giovedì 24 marzo 2011

L'enigma della crisi

di Damiano Palano

La riflessione di Samir Amin sulle dinamiche del capitalismo storico e sul rapporto fra Nord e Sud del mondo prende avvio già alla metà degli anni Cinquanta, con la stesura di L’Accumulation à l’échelle mondiale (trad.it. L’accumulazione su scala globale, Jaca Book, Milano, 1969), ma il nome dello studioso egiziano ha conosciuto una fortuna consistente – anche nel dibattito italiano – negli anni Settanta. Collocandosi con una posizione originale nella discussione sulle trasformazioni del capitalismo, Amin contribuisce infatti al ripensamento delle vecchie teorie dell’imperialismo, condotto per esempio da André Gunder Frank, Immanuel Wallerstein e Giovanni Arrighi. Da questo punto di vista, i punti fermi della sua analisi sono già presenti nell’Accumulazione su scala e nel suo testo probabilmente più noto (almeno in Italia), Lo sviluppo ineguale (trad. it. Einaudi, Torino, 1977). Da allora, Amin non ha cessato però di confrontarsi con le trasformazioni economiche globali e con i mutamenti dello scenario politico, seguendo con costante attenzione le relazioni fra Nord e Sud del mondo, la finanziarizzazione dell’economia mondiale e il mutamento degli assetti di potere. In questo volume, Amin riprende i fili della propria riflessione per proporre una lettura della crisi economica innescata dal crollo finanziario dell’estate del 2008. La tesi centrale del libro, in questo senso, non è sorprendente, perché scaturisce da una interpretazione consolidata che trova proprio nella crisi finanziaria una serie di conferme. In altri termini, la crisi contemporanea «costituisce la crisi del capitalismo imperialistico dei monopoli, il cui potere esclusivo e supremo rischia di venir messo in discussione ancora una volta dalle lotte sia del proletariato generale sia dei popoli e delle nazioni delle periferie dominate, anche se apparentemente ‘emergenti’» (p. 5). Più in particolare, Amin considera la crisi come l’esito della soluzione di un’altra crisi, la «seconda crisi sistemica del capitalismo», iniziata al principio degli anni Settanta. Il capitale – secondo Amin – ha risposto a quella crisi attraverso un duplice movimento di concentrazione e mondializzazione, e per questo il capitalismo contemporaneo si caratterizza come un capitalismo di oligopoli e come un imperialismo non più plurale, ma concentrato invece nei paesi della Triade (Usa, Europa, Giappone). La prima trasformazione incide dunque su una crescente centralizzazione del capitale (tanto che si può parlare di un «capitalismo di oligopoli generalizzati»), che spiega sia la transizione da più imperialismi tra loro in competizione a un imperialismo unitario della Triade, sia la finanziariazzazione dell’economia. La seconda trasformazione rilevante riguarda invece le risorse naturali del pianeta, diventate relativamente rare.
Gran parte della lettura di Amin si basa proprio sul nesso forte tra struttura oligopolistica del capitalismo contemporaneo e finanziarizzazione. In altre parole, la finanziarizzazione viene considerata come un riflesso degli interessi oligopolistici. «Di fatto», scrive per esempio, «la finanziarizzazione era vantaggiosa per il complesso degli oligopoli, e il 40% dei loro profitto derivava dalle sole operazioni finanziarie», e proprio la finanziarizzazione «permette loro di concentrare a proprio beneficio una proporzione crescente della massa di profitti realizzati nell’economia reale» (p. 31). Il mercato monetario e finanziario è perciò un mercato mediante il quale gli oligopoli prelevano la rendita di monopolio e si fanno concorrenza per spartirsi questa rendita. Ma l’effetto di questo meccanismo non può che essere negativo per l’economia reale e per la redistribuzione del reddito: «Il mercato degli investimenti produttivi (e perciò quello del lavoro) soffre sia per la riduzione della sua redditività diretta apparente (contropartita del prelievo operato a vantaggio della rendita degli oligopoli) sia per la riduzione della domanda finale (indebolita per la diseguaglianza nella distribuzione del reddito). In sostanza, allora, «il dominio degli oligopoli finanziarizzati rinchiude l’economia in una crisi di accumulazione del capitale, che è nello stesso tempo crisi della domanda (sotto-consumo) e crisi di reddititività» (p. 32).
