita, me compreso.
È vero, porti a casa più soldi tu di me. In fondo, però, questo è anche uno dei grandi meriti di quelle idee che oggi ti fanno ribrezzo. Prima non sarebbe successo. Tu sei una donna in carriera e io un idealista che usa il gettone del telefono. E se fosse questo il Sessantotto, per tutti? Tutti sputano su quella data e quello che è stato, ma ciascuno ha goduto della rivoluzione che ha prodotto nei costumi. In politica uno schifo, ma quanto a libertà personali, un tripudio. Tu ti occupi di pubblicità, ma lo puoi fare perché non si va più a letto dopo Carosello. Perché è cambiato il modo di vivere, di consumare, sono cambiate le ambizioni. Questa tua nuova televisione, la neonata di questi giorni, che per te sembra quasi contare più di Luca… […] questa tua nuova televisione, è anche lei il prodotto del Sessantotto, pure se è fatta dai nuovi ricchi. La tua carriera di esperta di marketing è diventata l’unica ragione della tua vita. Non credo siano i soldi, credo sia la magica eccitazione che dà il potere, l’adrenalina che evidentemente si sprigiona quando si ottiene una promozione o quando un tuo collega inciampa» (W. Veltroni, Noi, Rizzoli, Milano, 2009, pp. 217-218).

Se simili dialoghi, al di là delle peculiarità stilistiche di Veltroni, non fanno altro che riprendere i motivi obbligati di una certa cinematografia intimista, che fra anni Ottanta e Novanta, divenne l’unica alternativa ai prodotti dei fratelli Vanzina e di Neri Parenti, è ancora più importante il modo con cui il presente si riflette negli occhi di Luca. E, da questo punto di vista, è davvero paradigmatico un passaggio in cui Luca e il padre, un sabato pomeriggio, sono in un ristorante dove hanno da poco finito di mangiare e stanno per andare al cinema:

«Mentre stava per cominciare, Luca estrasse dalla tasca il cubo di Rubik. Lo prese tra le mani, con il desiderio di far coincidere due cose belle: il racconto del padre e il gioco che gli aveva regalato lo zio. D’altra parte faceva così nei suoi momenti preferiti. Quando vedevano le partite della nazionale, quelle sì in diretta anche se con l’esclusione della zona nella quale si giocava, Luca si riforniva di ogni ben di Dio. Gli immancabili Urrà Saiwa, in quantità industriale, i Flipper all’arancio, i biscotti Trésor e Togo e soprattutto una intera divisione di Carrarmato Perugina, preferibilmente al latte, e Ciocorì a volontà. Vedere la partita o un film o leggere un fumetto era per Luca, senza discussione, il modo migliore di pensare che la vita è bella. 
In quel ristorante, mentre i camerieri sollevavano le sedie sui tavoli a gambe per aria, lui ora si sentiva felice. Aveva il cubo di Rubik da girare e rigirare, dello zucchero in bustine da far scivolare nella bocca e suo padre che stava per raccontare le sue gesta. Tra venti minuti, un film. Si poteva sperare di più? Sì, pensò, sapendo chi gli mancava. Ma allontanò da sé il pensiero, perché voleva godersi quell’istante di felicità» (ibi, p. 261).

È quasi scontato ritrovare in questi passi di Veltroni un tentativo di ‘civettare’ con uno dei passi più noti della Recherche proustiana, quello in cui, proprio nelle pagine iniziale, viene evocato il ricordo della madelaine (con gli allusivi e ambigui significati che ad esse sono associati), e in effetti, anche in questo caso, a dispetto dell’inevitabile scarto stilistico, i dolciumi – ingurgitati in modo quasi bulimico da Luca – a fissare i contorni di un rifugio infantile. Ma, ovviamente, quei particolari dolciumi – richiamati con l’ossessiva esibizione della marca – sono anche il riflesso della memoria di un individuo che, prima ancora di essere un ragazzino con proprie passioni e propri problemi, è un consumatore ingordo di Urrà Saiwa, di Togo e di Ciocorì. È cioè una memoria che è sempre e soltanto la memoria superficiale del revival, la memoria in cui gli stati d’animo sono legati alle merci, agli Urrà Saiwa e al cubo di Rubik. Ma è anche è una memoria che, per quanto fuggevole, frammentaria, banalizzata, fissa l’attimo di felicità del giovane consumatore, colto – satollo e soddisfatto – nella serena quiete del sabato pomeriggio. Ed è piuttosto emblematico che, al di fuori di questa felicità, il piccola Luca incontri solo il dramma della separazione fra i due genitori, la violenza del terrorismo (immancabile nelle pagine di Veltroni), a addirittura la morte di John Lennon.
