lunedì 25 novembre 2013

Le seduzioni della democrazia elettronica. Qualche considerazione a margine del nuovo numero di «Paradoxa»



di Damiano Palano

Le elezioni del febbraio 2013 hanno rappresentato un evento senza precedenti nella storia politica italiana, non solo perché hanno segnato la conclusione della Seconda Repubblica e del suo ‘bipolarismo’, ma anche perché una nuova formazione politica, alla sua prima partecipazione, è stata in grado di aggiudicarsi circa un quarto dei voti validi. Se questo risultato è addirittura superiore a quello fatto registrare da Forza Italia nel suo battesimo elettorale del 1994, ci sono però altri motivi che rendono le elezioni del 2013 un evento che ha attirato sull’Italia – ancora una volta – gli occhi dei politologi di buona parte del mondo. E questi motivi sono naturalmente costituiti dal profilo unico del Movimento 5 Stelle, dall’utilizzo che esso ha fatto delle nuove tecnologie, dal suo rifiuto di definirsi ‘partito’, dal ruolo dirigente (e per alcuni aspetti persino ‘proprietario’) ricoperto da un uomo di spettacolo, e infine dalla sua ideologia, che profila la possibilità di sostituire – o quantomeno di integrare – la democrazia rappresentativa con una nuova democrazia elettronica. 
I primi mesi di esperienza parlamentare dei deputati e senatori pentastellati hanno incominciato a mettere duramente alla prova molti degli iniziali motivi ispiratori, e soprattutto hanno scalfito non poco la convinzione che la soluzione dei problemi della politica italiana sia 'semplice'. Alle prese con regolamenti parlamentari e procedure complicate, gli onorevoli del M5S si sono probabilmente resi conto che la quotidianità dell’attività parlamentare è molto lontana da quella di un consiglio comunale, in cui si può discutere davvero se costruire o meno un inceneritore, o se avere più o meno spazi verdi per la cittadinanza. Ma, come era facile prevedere, hanno iniziato a entrare in crisi tanto la pretesa del M5S di non essere un ‘partito’, quanto, soprattutto, la concordia fra il ceto parlamentare del movimento e il leader extra-parlamentare, che ovviamente ha perso il monopolio della comunicazione e che spesso si è così trovato costretto a ‘correggere’, ‘bacchettare’, ‘sanzionare’, ‘minacciare’ quanti – più o meno nettamente – deviavano dalla linea giudicata corretta.
Nonostante il panorama sia in costante evoluzione, come sovente capita alle forze politiche giovani (e travolte dal loro stesso successo), rimane però ancora in piedi – quantomeno come riferimento ideale – l’utopia di una democrazia elettronica, che ovviamente rimane ancora il principale obiettivo di lungo periodo del M5S. Ed è proprio a questo insieme di convinzioni (per la verità non molto organico) che è dedicato il nuovo fascicolo della rivista «Paradoxa» (3/2013), curato da Franco Chiarenza e realizzato dalla Fondazione Nova Spes in collaborazione con la Fondazione Luigi Einaudi. L’oggetto del fascicolo – che è come sempre molto interessante – è infatti l’e-democracy, e non è affatto casuale che, nel titolo, questa formula sia seguita da un punto interrogativo. Perché, in effetti, quasi tutti i contributi – pur concordando sul fatto che le nuove tecnologie possano offrire un contributo alla vitalità della democrazia liberale – tendono a sottolineare che la democrazia elettronica non può costituire né un’alternativa alle istituzioni rappresentative, né prefigurare un loro superamento. Come scrive Chiarenza nel contributo introduttivo: «se internet sarà in grado di riproporre a un pubblico smisuratamente più grande quelle opportunità di dialogo e di competizione che furono presenti – anche scontrandosi – nell’agorà, esso potrà rappresentare uno strumento formidabile di diffusione del modello politico maturato nella tradizione occidentale, in cui la democrazia si associa alla tutela infrangibile dei diritti individuali; se invece, come già accadde duemila e cinquecento anni fa, si trasformerà in un veicolo di demagogia inarrestabile, le conseguenze potrebbero essere terribili. La domanda è: saranno le future generazioni in grado di servirsi della rete per fare una buona pesca senza restarne impigliati?» (p. 17).
