mercoledì 7 settembre 2011

Lo sguardo corto dell'impero a credito. "America vs America" di Lucio Caracciolo





di Damiano Palano

Il declassamento del debito pubblico americano da parte di Standard & Poor’s ha riacceso la discussione sull’affidabilità delle agenzie di rating. Ma, soprattutto, ha fatto riaffiorare, ancora una volta, lo spettro del declino degli Stati Uniti. Uno spettro che si aggira per il mondo da ormai quattro decenni, da quando Robert Nixon, nel 1971, sospese la convertibilità fra dollaro e oro. Proprio sull’onda delle difficoltà incontrate negli anni Settanta dall’economia americana, aggravate dal fallimento della guerra del Vietnam, alcuni studiosi di politica internazionale – come per esempio Robert Gilpin e Paul Kennedy – si spinsero a sostenere che l’egemonia degli Stati Uniti avesse ormai imboccato la fase discendente della propria parabola storica. Gli eventi successivi smentirono piuttosto seccamente quelle previsioni, inducendo gli osservatori quantomeno a una maggior cautela. Ma oggi, dinanzi alle trasformazioni dell’ultimo decennio, la tesi del declino dell’egemonia statunitense non può che tornare a guadagnare consensi. Ed è per esempio al cuore anche dell’analisi svolta da Lucio Caracciolo in America vs America. Perchè gli Stati Uniti sono in guerra contro se stessi (Laterza, pp. 193, euro 16.00).
Secondo Caracciolo, l’insidia principale per gli Usa non proviene però dall’ambiente internazionale, e in particolare dall’ascesa della potenza cinese, bensì, per così dire, proprio da Washington. Il vero problema degli Stati Uniti, in altre parole, consiste nella risposta che la leadership politica americana – da Bush padre fino a Obama – ha fornito alle nuove domande poste dal sistema internazionale uscito dalla fine della Guerra fredda. Gli Usa hanno in sostanza mancato di riconoscere la tendenze di fondo scaturita dalla scomparsa dell’Unione Sovietica. Una tendenza che consiste, da un lato, nella fine dell’unità politica e culturale dell’Occidente, e, dall’altro, nel mutamento della geografia del potere.
Dopo il 1989, pur dinanzi a questo scenario di profonda, radicale trasformazione, gli Stati Uniti – questa è la tesi di fondo di Caracciolo – non elaborano una nuova strategia. Sembrano infatti ritenere che il nuovo ordine debba scaturire ‘spontaneamente’ dalla diffusione planetaria dell’economia di mercato. Lo slogan elettorale di Bill Clinton – “è l’economia, stupido!” – tradisce così, al tempo stesso, la ferma convinzione nei frutti positivi della globalizzazione e il disinteresse per l’organizzazione del post-Guerra fredda. L’11 settembre 2001 rompe l’illusione dell’evoluzione pacifica verso un “mondo unipolare”, contrassegnato dall’egemonia statunitense sul mondo e dalla diffusione planetaria dell’american way of life. Ma non cambia la prospettiva generale, e così, anche dopo gli attacchi alle Twin Towers di New York, la rappresentazione condivisa continua ad assegnare a Washington il ruolo di unico polo del nuovo sistema internazionale, oltre che la funzione di ‘nazione indispensabile’.
La “guerra globale al terrorismo”, avviata da G.W. Bush e sostanzialmente proseguita da Obama, non ha però vere e proprie finalità strategiche. Non si inquadra cioè all’interno di una visione strategica di lungo periodo. L’imponente apparato militare americano viene utilizzato solo per obiettivi politico-ideologici, ossia per rispondere al trauma seguito alla scoperta della vulnerabilità della «superpotenza solitaria». Sotto questo profilo, i teatri della paura allestiti durante l’amministrazione Bush si rivelano efficaci, almeno fino a un certo punto. Riescono infatti a convincere l’opinione pubblica mondiale che le sorti del mondo dipendano effettivamente da una ‘guerra’ contro un ‘nemico mortale’, e consolidano la convinzione che gli Usa siano davvero una potenza invincibile. Ma, gradualmente, non possono che erodere il soft power di Washington. Come scrive in questo senso Caracciolo: «La guerra in Iraq e la relativa evoluzione in Afghanistan dopo la presa di Kabul sono