L’insistenza sul revival non è d’altro canto un elemento che affiora solo nella produzione narrativa di Veltroni, perché, a ben vedere, occupa un posto chiave nella stessa formazione politico-intellettuale dell’ex sindaco di Roma. In una famosa battuta di Aprile, Nanni Moretti imputa le sconfitte del centro-sinistra alle carenze culturali del gruppo dirigente della Fgci romana, che negli anni Settanta, mentre l’Italia scendeva in piazza, si ritrovava ogni sera davanti alla tv per seguire Happy days, e cioè proprio il telefilm che – ricostruendo in una versione quantomeno edulcorata, con il giubbotto di Fonzie e i banconi di Arnold’s, l’America tra gli anni Cinquanta e Sessanta – delineò il canone del revival postmoderno. Ma, al di là della battuta di Moretti (e al di là dell’effettiva influenza di Happy Days sulla formazione veltroniana), è davvero possibile ritrovare tutto il mondo di Veltorni – seppure in nuce – proprio nell’universo simbolico della Fgci romana degli anni Settanta, allora guidata da Gianni Borgna, instancabile organizzatore di kermesse culturali e futuro storico della canzone italiana. Come ha scritto Andrea Romano a proposito della temperie che caratterizza la sezione romana della Fgci negli Settanta, in cui Veltroni si forma politicamente e in cui definisce il proprio mondo: «Vogliono ‘stare nel movimento’ non tanto per imbastire un dialogo tattico o strategico con la galassia dei gruppetti extraparlamentari, ma perché attratti dalle manifestazioni più nazionalpopolari e meno ortodosse della cultura di sinistra. E in particolare da tutto ciò che sa di anni Sessanta, il decennio che comincia proprio in quell’ambiente ad acquistare i tratti mitologici di un’età dell’oro così distante dalle cupezze di quei giorni. Quello dei figgicciotti romani dei primi anni Settanta è un movimentismo libertario che, se proprio deve schierarsi tra le correnti interne al Pci, sceglie Pietro Ingrao contro ogni moderatismo in odore di socialdemocrazia. Ma più che dalle elaborazioni ingraiane sulle masse e il potere sono affascinati da Gino Paoli e Pierpaolo Pasolini. Perché la loro ricerca li spinge verso una mescolanza di alto e basso, di sentimento popolare e cultura patrizia, nella convinzione che sia questo il binario giusto per intercettare il nuovo attivismo dei giovani romani di quegli anni» (A. Romano, Compagni di scuola. Ascesa e declino dei postcomunisti, Mondadori, Milano, 2007, p. 39). Da allora in avanti, Veltroni ha conservato le medesime coordinate, dilatando però fino ai suoi estremi sviluppi la vocazione al revival e facendone addirittura la base di un nuovo immaginario politico.
