mercoledì 14 dicembre 2011

La virtù impolitica del moralismo. A proposito di un libro di Stefano Rodotà





di Damiano Palano

Benché lo spettro della corruzione aleggi sulla classe politica italiana fin dai primi decenni della storia unitaria, la formula «questione morale» entra nel dibattito politico all’inizio degli anni Ottanta, per non uscirne praticamente più. A sancire l’ingresso di questa formula è una famosa intervista rilasciata da Enrico Berlinguer al direttore de «la Repubblica» Eugenio Scalfari nel luglio del 1981, mentre l’opinione pubblica veniva a conoscenza della fitta trama che la loggia massonica P2 aveva steso sulle istituzioni. Le formule usate da Berlinguer in quell’intervista (di recente ripubblicata dall’editore Aliberti, con una prefazione di Luca Telese) erano senza dubbio severe nei confronti del ceto politico italiano (e, soprattutto, dei partiti di governo). «I partiti di oggi» - diceva allora il segretario del Partito Comunista - «sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un ‘boss e dei ‘sotto-boss’». Da allora, le parole di Berlinguer sono state scomodate più volte, e presentate come la profetica denuncia della degenerazione dei partiti e della successiva fine ingloriosa della ‘Prima Repubblica’. Ma, a ben vedere, si può oggi riconoscere nella denuncia di Berlinguer anche un’anticipazione dell’appropriazione da parte della politica di quel linguaggio ‘antipolitico’ che, dal 1992 in avanti, avrebbe avuto tanta fortuna. In effetti, il linguaggio ‘antipolitico’ – o, meglio quella variante del linguaggio antipolitico che raffigura la classe politica come invariabilmente corrotta, la politica come il regno del malaffare e i ‘professionisti della politica’ come incorreggibili saccheggiatori delle casse pubbliche – era rimasto un patrimonio della critica – un po’ sospetta e un po’ qualunquista – della cosiddetta «partitocrazia». Ma, a partire da quel momento, Berlinguer ne impugnava la lama affilata, e la puntava proprio dentro le ferite aperte di scandali antichi e recenti.
La scelta di Berlinguer aveva naturalmente motivazioni che andavano ben al di là della semplice denuncia di un ‘malcostume’ diventato regola di governo e sottogoverno tacitamente condivisa. In quel momento, il Pci si trovava infatti stretto nell’angolo, privo di rilevanti prospettive e, con alle spalle, una serie di scelte rivelatesi per gran parte infruttuose, o persino deleterie. Con la prospettiva di restare confinato in una posizione sempre più marginale, Berlinguer cercava così nella ‘diversità’ morale l’elemento in grado di surrogare una diversità politica e ideologica ormai sempre più logora e inutilizzabile sul piano elettorale. E non è così del tutto fortuito che molti abbiano intravisto nella svolta ‘moralista’ di Belinguer l’anticipazione del cammino che, in seguito, avrebbe condotto molti degli eredi del Pci a cancellare la propria storia e la propria identità politica, sostituendola con un buonismo vagamente melenso e con un moralismo di maniera, sempre meno credibile.
La decisione di Berlinguer viene invece difesa con grande convinzione da Stefano Rodotà, che nel suo recente Elogio del moralismo (Laterza, Roma – Bari, 2011, pp. 94, euro 9.00) raccoglie alcuni suoi interventi, scritti negli ultimi vent’anni e dedicati alla ‘corruzione’ della politica italiana. Nella propria difesa del ‘moralismo’, Rodotà infatti parte proprio da Berlinguer e dalle critiche che vennero allora mosse alla denuncia del segretario del Pci: «In quella tesi, associata com’era ad una richiesta di austerità», scrive Rodotà, «si volle vedere un’idea triste della politica, in contrasto con la spensieratezza dell’incipiente ‘Milano da bere’; e la rivendicazione di una diversità del Pci come una mossa d’orgoglio che rivelava la pretesa di essere comunque migliori degli altri. Interpretazioni entrambe riduttive, appiattite com’erano su contingenze e convenienze, mentre oggi possiamo cogliere il vero nocciolo di quella proposta: la sottolineatura del carattere proprio di un partito soprattutto per renderlo consapevole della responsabilità che gli spettava, con una indicazione volta ad evitare che si consolidasse quella che appariva come una pericolosa anomalia italiana. Nessun discorso nostalgico, allora, ma la presa d’atto dell’accantonamento colpevole di un tema politico centrale, causa non ultima della crisi di cui siamo vittime» (p. 4).