Nonostante i contributi siano rivolti a una discussione di carattere generale, è piuttosto inevitabile che l’occhio sia quasi costantemente rivolto a quella specifica versione dell’e-democracy di cui il M5S ha fatto una bandiera identitaria. Mario Morcellini e Serena Gennaro danno un quadro generale delle possibilità che la rete offre per un recupero della fiducia da parte della classe politica, ma anche per un dibattito meno semplificato di quello consentito dal mezzo televisivo. C’è però un punto che le ricerche hanno sino ad ora messo in luce, anche nel caso del M5S. In sostanza, come sottolineano Morcellini e Gennaro, i partecipanti più attivi sulla rete sono più o meno gli stessi che sono attivi nelle politica off-line, e ciò significa che la gran parte dei ‘comuni cittadini’ si limita a svolgere una funzione del tutto passiva. Esaminando invece uno dei capisaldi del programma pentastellato, ossia la reintroduzione di una sorta di mandato imperativo, Fulco Lanchester ricostruisce il dibattito condotto in campo giuspubblicistico nel corso di circa due secoli. E mette in luce come il tentativo di controllare e limitare l’autonomia del rappresentante non sia certo una novità, ma sia in qualche modo connesso con l’ingresso delle masse sulla scena politica e con l’affermazione dei partiti novecenteschi. Secondo Lanchester, il vecchio principio del divieto di mandato imperativo rimane però ancora oggi valido, proprio come baluardo contro vecchie e nuove derive elitiste. Con una prospettiva differente, che guarda alla realtà dei partiti italiani, Enrico Morando riconosce altresì che la rete potrebbe offrire lo strumento per superare tanto il vecchio partito di massa, quanto il partito personale: in questo modo, potrebbe prendere forma un partito reticolare, in cui comunque la rete sarebbe uno mezzo capace di consentire uno scambio con il vertice nazionale, ma non certo un’alternativa in grado di sostituire del tutto i partiti.
Puntando lo sguardo in modo un po’ più esplicito verso il M5S, Saro Freni sostiene che questa forza politica è riuscita a raccogliere una protesta che montava nella società italiana, ma prevede anche che sia piuttosto improbabile che una simile capacità rimarrà inalterata nel futuro, perché nuove forze potrebbero sottrarre al partito di Grillo il monopolio della protesta e della sfiducia. Sempre concentrandosi sul movimento pentastellato, Davide Bennato, dopo aver ricostruito la mappa delle diverse declinazioni (più o meno utopiche) della e-democracy , cerca di mostrare quali sono gli strumenti effettivamente utilizzati, dalle piattaforme meetup e liquid feedback, fino al blog di Grillo (che rimane ovviamente il principale elemento di aggregazione e anche di identificazione). E, a questo proposito, il bilancio stilato da Bennato è in chiaroscuro. Nel senso che riconosce al M5S il merito di avere introdotto in Italia «forme emergenti di partecipazione politica (il cyber partito) e nuove ideologie (legate all’idea di cyber democrazia) che mescolano ottimismo tecnologico, tecnopolitica, populismo elettronico, mostrando delle caratteristiche che sembrano ascrivere il movimento alle forme ideologiche ‘contro’». Ma, d’altro canto, osserva Bennato, si tratta di un atteggiamento che «può portare a delle pericolose manipolazioni da parte degli ideologi del movimento, che al momento godono di molto potere all’interno del movimento per quanto riguarda visibilità (Beppe Grillo) e decisioni sulla componente tecnologica attraverso la quale esercitare il potere» (p. 96). E, d’altronde, tutte le critiche sulla scarsa trasparenza interna di un movimento che aveva paradossalmente fatto della trasparenza il proprio vessillo non fanno che testimoniare l’esistenza di una serie di problemi che sono strettamente ‘politici’ (e non semplicemente ‘tecnici’).