Per tenere il passo con l’emergere della «politica pop», Veltroni non usa infatti il repertorio usurato delle vecchie identità politiche del Novecento, con le sue bandiere e le sue sacre icone. Utilizza invece proprio il revival, l’espressione forse paradigmatica del postmoderno. Utilizza cioè la cultura di massa – le mode, la musica, il cinema, la letteratura – come materiali per dar forma a un’identità collettiva. Riutilizza la memoria del passato recente, sedimentata dai mezzi di comunicazione. Quella stessa memoria cui attinge il genere televisivo (e cinematografico) del revival, e che consente non solo di rievocare il passato grazie a frammenti musicali di canzoni dimenticate, ma anche di compiere agevolmente i più arditi salti temporali e tematici, con la finalità di ottenere la riproduzione – fulminante, ma inevitabilmente fugace – di uno stato emotivo. E, ovviamente, una memoria in cui può confluire un po’ tutto, affastellato come in un baule di ricordi d’infanzia, in cui gli oggetti sono tenuti insieme solo dai fili sottili della nostalgia. Come nelle trasmissioni televisive dedicate al revival, la memoria può così accogliere frammenti provenienti da un passato semplificato, decontestualizzato, de-storicizzato, di cui Happy days diventa effettivamente la cifra paradigmatica. E diventa possibile collocare i fratelli Kennedy esattamente accanto alle figurine Panini, ed Enrico Berlinguer vicino alle gemelle Kessler. Perché, come ha scritto Edmondo Berselli, l’immaginario veltroniano è davvero «un blob magmatico, che ingloba Salinger e Baricco, Il giovane Holden e Castelli di rabbia, uno spazio in cui si contemplano i totem della passione popolare progressista, da Bob Dylan a De André, good vibrations californiane più un tocco di nazionalpopolare, di neorealismo, di commedia all’italiana» (E. Berselli, Sinistrati. Storia sentimentale di una catastrofe politica, Mondadori, Milano, 2008, p. 115).
Al di là degli esiti più che discutibili sotto il profilo estetico, sarebbe semplicistico archiviare la proposta veltroniana come una ‘trovata’ e un espediente propagandistico, o scambiare i suoi romanzi solo per i maldestri esperimenti di una sorta di novello Theodore Fontane. Dentro quella proposta – e dentro tutti i suoi limiti –  si possono infatti rinvenire molti dei tratti dalla condizione emotiva del nostro tempo. Tratti che non sono tanto le prove della decadenza dell’Italia o della crisi delle culture politiche italiane, quanto, soprattutto, i segnali di una condizione sentimentale diffusa, che traduce la prospettiva della decadenza su un piano esistenziale, prima ancora che politico. Dentro quell’immaginario – che il progetto veltroniano cerca di afferrare, e di trasformare nello strumento di una contesa elettorale –  si trova anche la cifra ‘sentimentale’ del nostro tempo. Probabilmente, il revival è davvero la più autentica espressione dello Zeitgeist contemporaneo, perché, per molti versi, traduce in modo efficace, non solo sotto il profilo estetico, quella specifica forma di nostalgia – molto diversa dalla nostalgia moderna – che cresce nella stagione della fine del «Progresso», un fenomeno che coinvolge l’intero Occidente, ma che assume in Italia un profilo specifico. 
Dopo il 1989, almeno per l’immaginario occidentale, la «Storia» si è effettivamente fermata, come voleva la contestata profezia di Fukuyama, principalmente perché si è esaurito l’immaginario – otto e novecentesco – proiettato sull’idea di una società in costante trasformazione e sul progetto di un futuro da realizzare, anche pagando il prezzo di sacrifici, conflitti, guerre. Negli ultimi vent’anni, non si è arrestata la successione degli eventi storici e dei progressi tecnologici, ma, più semplicemente, si è rapidamente logorata la vecchia fiducia nel «Progresso». Per molti versi, l’Occidente non sa infatti pensare il futuro se non nei termini di una preservazione del presente, di una dilatazione del suo benessere economico, di una conservazione delle sue forme politiche e della sua posizione internazionale. E, così, noi non riusciamo a ipotizzare scenari alternativi alla conservazione del presente, se non ricorrendo all’immaginario apocalittico o alle previsioni terrificanti di un ritorno della ‘barbarie’. Al di là delle suggestioni di un nuovo ‘Tramonto dell’Occidente’, il punto forse più significativo è però che questa trasformazione culturale precede, per molti versi, la ‘relativizzazione’ politica ed economica dell’Occidente cui stiamo assistendo in questi anni, e cui probabilmente continueremo ad assistere nei prossimi decenni. E, dunque, produce un vuoto di visione politica con cui tutti i paesi occidentali – e soprattutto quelli del Vecchio continente – devono fare i conti. Ma, pur essendo un fenomeno ampio, la crisi delle culture progressiste innesca conseguenze che diventano in Italia ancora più evidenti che in altri paesi. 