La difesa del moralismo pronunciata da Rodotà contro ogni svalutazione ‘politicista’ è vibrante e non teme i sospetti che spesso hanno intravisto nel moralismo solo un’affettata, formalistica esibizione pubblica dell’aderenza a precetti di onestà, correttezza e rigore, poi del tutto violati in privato, e soprattutto non si fa incantare dalla celebrazione ‘realista’ di un potere che richiede che le regole morali vengano, se non proprio superate, comunque ‘sospese’ in nome di obiettivi più elevati. «Il moralista», secondo le parole del giurista, «non mugugna, non si appaga del racconto delle barzellette antiregime. Esce allo scoperto, e non è frenato dal timore d’essere sgradito, o sgradevole. Non si fa incantare dal realismo di chi invoca la natura ferrigna della politica come un salva condotto che legittima qualsiasi azione, anche quando il tornaconto personale è l’unica molla. E quindi diffida di Machiavelli quando Il Principe viene pubblicato con prefazioni di Benito Mussolini o di Bettino Craxi o di Silvio Berlusconi» (p. 3).
Ad apertura del volumetto, Rodotà colloca, non casualmente, un breve intervento tratto da un suo libro del 1992, Repertorio di fine secolo, perché, evidentemente, il ritratto della società italiana, risalente a quasi vent’anni fa e centrato sul crepuscolo della ‘Prima Repubblica’, si attaglia piuttosto fedelmente anche al panorama che abbiamo avuto sotto gli occhi negli ultimi anni. Scriveva allora, per esempio: «Nudi patti di potere ancora ci avvolgono, indifferenti agli uomini e ai principi. Anche questa può essere, ed è, politica. Ma il suo prezzo si è fatto sempre più alto. Per praticarla, per imporre le sue regole ferree, non basta la tendenza insistita verso la cancellazione d’ogni forma di controllo – dei parlamenti, dei giudici, del sistema d’informazione. Bisogna dimostrare visibilmente, ostentatamente addirittura, che ogni pretesa di far valere interessi generali, logiche non proprietarie, valori culturali, diritti dei cittadini è ormai improponibile: e c’è spazio solo per negoziazioni, accordi, sopraffazioni magari, affrancati magari, ma solo tra soggetti forti, che creano essi stessi le regole, affrancati da ogni legge e codice. Nozioni come pubblico e privato, Stato e sistema delle imprese, lecito e illecito perdono senso. Le frontiere vengono cancellate, la contesa è intorno al modo di consolidare un comune governo oligarchico, di stabilire le regole d’ingresso in un circolo sempre più ristretto» (p. 11).
