domenica 29 novembre 2020

L'incubo della "Bomba" che formò le nuove generazioni. L'Occidente di fronte alla "questione nucleare" nel libro di Laura Ciglioni "Culture atomiche" (Carocci)

di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Laura Ciglioni, Culture atomiche. Gli Stati Uniti, la Francia e l'Italia di fronte alla questione nucleare (1962-1968) (Carocci, Roma, pp. 404, euro 39.00), è apparsa sul quotidiano "Avvenire" il 27 novembre 2020.  

«Vedremo soltanto una sfera di fuoco più grande del sole, più vasta del mondo, nemmeno un grido risuonerà, e solo il silenzio come un sudario si stenderà». Nel 1966, con Noi non ci saremo dei Nomadi, le paure legate a un possibile olocausto nucleare approdavano nella musica leggera italiana. Ma l’incubo di una guerra atomica era già da tempo entrato nella discussione pubblica, conquistando anche le copertine dei rotocalchi, le storie dei fumetti, le sceneggiature cinematografiche. Una vasta e meticolosa ricerca su come fu vissuto in Occidente l’ingresso nell’«era atomica» è proposta dal ricco volume di Laura Ciglioni, Culture atomiche. Gli Stati Uniti, la Francia e l’Italia di fronte alla questione nucleare (1962-1968) (Carocci, pp. 403, euro 39.00): un libro che non si limita a ricostruire le discussioni politiche o i dibattiti condotti nell’ambito della ‘cultura alta’, ma passa sistematicamente in rassegna settimanali popolari, film, romanzi di fantascienza e molto altro, senza dimenticare i sondaggi di opinione. 

L’obiettivo della studiosa è infatti ricostruire le «culture nucleari», ossia «le mentalità, gli stati d’animo diffusi e gli orientamenti dell’opinione pubblica nella loro articolazione intorno a una questione politica». I differenti approcci con cui l’Occidente fece ingresso nell’«era atomica» risentivano ovviamente del contesto della Guerra fredda, ma al loro interno riaffioravano anche eredità più antiche, legate alle singole identità nazionali. E, mostrando il peso di queste componenti, la ricerca è molto utile anche per ridimensionare l’idea che l’opinione pubblica non abbia alcun ruolo nelle grandi decisioni di politica estera.

L’indagine si focalizza su Stati Uniti, Francia e Italia, e cioè su tre paesi che – pur facendo parte della comunità occidentale – nutrivano ambizioni internazionali ben diverse. Anche per questo, come mostra Ciglioni, il loro modo di affrontare le ambivalenze dell’«Atomic Age» non fu il medesimo. Negli Usa la percezione di essere entrati in una nuova stagione si delineò immediatamente, ancora prima che la Seconda guerra mondiale si chiudesse davvero. E subito vennero a intrecciarsi atteggiamenti ambivalenti, in cui l’angoscia si combinava con l’ansia di rigenerazione, e che l’industria dell’intrattenimento non tardò a sfruttare in molteplici direzioni. Quando nel 1962 la crisi dei missili di Cuba spinse il mondo sull’orlo di un conflitto nucleare, l’opinione pubblica americana aveva dunque già ampiamente familiarizzato con il tema. E il dibattito che si svolse negli anni Sessanta affrontò i problemi dell’era atomica in gran parte rilanciando schemi già definiti da tempo, che per esempio vedevano nel nucleare la nuova frontiera dello spirito americano, o che invece sottolineavano i rischi che derivavano dall’essere una superpotenza. Ma, anche se l’ottimismo fu incrinato dai dubbi e dalle critiche dei pacifisti, rimase comunque sempre piuttosto robusta la fiducia riposta nello sviluppo dell’energia nucleare.

In Francia le inquietudini emersero molto presto, e a sollevarle fu per esempio, subito dopo la guerra, Albert Camus, che scrisse che l’umanità si trovava ormai al bivio «tra l’inferno e la ragione». Ma dopo la crisi di Suez gran parte dell’opinione pubblica si persuase che il paese dovesse volgersi al nucleare, in grado di compensare la perdita del ruolo di potenza coloniale e dunque di scongiurare l’uscita dal novero delle «grandi potenze». Non solo la costruzione di un arsenale atomico, ma anche lo sviluppo del nucleare per obiettivi civili vennero percepiti come priorità indispensabili per la conservazione dell’indipendenza nazionale. Ma, più in generale, attorno all’atomo si coagularono le speranze di rigenerazione, radicate in una salda fede nella scienza, oltre che in una forte identità nazionale, e destinate a orientare la discussione fino al termine della Guerra fredda.

Un sentiero molto differente fu invece percorso dall’Italia, in cui per molto tempo la «questione nucleare» era rimasta del tutto marginale, forse anche perché si volevano dimenticare i traumi della guerra. Come negli anni altri paesi occidentali, anche qui le bombe di Hiroshima e Nagasaki avevano impresso una cesura ben più che semplicemente politico-militare. Ma al principio degli anni Sessanta gli italiani parevano ancora molto poco informati sui rischi dell’era atomica, e la discussione risultava segnata così da una sorta di ‘rimozione’ del problema. Progressivamente, il lancio dello Sputnik sovietico, lo scoppio della prima bomba francese nel 1960, la sperimentazione della «superbomba» sovietica nel 1961, oltre che la crisi dei missili di Cuba, modificarono la situazione. Ma iniziarono anche a rafforzare una percezione negativa dell’energia nucleare, alimentata peraltro dal clamore nato attorno al cosiddetto «caso Ippolito» e dalle accuse di sprechi e inefficienze indirizzate all’ente incaricato di promuovere il nucleare per fini civili. La rinuncia a dotarsi di un arsenale atomico da parte dell’Italia, sancita con il Trattato di non proliferazione, fu così accolta in termini sostanzialmente positivi dalla maggioranza degli italiani, anche se di fatto ciò comportava una retrocessione del paese a potenza di ‘secondo rango’. L’atteggiamento nei confronti della guerra era stato modificato in profondità anche dal magistero della Chiesa, oltre che dalla formazione di una «coscienza atomica» più consapevole.  Come mostra Ciglioni, la speranza di una rigenerazione nazionale da conseguire in questo modo fu così del tutto assente e gli entusiasmi sempre piuttosto limitati. Prevalsero in gran parte le inquietudini, i sospetti e una vera propria ostilità. Che probabilmente ebbero più di qualche ruolo anche nel referendum popolare svoltosi molto tempo dopo, nel 1987, quando gli elettori italiani decisero di rinunciare alle centrali nucleari.

 Damiano Palano

 

 

 

 

 

 

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