I motivi per cui la ‘fine del progresso’ produce in Italia implicazioni così forti sono molti, ma uno dei principali è probabilmente l’inesistenza di una vera e propria cultura ‘conservatrice’. In modo piuttosto evidente, la destra italiana è conservatrice (ma non totalmente) solo nei primi decenni della storia unitaria, mentre – com’è ovvio – non lo sono per nulla né le formazioni nazionaliste che prendono forma attorno al Primo conflitto mondiale, né il fascismo, prima e dopo la presa del potere. Dopo il ’45, non è propriamente ‘conservatrice’ neppure la Democrazia cristiana, che punta piuttosto a un rinnovamento radicale della società italiana e, in nome della fedeltà all’atlantismo, può rileggere anche il patriottismo in una chiave notevolmente diversa da quella di una celebrazione della nazione (resa ovviamente complicata dall’eredità fascista e dall’avventura della guerra). E, infine, non è neppure ‘conservatrice’ Forza Italia, perché punta piuttosto a dipingersi come portatrice di una radicale ‘rivoluzione’ della società italiana, capace di lacerare i vincoli burocratici e ideologici del passato, oltre che di scardinare gli antidiluviani rituali della ‘vecchia’ politica. Tutte queste forze, in modo diverso, accettano la prospettiva del ‘progresso’ e la considerano qualificante del loro progetto politico. In altri termini, tutte queste forze – certo in modo diverso – promettono un progresso allettante, segnato da una crescita dei consumi e del benessere, oltre che una ‘rottura’ con il passato, rivendicata con forza almeno sotto il profilo simbolico. Fino al 1989, quella visione del progresso trae inoltre alimento dal contrasto con il progresso promesso dai regimi del socialismo reale, che avevano invece prodotto risultati ben diversi, in termini di libertà politiche e di effettivo benessere economico. Dopo l’Ottantanove, il successo della via occidentale al benessere fa calare il sipario sul progetto di un progresso ‘alternativo’ rispetto a quello consentito dalle liberaldemocrazie capitaliste. Ma, al tempo stesso, lasciando l’Occidente privo di uno sfidante, deve anche spogliare la lotta per progresso degli abiti solenni di uno scontro epocale fra progetti politici radicalmente alternativi, trasformando il futuro in un eterno presente, e la fiducia nel progresso nella semplice speranza di una dilatazione del benessere.
Ma la fine del ‘Progresso’ ha, com’è ovvio, implicazioni ancora più distruttive sulle culture politiche della sinistra italiana. E, d’altronde, interviene ben prima del fatale crollo del Muro berlinese. Per quanto concerne l’Italia, infatti, la ‘fine della Storia’ può essere collocata probabilmente proprio alla fine degli anni Settanta, nel momento in cui il padre di Astengo scompare, perché proprio in quel passaggio l’intero immaginario della sinistra italiana incomincia ad andare in pezzi. In quel momento, diventa chiaro non solo che la strategia del ‘compromesso storico’ si è risolta in larga in un fallimento e che la ‘via italiana al socialismo’ è destinata a rimanere un sogno, ma anche che il progetto di trasformazione della società italiana elaborato dal Pci non troverà mai una realizzazione. Al tempo stesso, con la marcia dei quarantamila, il 14 ottobre del 1980, si conclude definitivamente la stagione di mobilitazione collettiva iniziata nel ‘68-’69, e, più in generale, emerge con chiarezza il fatto che i rapporti di forza tra lavoratori e datori di lavoro stanno mutando, che i luoghi concentrati del lavoro si stanno disgregando, che i processi di ristrutturazione stanno modificando, insieme alla geografia produttiva, la stessa antropologia del lavoratore, sempre più irriducibile a quella degli anni Sessanta. In questo momento, senza elaborare di fatto il lutto del fallimento di un sogno, la sinistra italiana e suoi intellettuali prendono rapidamente commiato anche dalla visione positiva del conflitto che avevano coltivato per quasi un secolo. In concomitanza con la lotta al terrorismo, con la necessità di tracciare chiaramente una linea rispetto ai cultori della violenza e rispetto a qualsiasi ipotesi che