sabato 15 marzo 2014

Alla ricerca del partito che non c’è. La «Traversata» di Fabrizio Barca (e la disgregazione del Pd)



di Damiano Palano

Alla metà degli anni Settanta, Norberto Bobbio avviò una delle grandi polemiche che, nel corso della storia della Prima Repubblica, lo contrapposero agli intellettuali vicini al Partito Comunista. Venti anni dopo aver rimproverato a Palmiro Togliatti e agli intellettuali del Pci la carenza di attenzione per le garanzie proprie della tradizione liberali e del costituzionalismo, il filosofo torinese innescò infatti una nuova discussione, destinata ad avere ripercussioni altrettanto rilevanti. Naturalmente il clima era molto diverso da quello degli anni Cinquanta, anche perché il Pci, seppur con molte esitazioni, aveva già incominciato a prendere le distanze dal modello sovietico. Il fatto che Enrico Berlinguer avesse delineato la strategia del «compromesso storico» rendeva però nuovamente attuali molti dei problemi già sollevati nei saggi raccolti in Politica e cultura. E per questo Bobbio tornava a interrogarsi – non senza intenti polemici – sull’inesplorato e spinoso tema del destino delle libertà politiche nel socialismo. 
Proprio ragionando intorno alla prospettiva della conquista pacifica del governo da parte del Pci, Bobbio sottolineava in particolare come il ceto intellettuale e politico vicino a quel partito non avesse ancora minimamente colmato il deficit di riflessione sullo Stato proprio della teoria marxista. In un celebre intervento pubblicato sulle pagine di «Mondoperaio», il filosofo sosteneva infatti che il marxismo non aveasse mai elaborato una vera e propria teoria dello Stato. E anche per questo – a parte pochissime eccezioni – lo Stato e la politica erano rimaste per i marxisti delle vere e proprie incognite. 
Dinanzi alle risposte critiche provenienti da studiosi dell’area del Pci, Bobbio replicò imputando agli avversari polemici un vero e proprio «abuso del principio di autorità». E questa accusa non era certo priva di un fondo di verità, perché in effetti molti dei critici, più che indicare le linee di una ricerca sullo Stato contemporaneo che si ponesse nel solco degli scritti di Marx, si limitavano a dare una nuova interpretazione di questi ultimi, anteponendo l’autorità dunque del maestro alla dure repliche della storia. Mentre rispondeva ai suoi avversari polemici Bobbio non sminuiva d’altronde la rilevanza della teoria politica di Marx, ma mirava piuttosto ad escludere che essa contenesse davvero una teoria dello Stato. Al massimo, osservava, era possibile rintracciare nell’intera opera di Marx alcune scarne pagine e «formulette oscure» su cui gli interpreti si erano sbizzarriti, ma che difficilmente potevano sottrarsi all’accusa di «semplicismo». Come scriveva: «La verità è che Marx non aveva alcuna intenzione con quelle poche formule di dare ricette per l’avvenire, e solo l’abuso del principio di autorità […] ha trasformato cinque o sei tesi in un trattato di diritto pubblico. Con l’aggravante, di cui ancora una volta Marx non aveva alcuna colpa, che in questi ultimi cent’anni i problemi dello stato, soprattutto il problema del rapporto fra organizzazione dello stato e democrazia, sono diventati sempre più complessi, e quindi sempre più refrattari ad essere racchiusi in formule ad effetto come ‘democrazia diretta’, ‘autogoverno dei produttori’ e simili» (N. Bobbio, Esiste una dottrina marxista dello Stato?, ora in Id., Compromesso e alternanza nel sistema politico italiano, Donzelli, Roma, 2006, pp. 26-27). 