La celebrazione del moralismo ovviamente non è fine a se stessa, ma si concentra sulle trasformazioni del sistema politico italiano, nel passaggio fra la ‘Prima’ e la ‘Seconda Repubblica’. Nel volume sono così raccolti alcuni interventi pubblicati originariamente su «la Repubblica» e dedicati ad alcuni dei tanti ‘scandali’ cui abbiamo assistito negli ultimi, e dinanzi ai quali abbiamo in fondo finito con l’assuefarci. Ma le considerazioni forse più interessanti sono fissate da Rodotà nel saggio centrale, Una moralità costituzionale, che si richiama alla «disciplina» e all’«onore» cui la nostra Carta costituzionale, all’articolo 54, richiama i «cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche». Proprio in queste pagine, Rodotà sostiene che il più saldo argine contro la corruzione – intesa in tutte le sue forme, e dunque non solo quando essa si traduce in comportamenti illegali – può essere offerto solo dalla «responsabilità politica» di quanti esercitano il potere. Una simile responsabilità, scrive Rodotà, «può scattare, deve scattare, anche quando non vi sia una responsabilità penale, per il solo fatto di essersi comportati in maniera contrastante con la correttezza legata all’esercizio di una carica, alla gestione di un affare di Stato, al maneggio del pubblico denaro» (pp. 22-23). Ma, ovviamente, tutto questo può avvenire solo se – alle spalle dell’impegno politico – sta il senso di un’appartenenza comune: «un public commitment, un impegno che ci riscatti e ci costituisca come parte attiva di una comunità politica, non può nascere soltanto da una registrazione dei rapporti di forze. Deve essere sorretto dai fuochi che possono sprigionarsi dalla trasformazione dei principi costituzionali in una spinta insieme politica e morale, che riscatti tutti dalla ‘stanchezza civile’ e renda ineludibile quell’inflessibile controllo di legalità che è la sola via per evitare che tutti, nella politica, siano considerati perversamente eguali. Quando si associa alle virtù civiche, il moralismo diventa una potente risorsa, che vale la pena d’impiegare con convinzione» (pp. 29-30).
Naturalmente, la proliferazione della corruzione cui abbiamo assistito negli ultimi decenni - senza che, sotto questo profilo, vi sia stata una reale soluzione di continuità fra la vecchia ‘partitocrazia’ e il nuovo bipolarismo, al di là della retorica distribuita a piene mani almeno nei primi anni della ‘Seconda Repubblica’ – non può che rendere più che legittimo il richiamo di Rodotà al ‘dovere morale’ della classe politica di conservare un minimo di «disciplina» e «onore». Ma, certo, persino una così convinta perorazione a favore della causa del ‘moralismo’ non può dissipare i sospetti di quanti ritengono che politica e morale attengano comunque a piani differenti, talvolta anche ‘tragicamente’ differenti, e che pertanto la politica richieda – possa richiedere – che i leader prendano anche decisioni lontane, forse persino incompatibili, con i criteri della morale individuale. Al di là di questo nodo, c’è comunque una domanda che affiora al temine della lettura delle appassionate pagine di Rodotà. Una domanda che verte proprio sulle cause della ‘degenerazione’ italiana.
Da questo punto di vista, Rodotà si scaglia energicamente contro una tesi che ha avuto molta fortuna nel dibattito politologico (e, di riflesso, anche nella discussione politica) e che fa derivare la corruzione, le pratiche clientelari, la proliferazione di legami inconfessabili tra politica, affari, criminalità, al sistema ‘bloccato’ della ‘Prima Repubblica’. In sostanza, secondo questo ragionamento, l’impossibilità dell’alternanza di governo rendeva i partiti di governo del tutto sicuri della loro posizione, e dunque ‘irresponsabili’ nei confronti degli elettori. Già al principio degli anni Novanta, Rodotà – non senza ragioni – riteneva che questa spiegazione fosse del tutto inadeguata: perché, come scriveva, «non spiega la profonda corruzione nei comuni, dove l’alternanza tra diversi schieramenti politici funziona da quasi vent’anni» (p. 39). E oggi riprende ulteriormente quella critica, perché l’alternanza, se ha posto fine all’inamovibilità dei governi, non ha affatto interrotto la sequenza di scandali, collusioni, esplicita corruzione: «La storia ci mostra che si trattava di una ricetta sbagliata: gli anni passati hanno sì visto alternarsi al governo, e nelle amministrazioni locali, coalizioni politiche diverse, ma la corruzione, invece di diminuire, si è radicata ancor più profondamente nelle istituzioni, diffondendosi in tutte le direzioni nella società italiana» (p. 16). Se la spiegazione ‘politologica’ risulta inefficace, è quasi inevitabile ricorrere alla spiegazione ‘culturale’, ossia all’assenza di spirito civico, ma Rodotà rifiuta in realtà anche questa strada, perché – come scrive - «questa spiegazione antropologica non è convincente, anzi rischia di offrire una giustificazione e una legittimazione ulteriore a chi vuole sottrarsi agli imperativi della legalità e della moralità pubblica» (p. 5).