Amin non esclude che la crisi possa risolversi in termini di continuità sostanziale con la fase oligopolistica, ma una simile soluzione dovrebbe passare comunque per un sostanziale intervento da parte degli Stati per il ‘risanamento’ dell’economia finanziaria, oltre che per un’accettazione da parte delle società coinvolte (e, in primo luogo, da parte dei lavoratori, vittime principali di queste scelte politiche). Da questo punto di vista, Amin ritiene che la resistenza opposta dai lavoratori alle politiche di risposta alla crisi non possa giungere a risultati significativi senza una rilevante unificazione del fronte conflittuale: «i lavoratori stanno già reagendo», scrive infatti, «ma se le loro lotte restano frammentate e prive di prospettive come lo sono ancora in gran parte, le proteste resteranno ‘controllabili’ dal potere degli oligopoli e degli Stati al loro servizio» (p. 33). Ovviamente, Amin confida che solo il recupero di una prospettiva socialista possa consentire ai diversi fronti conflittuali di trovare fra loro una serie di punti sutura, ed è proprio in questa direzione che auspica una «seconda ondata» socialista (di cui non nasconde certo le difficoltà).
Se i diversi saggi raccolti nel volume sono tenuti insieme da questa lettura generale e da una prospettiva politica di critica radicale del capitalismo contemporaneo, l’aspetto forse più interessante dell’analisi di Amin è forse costituito dalla sua analisi dello sviluppo economico cinese e del ruolo che la Cina potrà svolgere nei prossimi decenni. In effetti, Amin individua una divaricazione netta fra il capitalismo storico europeo e il capitalismo cinese, una divaricazione che impone di ripensare l’idea degli stadi di evoluzione delle società umane, ma anche di cogliere le peculiarità del capitalismo cinese. Nella lettura di Amin, lo sviluppo capitalistico cinese presentava (fino al momento della sua soppressione, da parte dell’imperialismo) caratteri ben diversi da quello europeo: infatti, «si basava sull’affermazione e non sull’abolizione dell’accesso alla terra per i contadini, con la scelta di intensificare la produzione agricola e di sparpagliare le manifatture industriali nelle zone rurali» (p. 44). Inoltre, il grande impero cinese costituisce un’eccezione nella storia del capitalismo, perché, anche in virtù della struttura non fonetica ma concettuale della scrittura cinese, è risultato sostanzialmente impermeabile alla penetrazione occidentale e ha consolidato un solido potere su una enorme massa continentale. Il Rinascimento cinese, cinque secoli prima di quello europeo, libera di fatto la Cina dalla religione e inaugura uno stagione di sviluppo capitalistico, non solo più lento rispetto a quello occidentale, ma fondato anche «sul continuo intensificarsi della produzione agricola», «chiuso su se stesso e non di conquista». Una simile ‘eccezionalità’ aiuta a spiegare – secondo Amin – le tappe della rivoluzione cinese, ma serve anche a illustrare il ruolo che la Cina potrebbe svolgere in futuro. È infatti piuttosto interessante che lo studioso egiziano – discostandosi anche dalle letture di gran parte degli economisti critici – consideri la Cina contemporanea come l’unica forza ‘progressista’, in grado di opporsi al capitalismo degli oligopoli della Triade. Da questo punto di vista, lo sviluppo economico cinese continua, per Amin, a presentare caratteri ‘eccezionali’ e a non essere caratterizzato da quella costituiva tendenza all’espropriazione che contrassegna invece quello occidentale. Ed è per questo motivo che, nella Postfazione dell’aprile 2009, può scrivere, concludendo la propria analisi (con formule che non possono che apparire piuttosto singolari a un lettore occidentale): «La Cina da parte sua ha avviato la costruzione – progressiva e controllata – di sistemi finanziari regionali alternativi non fondati sul dollaro. Sono iniziative che completano sul piano economico le nuove alleanze politiche del ‘gruppo di Shangai’, l’ostacolo maggiore al bellicismo della Nato. Si potrà ripetere fino alla nausea che i dirigenti di Pechino non sono altro che dei ‘nazionalisti egoisti’. Ma i loro obiettivi sono convergenti con gli interessi di tutti i paesi del Sud, e quindi dell’umanità intera» (p. 204). In queste formule, certo non è difficile cogliere elementi ricorrenti nel pensiero di Amin fin dagli anni Settanta, declinati nel nuovo contesto geo-politico. E, soprattutto, non è difficile cogliere, nell’idea che il capitalismo cinese sia strutturalmente ‘diverso’ da quello occidentale, una nuova versione – in fondo molto ‘novecentesca’ – delle speranze (oltre che delle illusioni) coltivate negli anni Sessanta e Settanta dalle leadership progressiste del Sud del mondo.

Damiano Palano




Samir Amin, La crisi. Uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi?, Punto Rosso, Milano, 2010, pp. 205.

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