Il punto cruciale che Bobbio sottolineava era però soprattutto che nella teoria marxista era possibile ritrovare un enorme corpus di riflessioni dedicate al partito, alla sua struttura, alle sue funzioni, ma non riflessioni significative riservate allo Stato. In altre parole, il movimento operaio aveva nutrito un interesse costante per i modi e gli strumenti della conquista del potere, ma si era disinteressato quasi del tutto dei modi del suo esercizio. Così, mentre al partito – come strumento di lotta politica – era stato assegnato il centro della ricerca teorica, risultava invece sostanzialmente assente – o del tutto carente – un’analisi indirizzata al funzionamento e ai meccanismi operativi dello Stato contemporaneo. «Non c’è da meravigliarsi», osservava dunque, «se all’interno o all’intorno del movimento operaio il dibattito politico si concentri (e si sia concentrato anche in passato) sul tema del partito piuttosto che sul tema dello stato». E, in effetti, i temi dominanti nel dibattito del periodo erano proprio «quello del rapporto tra spontaneità e organizzazione, e del rapporto tra partito e classe», ossia, «temi che non riguardano affatto la struttura delle istituzioni statali, ovvero il momento del potere costituito, ma riguardano il momento del passaggio allo stato», «problemi di tattica e di strategia, per usare le metafore più abusate, per combattere e vincere nel migliore dei modi la guerra per il possesso del potere statale, non per organizzare, dopo la conquista, per continuare nella stessa metafora, il nuovo assetto a vittoria conseguita, cioè per ordinare e assestate lo stato di pace» (N. Bobbio, Democrazia socialista?, in Id., Quale socialismo. Discussione di un’alternativa, Einaudi, Torino, 1976, pp. 7-8).
Se il dibattito condotto negli anni Cinquanta aveva avuto un effetto non trascurabile nel preparare la prima clamorosa rottura tra partito e intellettuali esplosa nel ’56, anche la discussione avviata da Bobbio a metà degli anni Settanta non fu meno significativa. Proprio i toni di quel confronto dovevano infatti prefigurare una serie di eventi successivi e marcare in modo profondo la vicenda di un intero ceto politico e intellettuale. In qualche misura, infatti, una parte degli intellettuali vicini al Pci iniziò davvero a considerare i meccanismi di funzionamento delle istituzioni politiche, o anche la loro «autonomia», come l’aveva già definita in un famoso seminario Mario Tronti. La stagione di ricerca sull’«autonomia del ‘politico’» - esemplificata per esempio dalla parabola di una rivista come «Laboratorio politico» - ebbe però una vita piuttosto breve, e non peraltro alcun rilevante impatto sul Pci, che conservò quasi immutate, per tutti gli anni Ottanta, le proprie coordinate identitarie, pur dinanzi a uno scenario ben differente. La dissoluzione del blocco sovietico e la rapida transizione dalla ‘Prima’ alla ‘Seconda Repubblica’ modificarono però completamente il quadro, quantomeno rispetto alle modalità con cui la classe dirigente del Pci aveva concepito il rapporto tra partito e Stato. Nel corso degli ultimi venticinque anni, quella ossessiva preoccupazione sul partito e la sua interna organizzazione, che – da Gramsci a Berlinguer, passando soprattutto per Togliatti – contrassegna il Pci e i suoi intellettuali, viene infatti del tutto abbandonata, senza neppure alcun visibile rimpianto, insieme alla convinzione di poter costruire (mediante una formazione adeguata) una nuova classe dirigente. Sarebbe però piuttosto generoso riconoscere al gruppo dirigente del Pds-Ds-Pd il merito di avere effettivamente maturato nel frattempo una teoria dello Stato, o comunque una visione organica del suo funzionamento e dei suoi compiti. Più che a costruire una vera e propria ‘cultura di governo’, gli eredi del Pci si sono infatti mostrati sensibili alla coltivazione delle pratiche di ‘sottogoverno’, forse nella convinzione che un ‘governo di sinistra’ fosse possibile (e potesse agire sulla società italiana) solo utilizzando stringendo alleanze con frazioni – più o meno rilevanti – dei cosiddetti ‘poteri forti’, e solo utilizzando lo Stato come strumento per conquistare una presa (sempre più incerta) sulla società. Dal punto di vista della riflessione politica, tutta l’attenzione si è spostata così dal tema del partito a questioni come la leadership, la comunicazione, le modalità ‘democratiche’ di selezione dei candidati alle elezioni. In poche parole, salvo pochissime eccezioni, dal momento in cui Achille Occhetto annunciò la «svolta» nella sezione della Bolognina, tutti convennero che il partito doveva diventare ‘leggero’. Ma ben pochi cercarono di chiarire in cosa consistesse davvero questa ‘leggerezza’.