legittimi – anche implicitamente – la violenza, l’ambigua connessione fra politica e conflitto non può che essere tagliata di netto. Così, non può che essere abbandonata del tutto anche la fatale, equivoca convinzione che il conflitto – sociale, economico, politico – possa in qualche caso rappresentare un fattore di progresso. Ma, abbandonata l’idea del conflitto e tramontata l’ipotesi di una trasformazione in senso ‘socialista’ della società italiana, la cultura della sinistra italiana non può che trovare proprio nell’immagine del «progresso» - un progresso ormai edulcorato, privo di elementi di conflitto, di fatto destoricizzato, trasformato in una forza ‘impolitica’ – l’ultimo appiglio in grado dare stabilità a un’identità collettiva sempre meno compatta. E, allora, non è affatto casuale che la «gioiosa macchina da guerra», la coalizione guidata da Achille Occhetto nel 1994 nelle prime elezioni della ‘Seconda Repubblica’, non trovi di meglio che attaccarsi proprio all’icona – sempre più sbiadita, sempre meno credibile – del «progresso». Dietro quell’insegna, si ritrova però la realtà di un’evoluzione che accompagna il Pci per tutti gli anni Ottanta, e che scandisce le tappe dell’allontanamento dal vecchio patrimonio del ‘comunismo italiano’. Proprio mentre viene accantonato il vecchio armamentario ideologico, e mentre l’ipotesi di un’alternativa di governo diventa sempre meno credibile, il Pci deve infatti spostare su un altro terreno la propria ‘diversità’. Senza potersi più rappresentare come alternativo dal punto di vista ideologico, sociale ed economico, deve così gradualmente fondare la propria alterità sul piano morale, sul piano del rigore etico di una classe politica irriducibilmente ‘diversa’. Non è probabilmente fortuito, in questo senso, che Berlinguer enunci la celebre «questione morale» proprio al principio degli anni Ottanta, nel momento in cui il Pci appare privo di sbocchi politici e in cui appare più incisivamente incalzato dal progetto modernizzatore del Psi di Craxi. Ma non è neppure fortuito che, da allora in avanti, l’enunciazione di una ‘diversità morale’ rispetto agli avversari rimanga l’unico rilevante collante in grado tenere insieme, seppur sempre più debolmente, quello che, enfaticamente, si ama ancora oggi definire come il «popolo della sinistra».
Lo spostamento delle identità e delle contrapposizioni sul registro morale è d’altronde uno degli aspetti della ‘fine della Storia’. Ed è proprio in questo quadro che l’attrazione per il revival diventa irresistibile, seppur secondo declinazioni differenti. Venuta meno l’ipotesi di una trasformazione radicale da realizzare nel futuro, il passato acquista un valore fondamentale per la definizione delle identità, anche se – come avviene effettivamente nella logica del revival – si tratta di un passato interamente schiacciato sul presente. Sono del tutto emblematici, sotto questo profilo, i dibattiti storiografici e le polemiche sull’«uso pubblico della storia». Di queste discussioni, non è sorprendente solo il fatto che, negli ultimi vent’anni, siano diventati onnipresenti, o la circostanza che il passato venga utilizzato per dare forma a un’identità politica. Più ancora di questi aspetti, è significativo che al cuore delle controversie non stia la valutazione di determinate scelte politiche, bensì la connotazione morale dei protagonisti. I dibattiti su Mussolini, sulla resistenza, sugli anni Settanta, non sono infatti dibattiti sulle cause o sugli esiti ‘politici’ di quei processi inevitabilmente complessi, bensì, quasi senza eccezioni, sulla dimostrazione che i protagonisti dell’una o dell’altra parte politica operavano secondo criteri distanti dalla morale condivisa. Perché, proprio dimostrando che alcuni risultarono colpevoli di comportamenti immorali, efferati, brutali, diventa possibile attribuire alla parte politica opposta una patente di moralità. All’interno di una simile rilettura del passato, è evidente che il dibattito storiografico, lungi dal poter produrre qualsiasi memoria condivisa, tende ad assumere i contorni di una rissa sgangherata. Ma, al