esemplari dell’uso astrategico della forza. Ossia dell’impiego dell’apparato militare per fini politico-ideologici, non strategico-politici. Come strumento di manutenzione dei teatri della paura. Se non come fine a se stesso. Salvo poi riflettersi sulla complessiva potenza del paese, gettando nella confusione la guerra al terrorismo, accentuandone i costi economici e minando infine la radice immateriale della potenza americana, il soft power. Termine con cui s’intende la capacità di ottenere ciò che si vuole senza puntare la pistola alla tempia dell’avversario, tantomeno sparare. L’uso astrategico della forza è il perfetto opposto del soft power: il minimo risultato con il massimo sforzo. E a costi altissimi, umani, economici e d’immagine» (ibi, p. 95).
Con gli interventi in Afghanistan e in Iraq, secondo la lettura proposta da Caracciolo, gli Stati Uniti tendono infatti a trasformarsi in un “impero”: non più solo in un impero informale, ma in un vero e proprio impero formale, dotato di territori occupati stabilmente. Questa svolta ‘imperiale’ – ispirata dai circoli neo-conservatori e neo-nazionalisti – non può però non risultare in profonda, lacerante contraddizione con la vocazione anti-coloniale radicata nella cultura politica americana. E, soprattutto, non può che contribuire a minare la stessa legittimità dell’egemonia americana.
Le difficoltà incontrate nell’avviare il nation-building in Afghanistan e in Iraq fa emergere tutti i limiti di guerre, fin dal principio, prive di strategia. A partire dal 2008, la crisi economica mostra anche come la posizione egemonica americana poggi su basi estremamente fragili, come la superpotenza sia indebitata con tutti i principali competitori, e come l’impero sia, in larga parte, un «impero a credito», una sorta di gigante dai piedi di argilla. «Alla radice della cesura del settembre 2008» - scrive infatti il direttore di «Limes» - sta l’incepparsi del meccanismo egemonico a tutto tondo su cui l’America ha incardinato il suo primato mondiale e dal quale i neoconservatori pensavano di partorire l’impero più grande e più forte di ogni tempo. È l’impero a credito che batte in testa. Marchio che definisce il paradosso di una superpotenza indebitata con i suoi massimi competitori, a partire dal paese pronosticato come suo successore, la Repubblica Popolare Cinese. In questo senso gli Stati Uniti sono un’“iperpotenza unica”: non s’è mai dato un egemone tanto squattrinato nella storia umana» (ibi, p. 115).
La stessa vittoria elettorale di Barack Obama può essere allora interpretata, secondo Caracciolo, come un segno di sostanziale continuità rispetto alle rispetto alle amministrazioni precedenti. Il celebre Yes we can di Obama è, in altri termini, solo l’ennesima fuga verso l’idealismo della tradizione americana. Una fuga che rispolvera orgogliosamente il mito dell’american dream, nel momento in cui sarebbe invece indispensabile prendere atto di una realtà segnata dallo spostamento dei poli geo-economici verso Est e dalla riduzione del potere economico occidentale. E, così, i molti tentennamenti di Obama in politica estera riflettono proprio il crescente iato fra le ambizioni dell’era unipolare e la crescente impotenza di Washington. D’altro canto, secondo la lettura di Caracciolo, che certo contribuisce a smontare non poco il mito del premio Nobel per la Pace Barack Obama, il nuovo presidente «non rifiuta il fine di Bush – un mondo ispirato all’America e da essa guidato». «Ne respinge la retorica imperiale. E ne scarta alcuni mezzi, come la guerra preventiva. Per convinzione, ma soprattutto perché non ci sono soldi per gettarsi in nuove avventure». Queste posizioni, però, non vanno confuse con un vero e proprio mutamento di rotta: «non vanno scambiati per una scelta strategica che significhi rinuncia al primato americano sul mondo. Obama sa che l’America non può fare da sola. Ha bisogno delle risorse altrui. Ma resta convinto che condividere il fardello non implichi spartire il potere» (ibi, p. 122). In sostanza, dunque, al di là di un’apparente discontinuità – che si è tradotta soprattutto nella sostituzione della nuova narrativa dei teatri del progresso a quella ormai logora dei teatri della paura – gli Stati Uniti non mutano né le direttrici del ruolo impegno internazionale, né i contorni della loro autorappresentazione. Anche Obama rimane allora intrappolato dentro le maglie di un’ideologia ormai sempre più in contrasto con l’effettiva potenza che Washington può mettere in campo. «L’America continua a combattere se stessa perché non vede alternative. Prigioniera della propria ideologia, Washington sta imponendosi una punizione che nessun nemico potrebbe sognare di infliggerle. Così scava un vuoto di potenza che nessuno è in grado di colmare. All’America non succede finora un altro egemone, mentre si aprono spazi contenibili – veri e propri buchi neri geopolitici – che medie o grandi potenze regionali cercano di occupare. Il ‘mondo post-americano’ non è cinese né multipolare. Non ha più poli egemoni, perché troppi aspirano a quel rango in nome di interessi e valori difficilmente mediabili. Insaziabili appetiti sconvolgono antichi equilibri senza produrne di nuovi. Restiamo in sede vacante» (ibi, p. XIV).
A dispetto dei miti della globalizzazione, l’ultimo decennio ci ha mostrato infatti che il mondo non è ‘piatto’ e neppure ‘unipolare’. E gli anni a venire ci confermeranno sempre più che si tratta di un sistema ‘a-polare’. Un sistema contrassegnato da una pluralità di centri di potere e di soggetti differenti, un sistema in cui la geo-politica torna a giocare un ruolo fondamentale, e in cui l’interdipendenza rende via via più complessa ogni ipotesi di governo del mondo. Come scrive Caracciolo: «viviamo in un ambiente più anarchico. I tentativi di imbracarlo non producono molto più dei teatrini mediatici con meno (G7) o più attori (G20), vestiti da esercizi di ‘multipolarismo’. Difficile spacciare tanta cacofonia per concerto di potenze. In meno di un decennio siamo passati dalla superpotenza solitaria alla semianarchia. Se proprio vogliamo imprimere a questo mondo un marchio, il meno improprio è forse quello che, rifiutando le mitografie consolatorie, ne constata la refrattarietà ad essere retto da un solo polo. O anche da più poli impegnati a ridurne la complessità. Nonché piatto, questo mondo è apolare. Segnato dalla diffusione della potenza. Ovvero dell’impotenza» (ibi, p. 126).
È proprio con la realtà di questo nuovo scenario che gli Stati Uniti e le potenze europee dovranno confrontarsi. Ma il punto è se le democrazie occidentali – tenute in scacco dai mercati, sempre più prive di risorse, sommerse da informazioni contrastanti, contagiate dall’emotività di opinioni pubbliche volubili, prive di radicamento organizzativo – siano in grado di elaborare davvero strategie di lungo periodo. E se abbiano ancora la capacità e il coraggio di deporre le suggestioni dell’idealismo e le seduzioni della retorica, per riconosce finalmente, senza infingimenti, la realtà di un mutamento radicale, che non coinvolge soltanto il ruolo internazionale degli Stati Uniti (e dell’Alleanza occidentale), o l’unità – politica e culturale – dell’Occidente, ma anche un modello di crescita economica e, dunque, un determinato assetto della società. Basato proprio sul ruolo centrale dell’«impero a credito», l’assetto delle società occidentali, prodotto non del ‘secolo americano’, bensì di quella trasformazione che ha preso avvio alla fine degli anni Settanta, non può infatti non andare in crisi mentre va in frantumi il sogno dell’egemonia globale di Washington. Naturalmente, ogni previsione sui tempi e sui modi in cui si realizzerà effettivamente il ‘declino’ richiede cautela. Ma il rischio principale è che proprio questo ‘declino’ – negato nella sostanza, frainteso nelle radici più profonde, sottostimato negli effetti – possa trascinare le nostre società verso il tracollo.

Damiano Palano 


Lucio Caracciolo, America vs America. Perché gli Stati Uniti sono in guerra contro se stessi, Laterza, pp. 193, euro 16.00.











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