Proprio per la pressoché totale assenza di riflessioni su cosa ‘debba essere’ oggi un partito, il manifesto che Fabrizio Barca rese pubblico all’indomani della fine del governo Monti non poteva passare inosservato. Diffusa nell’aprile del 2013, mentre ancora l’Italia non si era ripresa dai risultanti delle elezioni del 25-26 febbraio, la Memoria politica di Barca sollevò in effetti dubbi e perplessità. Ma ebbe forse il merito quantomeno di sollecitare una discussione che – in un clima non certo favorevole al ‘partito’ – spingeva a uscire dalla trappole della retorica ‘antipolitica’ e dalle secche di una discussione in cui l’unica ossessione pareva essere la ricerca del leader. In parte quelle discussioni sono accolte nel volumetto Il triangolo rotto. Partiti, società e Stato (Laterza, 2013, pp. 105, euro 10.00), nel quale Barca si confronta con Piero Ignazi, oltre che con politici e intellettuali vicini alla causa del Pd. Ma del confronto è risultato soprattutto il volume di Fabrizio Barca, La Traversata. Una nuova idea di partito e di governo (Feltrinelli, Milano, pp. 185, euro 15.00), nel quale viene riproposta – in una versione aggiornata – la Memoria, corredata però, oltre che da un’intervista biografico-politica, anche da appendici che chiariscono la fisionomia che dovrebbe assumere il «partito nuovo».
A ben guardare, la riflessione di Barca non nasce però tanto dalle difficoltà interne di un partito, quanto dall’esperienza di governo, o meglio dal riconoscimento delle difficoltà incontrate nell’azione di governo. E questo influisce non poco sul tipo di discorso che viene sviluppato. In sostanza, l’elemento da cui la riflessione prende avvio è infatti l’esistenza in Italia di una «macchina dello stato arcaica e autoreferenziale», ovviamente eredità antica, cui osservatori attenti dedicano le loro analisi da circa un secolo. Ma l’originalità della proposta risiede nel tipo di soluzione indicata. Lo strumento per modernizzare questa macchina «arcaica e autoreferenziale» non può consistere per Barca solo in una semplice ‘riforma’ del Parlamento, che magari affidi maggiori poteri all’esecutivo, ‘presidenzializzando’ ulteriormente la forma di governo. Il nodo, secondo Barca, sta infatti nel ‘come’ in cui vengono prese le decisioni, e non (o non soltanto) nel ‘chi’ le prende. Per prendere decisioni adeguate, infatti, le risorse principali sono le conoscenze, ma queste conoscenze non sono monopolio né della burocrazia statale, né del mercato. Ed è allora indispensabile adottare una serie di strategie innovative – definite da Barca con la formula dello «sperimentalismo democratico» - che possono consentire un coinvolgimento nel processo decisionale di tutti quegli attori che detengono informazioni e competenze capaci di risultare risolutive per l’efficacia di un provvedimento. La macchina pubblica per prendere decisioni deve in sostanza «costruire un processo, che, convincendo i molteplici detentori di conoscenza ed esperienza a partecipare, promuova il confronto fra le loro parziali conoscenze, consentendo innovazione, e lo traduca in decisioni assunte secondo le regole di responsabilità previste costituzionalmente» (p. 68). 
Se questa prospettiva riflette l’ipotesi dello «sperimentalismo democratico» elaborata da uno studioso originale come Charles F. Sabel (si vedano per esempio i saggi raccolti in Esperimenti di «nuova» democrazia. Tra globalizzazione e localizzazione, a cura di Riccardo Prandini, Armando, Roma, 2013), Barca ritiene però che lo strumento capace effettivamente di rendere praticabile questo nuovo «sprimentalismo» sia proprio il partito. Mentre esclude infatti che un beneficio sul versante del «buon governo» possa derivare da una semplice riforma ‘istituzionale’, considera invece vitale il contributo che i partiti potrebbero fornire al processo di elaborazione delle decisioni. Ovviamente, però, Barca non pensa certo alla prassi dei partiti di oggi.  Il vero nodo sta anzi proprio nella loro struttura e nella funzione che i partiti hanno assunto nell’ultimo trentennio. Utilizzando una formula di Piero Ignazi, anche Barca ritiene infatti che i partiti italiani siano diventati «Stato-centrici», e che in questo modo abbiano stabilito una sorta di fratellanza siamese con la macchina arcaica dell’amministrazione statale. E per questo motivo che la «mossa del cavallo» evocata da Barca si basa sulla convinzione che la radicale riforma dei partiti possa essere il requisito anche di una maggiore efficienza dell’amministrazione.