Per molti versi, il vero cuore del fascicolo di «Paradoxa» è però rappresentato dai due interventi di Paolo Becchi e di Dino Cofrancesco, nei quali – comprensibilmente – la discussione si sposta in termini più diretti (e polemici) sull’esperienza del Movimento 5 Stelle. Nel suo contributo, Cyberspazio e democrazia. Come la rete sta cambiando il mondo, Becchi – che, a torto o ragione, è stato spesso rappresentato come una delle guide intellettuali del movimento di Grillo – non può che difendere a spada tratta la visione della e-democracy, non rinunciando neppure a qualche pennellata utopica. Il ragionamento di Becchi – che è peraltro autore di molti interessanti studi di filosofia del diritto e di bioetica – è piuttosto lineare. In sostanza, argomenta, la rete sta producendo conseguenze enormi sulle nostre organizzazioni sociali, conseguenze paragonabili a quelle innescate nel passato da altre grandi innovazioni tecnologiche. Riecheggiando Carl Schmitt, Becchi sostiene così che non siamo più nell’era della terra o dell’acqua, ma in quella dell’aria, ossia di «uno spazio aereo che avvolge l’intero pianeta e non ha un sovrano» (p. 71). E la conseguenza principale è che la rete ci fa entrare nella fase della «disintermediazione», una fase storica in cui tramonta ‘tecnicamente’ la necessità degli intermediari: che sono per esempio i librai per l’editoria, i giornali (e i giornalisti) per il mondo dell’informazione, i conduttori televisivi per i talk-show, e ovviamente i funzionari di partito (e gli stessi partiti) per l’ambito politico. A questa grande trasformazione, si lega però un ulteriore complesso di processi: «La fine delle immagini del mondo porta con sé anche la fine delle grandi narrazioni, vale a dire di quelle ideologie politiche che si sono scontrate nel secolo scorso. Destra e sinistra, liberali e socialisti, conservatori e progressisti, sono ormai categorie obsolete, prodotti archeologici come i partiti che ad esse continuano ad ispirarsi. Calvi che si contendono un pettine» (p. 76). Il Movimento 5 Stelle, continua Becchi, non è che l’espressione più evidente di una simile transizione alla nuova stagione ‘aerea’, e rappresenta il caso più riuscito di una serie di movimenti che, in tutto il mondo, hanno contestato le classi politiche al potere. E l’idea che accomuna tutte queste esperienze è proprio il superamento dell’intermediazione offerta dai partiti: «Ogni cittadino, infatti, grazie alla rete potrà esprimersi direttamente su molte questioni e le decisioni prese coinvolgere molti e non solo pochi eletti. Internet restituisce ai cittadini una nuova centralità nei rapporti con lo Stato superando l’intermediazione dei partiti, per certi versi offre una possibilità per rivitalizzarsi al parlamento stesso, quella di tornare ad essere un organo centrale per le decisioni politiche» (p. 80). Ciò non significa che, secondo Becchi, la democrazia liberale sia destinata a tramontare, perché, più semplicemente, le nuove tecnologie andranno a integrare e a rivitalizzare i meccanismi istituzionali della rappresentanza. E, dunque, anche la sfida del M5S dovrebbe essere interpretata in questa chiave: «Oggi i cittadini votano, più o meno fideisticamente, per un partito. Sono i partiti che pensano per loro. Da qui nasce l’apatia e il distacco dalla politica. Se vogliamo vincerla non c’è che un mezzo: restituire la politica ai cittadini, liberandola dalla intermediazione dei partiti. Le nuove possibilità introdotte da internet oggi lo consentono. Nelle agorà virtuali già si discutono i problemi senza seguire ciecamente quello che ha detto questo o quel partito. Nascerà una nuova democrazia senza partiti, e una nuova politica dialogante e discorsiva, al posto di quella conflittuale e autoreferenziale che conosciamo. Alla politica ‘muscolare’ dei partiti, subentrerà quella ‘molecolare’ dei movimenti. Non abbiamo bisogno di una politica ‘migliore’, ma forse di qualcosa di meglio della politica, di come sino ad oggi è stata pensata» (p. 82).