tempo stesso, è anche evidente come la complessità delle dinamiche del passato venga costretta dentro le maglie anguste di interpretazioni moralistiche, e, soprattutto, come la storia venga purgata dell’effettivo contenuto politico. Non tanto perché in politica non contino le regole etiche, quanto perché la politica non può che essere – soprattutto nelle sue fasi più drammatiche – anche la sfera delle decisioni tragiche. Come ha scritto a questo proposito De Luna: «La storia è uscita dal bagaglio culturale dei politici e non c’è più quel ‘bisogno di storia’ che fu all’origine del boom editoriale degli Anni 70. Non ci si percepisce più nella storia, non ci si percepisce più all’interno di quel circuito virtuoso tra passato, presente e futuro, in cui si studiava il passato per capire il presente e progettare il futuro. Ora il passato è muto, il futuro spaventa, tutto è schiacciato su un presente abnorme, dilatato e siamo immersi in uno ‘spirito del tempo’ segnato da un sapere appiattito sulla semplificazione, sul rifiuto della complessità, su una sorta di approccio usa e getta alla cultura che produce un senso comune affollato di stereotipi, per una conoscenza senza spessore, facile da consumare e dimenticare («Tuttolibri-La Stampa», 14 marzo 2011). 
Una delle conseguenze è che l’Italia sembra condannata a non avere una memoria condivisa su nessuna delle pagine della sua storia unitaria, dal risorgimento al fascismo, dalla resistenza agli anni Settanta. Ancora più rilevante è però che l’Italia sia destinata a ricordare il passato solo nella forma del revival: solo come un insieme di frammenti decontestualizzati, tenuti insieme da una condizione emotiva, interamente schiacciata sul presente. Non sono infatti solo Astengo e Veltroni a vivere in un mondo ‘destoricizzato’, in un mondo in cui si è destinati a non diventare mai padri e in cui la violenza, il dramma, la sofferenza sono invariabilmente ricondotti all’interno delle coordinate di una visione infantile del processo storico. Quella che emerge dai romanzi e dai saggi di Veltroni è solo una versione pop dello Zeitgeist contemporaneo, di quello Zeitgeist in cui tutti noi – bene o male – siamo immersi e che riaffiora inesorabilmente anche nel nostro stesso modo di pensare il mondo. Perché tutti noi viviamo nel mondo infantile di Veltroni, in un mondo ‘post-storico’ e ‘post-politico’: un mondo in cui l’esaurimento delle tradizioni politiche novecentesche ci rende incapaci di pensare il futuro in termini di progresso, o che quantomeno ci induce a concepire il progresso soltanto come la preservazione del presente, delle sue forme politiche, del suo benessere economico. Un simile Zeitgeist non soltanto finisce col rimuovere il futuro e con ridurlo alla dilatazione del presente, ma finisce anche con l’eliminare il passato. Da un lato, il passato lacerato da conflitti, divisioni, tragedie, dolori, diventa ‘inspiegabile’, o spiegabile solo con il ricorso all’irruzione post-storica del Male assoluto e della Violenza, e proprio per questo non può tradursi in una memoria condivisa. Dall’altro, la ricerca di un’identità post-storica, impolitica, post-politica, può giungere soltanto dalla memoria superficiale del revival, dalle schegge della memoria televisiva, dalla nostalgia per il bianco e nero degli anni Sessanta, dal mondo ingenuo e composto di Carosello, dalle canzonette di Gianni Morandi, dai colori artefatti delle figurine Panini. Dal momento che la Storia, con i suoi drammi, è definitivamente espulsa dal nostro orizzonte, e dato che il passato e il futuro sono assorbiti da un presente dilatato fino all’eternità, allora la nostra identità non può che essere quella di un’illimitata adolescenza. Un’adolescenza prolungata fino al confine estremo della senilità, in cui è rimossa la possibilità stessa di elaborare il lutto e di metabolizzare i traumi della Storia. E in cui – come Astengo, come Veltroni – siamo condannati a trovare un rifugio dalle paure del mondo solo nel rimpianto di un’infanzia irrimediabilmente perduta. 

Damiano Palano






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