Nelle versione rivista della Memoria, i caratteri del partito immaginato da Barca si chiariscono ulteriormente, soprattutto perché i riferimenti identitari vengono esplicitati con maggior precisione. In ogni caso, l’organizzazione che Barca auspica continua a connotarsi soprattutto come un «partito palestra»: «un partito di sinistra saldamente radicato sul territorio che, richiamandosi con forza ad alcuni convincimenti generali, solleciti e dia esiti operativi e ragionevoli a questo conflitto»; un «partito palestra che, essendo animato dalla partecipazione e dal volontariato, e traendo da ciò la propria legittimazione, e dagli iscritti e simpatizzanti una parte determinante del proprio finanziamento, sia capace di promuovere la ricerca continua e faticosa di soluzioni per l’uso efficace e giusto del denaro pubblico»; «un partito che torni, come nei partiti di massa, a essere non solo strumento di selezione dei componenti degli organi costituzionali e di governo dello stato, ma anche ‘sfidante dello stato stesso, ‘attraverso l’elaborazione e la rivendicazione di soluzioni per l’azione pubblica»; «un partito che realizzi questi obiettivi sviluppando un tratto che nei partiti di massa tendeva a rimanere circoscritto alle ‘avanguardie’, ossia realizzando una diffusa ‘mobilitazione cognitiva’» (p. 45). E il ricorso all’idea della «mobilitazione cognitiva» non è affatto marginale nel discorso di Barca, perché, a ben vedere, è proprio questo l’anello che tiene insieme il partito e la macchina amministrativa dello Stato, è cioè questo l’anello capace di far davvero funzionare il meccanismo dello «sperimentalismo democratico». Il partito palestra è infatti un partito «che offre lo spazio per la mobilitazione cognitiva, per confrontare molteplici e limitate conoscenze, imparare ognuno qualcosa, confrontare errori, cambiare posizione, costruire soluzioni innovative per stare meglio, e gli strumenti e le idee per farle vincere; e permettere così anche che dal confronto collettivo si profili e vada emergendo un avvenire più bello per i nostri pronipoti con tratti che oggi non possiamo anticipare» (pp. 45-46).
Dal punto di vista dell’organizzazione interna, il partito che Barca prefigura è contrassegnato da alcuni tratti distintivi: è un’infrastruttura che deve attrarre la partecipazione mediante «un confronto pubblico informato, acceso, imparziale, ragionevole» (p. 92), che deve realizzare «dentro il partito una circolazione delle conoscenze in tutte le direzioni» (p. 94). Deve essere inoltre aperto, con una base ampia di iscritti, e al tempo stesso capace di legare iscrizione e partecipazione, in modo tale da evitare «il prevalere di gruppi chiusi ‘controllori di tessere’, e dunque in grado anche di adattare «le modalità, gli orari, i formati del confronto alle esigenze dei diversi segmenti sociali, delle donne, degli operai, degli anziani» (p. 95). Ma l’organizzazione che Barca immagina taglia anche il cordone che lega il partito allo Stato, sia perché prevede una netta separazione tra cariche di governo e cariche di partito (a ogni livello), sia perché prevede la rinuncia a qualsiasi tipo di finanziamento pubblico. «Queste due separazioni», osserva infatti, «costituiscono la condizione indispensabile affinché il partito sia credibilmente dedicato alla raccolta, aggregazione, produzione e rivendicazione di soluzioni per governare, restando questo processo distinto dalle decisioni che verranno prese dalle suddette istituzioni» (p. 96). 
Naturalmente la discussione di Barca non è una riflessione sui partiti in generale, e dunque non indica ricette sulla forma che tutti i partiti dovrebbero e potrebbero assumere in un prossimo futuro. La proposta di riguarda infatti ciò che dovrebbe essere un partito di sinistra, perché quella è la parte cui Barca ha sempre guardato (e la conferma viene anche dalla lunga intervista che introduce il volume, realizzata da Stefano Feltri), perché i valori che indica come base per il nuovo soggetto – l’eguaglianza, la pace, la cultura, l’avanzamento sociale – si propongono di ridefinire e rilanciare l’identità della sinistra, ma soprattutto perché Barca intende la Memoria come un programma minimo indirizzato al Partito Democratico. Ed è forse anche per questo che il discorso di Barca rischia di apparire un’arma spuntata fin dal principio. A rendere debole il ragionamento di Barca non è infatti il riferimento allo «sperimentalismo democratico», perché, anzi, da questo punto di vista la sua proposta costituisce una interessante sollecitazione a superare una serie di luoghi comuni che si sono cristallizzati nelle rappresentazioni del ‘caso italiano’, non ultima la stessa insistenza sulla necessità di rafforzare i centri decisionali, sottraendoli al ‘ricatto’ che proviene dalle assemblee elettive e dagli interessi organizzati. La critica che Barca indirizza al ‘decisionismo’ non discende infatti da un disaccordo valoriale, bensì dal riconoscimento ‘empirico’ che ‘decidere’ non serve, se le conoscenze di cui si dispone sono insufficienti. E proprio qui sta la forza della sua proposta. Se il discorso appare convincente sul versante del governo, cioè a proposito delle modalità con cui vengono pensate l’attività di governo e le modalità con cui vengono prese le decisioni, le cose cambiano invece nel momento in cui lo sguardo si sposta sul partito. Ma non perché il discorso di Barca non abbia una sua nitida coerenza logica. Molto probabilmente, il partito che immagina Barca si rivelerebbe anzi utile per sviluppare concretamente le ipotesi dello «sperimentalismo democratico», soprattutto (ma non solo) a livello territoriale. Il punto davvero critico è invece che di quel partito di cui Barca immagina e auspica una trasformazione in un «partito palestra», in un partito capace di attivare una «mobilitazione cognitiva», non sembra esistere ormai alcuna traccia nell’Italia di oggi. 