È piuttosto comprensibile che simile toni – e soprattutto l’aspirazione a «qualcosa di meglio della politica» – debbano risultare quantomeno segnati da una vena utopistica, e che per questo possano apparire indigesti a quanti, seguendo la lezione machiavelliana, preferiscono attenersi alla «realtà effettuale della cosa». Le armi della polemica vengono d’altronde impugnate esplicitamente da Dino Cofrancesco, il quale, nel proprio attacco ai «dottor Stranamore della e-democracy», attinge al patrimonio del pensiero liberale. La visione della rete suggerita dai teorici della e-democracy, secondo Cofrancesco, «salda fascismo e populismo, minoranze audaci e seguiti di massa, concentra potere e decisioni politiche nelle mani dei suoi ‘amministratori delegati’ e dei suoi principali azionisti ma in nome del popolo sovrano che, dopo aver chinato la testa per secoli, trova nel suo cyberspazio i suoi Robin Hood» (p. 22). Ovviamente, si tratta però di una visione distorta, che combina lo stile politico «fascista» con un «sessantottismo plebeo […] non condizionato da complicazioni intellettualistiche». E, così, quello espresso dagli ideologi della rete appare a Cofrancesco una sorta di «nichilismo con tratti Lumpenproletariat», perché «il popolo della rete, quando non è, in qualche modo, messo in forma dalle vecchie agenzie di potere e d’influenza, lungi dall’apparire come espressione dei ‘nuovi tempi’, sembra piuttosto il ‘volgo disperso che nome non ha’, il corteo dei derelitti, degli umiliati e offesi, che il pope Gapon guida davanti al Palazzo d’Inverno» (p. 33). Ma, in tal modo, la presunta alternativa alla democrazia dei partiti non può non tradire, secondo Cofrancesco, il vero compito della democrazia: «Il compito della democrazia (nella sua accezione liberale, beninteso)», osserva infatti, «non è quello di far parlare tutti, in quanto titolari di diritti politici e, quindi, detentori del millesimo di sovranità che a loro riconosce la Costituzione, bensì quello di ‘far accettare’ la ‘complessità’ come caratteristica ineludibile del legno storto dell’umanità. La ‘scuola della democrazia’ ha come riferimento la grande lezione dello scetticismo occidentale (da Montaigne a Hume): deve dar conto dei ‘dilemmi politici’, che attraversano le comunità, definibili come vie diverse (e non sempre conciliabili, per questo sono ‘dilemmi’) per venire incontro ai vari bisogni degli individui e dei gruppi sociali e soprattutto deve insegnare a prendere in seria considerazione il grado di compatibilità tra le varie proposte di riforme iscritte nei programmi del governo e delle opposizioni. […] Senza il riflesso condizionato del vaglio delle compatibilità, il popolo della rete – pur sempre una minoranza, non dimentichiamolo – si trasforma in una disordinata assemblea telematica in cui ognuno protesta contro qualcun altro e manifesta a favore degli obiettivi più disparati, senza minimamente accertarsi se si possono realizzare congiuntamente e senza darsi alcun pensiero di come si vivrà quando saranno stati raggiunti» (p. 25). 
Quantomeno ragionevoli, le obiezioni di Cofrancesco fanno però anche affiorare alcuni dubbi. Quella di cui parla Cofrancesco è infatti – come egli stesso specifica – una ben precisa visione della democrazia, la visione fornita dal pensiero liberale, e non certo l’autentica dottrina democratica. E si tratta di un punto sostanziale, semplicemente perché una ‘autentica dottrina democratica’ non esiste, e perché nel nostro futuro – come già è avvenuto nel passato – continueranno a contrapporsi visioni opposte e persino inconciliabili della democrazia. D’altronde, non si può neppure dimenticare che quelle osservazioni che Cofrancesco muove all’immaginario della e-democracy non fanno che ricalcare proprio le critiche che tutti i grandi filosofi politici occidentali hanno indirizzato alla democrazia, raffigurata quasi invariabilmente come il regno dell’opinione, dei desideri fuggevoli, dei più abili demagoghi. E non si può nemmeno dimenticare come molti pensatori liberali, oltre a formulare severi giudizi sulla democrazia, siano stati spesso piuttosto parchi nel riconoscere a tutti gli esseri umani quei diritti che noi oggi consideriamo come fondamentali per ogni democrazia (e basti pensare all’atteggiamento nei confronti della schiavitù o dei diritti politici delle donne). Ciò non significa naturalmente che quei pensatori liberali che Cofrancesco annovera tra i padri della democrazia non debbano essere riconosciuti come tali, ma significa piuttosto che il soggetto della democrazia (il popolo) e il contenuto del suo potere non possono essere fissati in una sagoma cristallizzata, perché sono sempre il risultato di quanto avviene dentro un sistema politico e – non dimentichiamolo – al suo esterno.