Le motivazioni che inducono Rodotà a rifiutare tanto la lettura ‘politologica’ della corruzione italiana, quanto quella ‘culturale’, sono del tutto comprensibili. L’intento di Rodotà consiste infatti nel riaffermare «la moralità delle regole», nell’incentivare la nascita anche di un ‘moralismo attivo’ che critichi in modo esplicito la classe politica. Proprio per questo, il giurista punta l’indice soprattutto nei confronti del ceto politico italiano, che storicamente – a partire almeno dagli anni Settanta – ha rinunciato a far valere al proprio interno sanzioni morali e politiche nei confronti di quanti adottavano comportamenti censurabili, scorretti, se non proprio illegali. In questo modo, la classe politica consegna di fatto il potere di accertare l’esistenza di comportamenti illeciti o semplicemente impropri a un potere esterno, e cioè alla magistratura, che assume il ruolo – certo non immune da deformazioni e strumentalizzazioni - di ‘custode della virtù’. E, così, l’unico reale antidoto consiste proprio nell’impegno, da parte della politica, a farsi «politica costituzionale», nel recupero di quel dovere di «disciplina» e «onore» sancito dalla Costituzione ma del tutto smarrito nel corso dei decenni e nelle trame delle relazioni di potere.
Se l’operazione può risultare condivisibile nel suo intento di ‘moralizzazione’, è però piuttosto chiaro come la perorazione a favore di una «politica costituzionale» rischi di risultare poco soddisfacente perché, in realtà, Rodotà rifiuta di indagare in profondità le cause della proliferazione della corruzione italiana. Certo, Rodotà ha pienamente ragione nell’imputare una quota di responsabilità significativa alla classe politica, così come coglie un punto importante quando sottolinea la rinuncia ad adottare meccanismi interni di sanzione. In questo modo, si finisce però col pensare che la ‘causa’ della corruzione stia solo dentro il ‘Palazzo’, e che rappresenti ‘solo’ una degenerazione, la manifestazione di un degrado, rifiutando in fondo di capire quali siano e dove siano le radici più profonde della corruzione italiana. Radici che, a ben vedere, non affondano solo negli anni Settanta e Ottanta, e che non sono soltanto l’effetto del sistema ‘bloccato’ della ‘Prima Repubblica’, ma che rimandano molto più indietro, e sembrano persino legare – con un filo robusto, seppure talvolta poco visibile – l’intera storia unitaria. Dopo la conferma che la ‘corruzione’, le collusioni, i rapporti inconfessabili, non sono affatto scomparsi con l’apparire dell’alternanza, del bipolarismo e persino delle ‘privatizzazioni’, dovremmo infatti incominciare a chiederci davvero da dove nasca quella tendenza della politica – specificamente italiana, anche se non solo italiana – a compenetrarsi con interessi legali e illegali, a piegare l’amministrazione pubblica a finalità individuali, a operare secondo criteri spesso privatistici. Forse rischieremmo di ricorrere alla trappola ‘culturalista’, che finisce col dipingere un quadro fin troppo fosco. Forse, scopriremmo anche che la proliferazione di reti clientelari non rappresenta solo un fenomeno ‘degenerativo’, ma anche – paradossalmente – proprio la struttura più profonda della società italiana, oltre che, persino, l’ossatura su cui si sono realizzati nel tempo tanto lo State-building italiano, quanto la faticosa, tormentata costruzione della democrazia. Probabilmente, una simile scoperta potrebbe risultare sconcertante per quanti hanno condiviso immagini più confortanti e oleografiche dell’Italia unitaria. Ma, forse, solo in questo modo si può davvero riconoscere quali sono le reali radici del ‘degrado’ contemporaneo. E solo in questo modo ci si può forse preservare sia dalla disillusione che inevitabilmente segue le ondate ‘moralizzatrici’, sia da quel mesto, rassegnato cinismo del Principe di Salina, che condanna l’Italia a conservare, sotto la coltre delle più variopinte bandiere, il proprio profilo immutabile.

Damiano Palano

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