In altre parole, a rendere debole il discorso di Barca non è l’architettura teorica, e non sono le connessioni logiche che vanno a tenere in piedi la struttura dello «sperimentalismo democratico», bensì il riferimento al partito che sarebbe necessario trasformare in «palestra». Da uomo delle istituzioni, Barca auspica in sostanza un più attivo coinvolgimento del partito (e delle conoscenze diffuse nel partito) nella macchina decisionale dello Stato, con l’obiettivo di rendere l’attività di governo più efficiente e capace di risolvere i problemi della società contemporanea. Ma, quando delinea il programma di una sorta di riforma interna del Pd, sembra in qualche modo dare per scontato che un partito tutto sommato simile al «partito di massa» esista ancora, che ci siano militanti disposti a mettere in comune le loro conoscenze, a mettere in moto il meccanismo dello sperimentalismo democratico. E il punto critico è invece proprio questo. Il Partito Democratico – che, nonostante tutto, rimane ancora ciò che in Italia più si avvicina a un partito – non è più un partito come lo intende Barca. E non si tratta soltanto dell’esito di quella marcia verso il centro dello Stato che Ignazi descrive bene con la formula del «partito Stato-centrico». Più in generale, vent’anni di ‘Seconda Repubblica’ hanno completamente polverizzato la vecchia struttura partitica. Le riforme amministrative e la ‘presidenzializzazione’ dei livelli di governo locali e subnazionali hanno creato centri di potere sostanzialmente autonomi dal centro e dotati di proprie risorse (finanziarie, simboliche, umane). E questo ha reso il Pd molto simile al «partito in franchising» individuato dalla letteratura politologica. Ma, accanto a questo processo, si è realizzato anche un ulteriore processo, che si è risolto davvero nella totale divaricazione tra base e vertice, tra militanti e dirigenti. Un processo di cui il calo nel numero degli iscritti fornisce un indicatore molto parziale, ma comunque significativo, e di cui le immagini del «popolo delle primarie» forniscono – più che una smentita – la più paradossale delle conferme.
Se Barca si volge al partito guardandolo ‘dall’alto’ delle istituzioni, dal vertice dell’attività di governo, quando lo esamina invece ‘dal basso’, ciò che emerge è d’altronde un dato spesso sottovalutato ma probabilmente sconcertante. E questo dato ci dice che il Partito Democratico - se pensiamo al partito politico come a un insieme di individui tenuti insieme da una comune appartenenza, da riferimenti simbolici condivisi, da progetti d’azione, da una leadership realmente compatta attorno a un’identità – non esiste più. Certo, se invece riteniamo che un partito sia solo un’organizzazione che concorre alle elezioni, che seleziona il personale politico, che ottiene finanziamenti pubblici, allora possiamo agevolmente riconoscere che il Pd rimanga effettivamente ancora un partito. E non è neppure detto che il partito del futuro non debba essere proprio qualcosa di simile a questa federazione del tutto fluida di potentati locali, di cordate clientelari, di leadership effimere, unite dall’obiettivo di spartirsi risorse pubbliche. Il punto è però che un partito di questo genere non può dare alcun contributo allo «sperimentalismo democratico» immaginato da Barca. E proprio per questo il progetto di Barca finisce col rimanere privo del tassello di base. Un tassello senza il quale la «mobilitazione cognitiva», in grado di rivitalizzare le strutture amministrative dello Stato, non è neppure pensabile.

Damiano Palano


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