La critica di Cofrancesco al ragionamento di Becchi, se riesce senza dubbio a mettere in luce la latente vena ‘nichilista’ della democrazia elettronica, non riesce però a evidenziarne il vero limite. Per molti versi, è invece possibile ravvisare un tratto comune fra il discorso di Cofrancesco e quello di Becchi. A ben vedere, il modo di accostarsi al problema della democrazia non è molto diverso nei due casi. Da un lato, Becchi guarda infatti alla democrazia pensando soprattutto alla possibilità di decidere direttamente, senza intermediazioni, da parte dei cittadini, e in questo senso la rete sembra offrire le condizioni ‘tecniche’ per una partecipazione più attiva, diretta e persino continua al processo decisionale, consentendo soprattutto un superamento dell’intermediazione garantita dai partiti politici e da un ceto politico professionalizzato. Dall’altro, Cofrancesco – se certo non può che discostarsi dalla celebrazione del cyber-assemblearismo pronunciata da Becchi – considera invece la democrazia come la possibilità (e anche il dovere) di scegliere fra alternative, e dunque ritiene che sia sempre specifico compito della democrazia «prendere in seria considerazione il grado di compatibilità tra le varie proposte di riforme iscritte nei programmi del governo e delle opposizioni». Per questo, non può che appellarsi alla responsabilità di quei rappresentanti eletti che – commisurando ipotesi alternative, i loro costi e i benefici che da ciascuna di esse si attendono, oltre che la loro vicinanza o lontananza da determinati valori – compiono effettivamente delle scelte. Il punto è che in entrambi i casi la ‘democrazia’ coincide con un modo (più o meno istituzionalizzato) di produrre delle decisioni: Becchi assegna il diritto di decidere tendenzialmente a tutti i cittadini, e persino a coloro che sono privi di qualsiasi carica e di qualsiasi ruolo politico; Cofrancesco invece, nel solco del pensiero liberale, affida questo compito ai rappresentanti designati, che naturalmente saranno poi chiamati a rispondere del loro operato e delle loro decisioni dinanzi al corpo elettorale. In entrambe le visioni, ciò che rimane del tutto in ombra sono però le questioni su cui si può effettivamente decidere. E non tanto perché esistano dei vincoli imposti dalle Costituzioni, quanto perché esistono dei limiti oltre i quali le democrazie non possono realisticamente decidere, per il semplice fatto che gli strumenti che hanno a disposizione non sono sufficienti. 
Il punto è infatti che, per comprendere davvero le trasformazioni della democrazia, è necessario guardare non solo ai meccanismi istituzionali e alle procedure, che certo qualificano la democrazia, ma anche alla realtà dei poteri presenti nella società, all’assetto delle relazioni economiche e, soprattutto, alla presenza di soggetti, gruppi e coalizioni dotati di una capacità di interdizione o di intimidazione. Innanzitutto, perché ciò che noi chiamiamo ‘democrazia’ rimane un’articolazione specifica dello Stato nazionale, le cui funzioni dipendono, oltre che dai conflitti interni, dalle trasformazioni del sistema politico ed economico internazionale. E in secondo luogo, perché la democrazia è anche – se non esclusivamente – un assetto reso possibile da rapporti di forza politici, che inducono a un ‘compromesso’, a un ‘armistizio’. Ciò significa in altre parole considerare la democrazia non come il punto di massimo sviluppo di una tradizione intellettuale, bensì come l’esito incerto e instabile di un equilibrio storico tra forze opposte. Ciò era vero per la democrazia ateniese, ma anche per le istituzioni rappresentative britanniche, le quali profilarono la nostra democrazia proprio in quanto furono il risultato del compromesso scaturito da due rivoluzioni, e perché riuscirono a trasformarsi nel luogo in cui potevano contendere interessi reali, radicati nella società e tendenzialmente capaci di esprimere a lungo un potere reale. Ma, naturalmente, tutto ciò è vero per la democrazia che abbiamo conosciuto nel Novecento. Una democrazia che si è davvero basata, almeno sino alla metà degli anni Settanta, su un «armistizio democratico», secondo l’espressione di Alfio Mastropaolo.
Becchi ha forse ragione quando sostiene che siamo di fronte a una nuova «rivoluzione spaziale», ma sarebbe quantomeno ingenuo ritenere che essa porti con sé – soltanto – la democrazia elettronica. La rivoluzione spaziale, oltre a modificare la nostra percezione dello spazio, modifica infatti in profondità le modalità stesse di esercizio potere, anche se non lo dissolve. Ciò che dissolve è semmai la base su cui si fondava il potere dei soggetti politici del XX secolo, di cui i partiti di massa erano l’esemplificazione più ovvia. Proprio su questo punto ragionamenti come quelli di Becchi e Cofrancesco non possono però che risultare elusivi. Concentrandosi sulla democrazia come mera decisione, sui soggetti che sono legittimati a decidere, sulle procedure da adottare per scegliere fra diverse opzioni, si smarriscono infatti del tutto le domande cruciali sulle trasformazioni del potere, sulle modificazioni dell’economica mondiale, e infine su quali siano i soggetti capaci realmente di siglare un nuovo compromesso democratico. Ed è invece proprio quest’ultima la domanda che ci dovremo davvero porre nei prossimi anni, se vorremo pensare in termini realistici al futuro delle nostre democrazie. E se vorremo evitare le due tentazioni speculari di considerare la democrazia solo come la forma istituzionale che si occupa dell’amministrazione dell’esistente, o di affidare alla democrazia un elenco di desideri destinati a rimanere un catalogo di illusioni.

Damiano Palano

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