domenica 11 ottobre 2020

Così la democrazia è caduta nella rete. 4 consigli di lettura sulla politica e le insidie di Internet (McNamee, Kaiser, Hindman, Barberis)


di Damiano Palano

Questa breve rassegna è apparsa su quotidiano "Avvenire" il 21 luglio 2020.

Quando nel 2017 Mark Zuckerberg diffuse un documento in cui dichiarava che l’obiettivo di Facebook era «creare una comunità globale che vada bene per tutti», molti vi videro un manifesto che preannunciava la discesa in politica del giovane imprenditore. Senza dubbio si trattava però anche del tentativo di neutralizzare la tesi secondo cui la piattaforma aveva avuto qualche ruolo nel referendum sulla Brexit e nelle elezioni presidenziali americane del 2016. In effetti, dopo lo shock di quei due appuntamenti l’ottimismo con cui si era guardato alla rivoluzione digitale è stato ridimensionato. E una fitta letteratura ha messo sul banco degli imputati proprio i social network.


Una requisitoria piuttosto severa è per esempio avanzata da Roger McNamee in Zucked. Come aprire gli occhi sulla catastrofe di Facebook (Nutrimenti, pp. 351, euro 17.00), un testo che punta a mettere in luce le logiche operative che renderebbero la piattaforma una minaccia per le istituzioni democratiche, per la salute pubblica, la privacy e la concorrenza. Tutto ciò non avverrebbe per effetto di un disegno preordinato, ma si tratterebbe piuttosto della conseguenza indesiderata di strategie elaborate con l’obiettivo primario di attrarre l’attenzione degli utenti e dunque per ottenere profitti. Isolando gli utenti in bolle di filtraggio, esponendoli a violazioni della privacy, esautorandoli della stessa facoltà di decidere autonomamente, le piattaforme secondo McNamee, avrebbero però «involontariamente fornito un’arma tramite cui soggiogare i più deboli». E proprio per questo i social media sarebbero addirittura «il veicolo per le più grandi minacce all’ordine globale». 


Anche il memoriale di Britanny Kaiser, La dittatura dei dati (Harper Collins, pp. 429, euro 20.00) contribuisce a rafforzare questa immagine piuttosto fosca, perché la giovane consulente politica racconta l’esperienza in Cambridge Analytica, nel periodo cruciale in cui la società fu coinvolta nelle campagne per l’uscita del Regno Unito dall’Ue e per l’elezione di Trump alla Casa Bianca. E in questo senso fornisce una chiara esemplificazione di come i big data possano essere utilizzati per manipolare i cittadini, facendo leva sulle loro paure e sulla percezione di insicurezza.


Un quadro molto dettagliato, e in alcuni passaggi decisamente tecnico, è invece presentato da Matthew Hindman nel volume La trappola di internet. Come l’economica digitale costruisce monopolî e mina la democrazia (Einaudi, pp. 286, euro 22.00). In tal caso lo sguardo si dirige soprattutto sulle logiche dell’«economia dell’attenzione» e sulle sue implicazioni. In particolare, Hindman invita a riconoscere come la realtà di internet – quella nella quale ci muoviamo ormai quotidianamente – non corrisponda a quella idealizzata, romanzata, secondo cui la rete contribuirebbe a democratizzare la comunicazione e la vita economica. Nella rete immaginaria il pubblico si distribuisce infatti tra una miriade di siti in modo piuttosto omogeneo. Ma nella realtà il pubblico tende ormai a concentrarsi in gran parte su alcuni grandi operatori, che costituiscono di fatto gruppi monopolistici. In altre parole, le economie di scala e il targeting tornano a favorire le grandi dimensioni, proprio come nella vecchia era industriale. Senza però che vi siano regole in grado di arginare il fenomeno.



In questo dibattito, inevitabilmente destinato a infittirsi nel prossimo futuro, si inserisce anche la riflessione di Mauro Barberis, che fin dal titolo del suo libro più recente – Come internet sta uccidendo la democrazia (Chiarelettere, pp. 215, euro 16.00) – propone una tesi radicale. Secondo lo studioso il mutamento intervenuto con l’ingresso degli smartphone non avrebbe modificato solo il nostro rapporto con la tecnologia, ma avrebbe provocato una trasformazione radicale anche nell’ambiente in cui le istituzioni si trovano a operare. La più evidente conseguenza della rivoluzione digitale sarebbe innanzitutto il populismo, o, meglio, il «neopopulismo digitale». La diffusione degli smartphone e la contemporanea esplosione della comunicazione sui social innescano infatti lo spostamento verso una diversa logica comunicativa, in cui prevalgono il tribalismo, i pregiudizi di conferma, le tendenze a sopravvalutare le proprie conoscenze e altri effetti distorsivi. Il nuovo ambiente comunicativo offrirebbe così una straordinaria occasione a forze antidemocratiche, che – pur senza disporre delle enormi risorse finanziarie che in passato sarebbero state necessarie – possono puntare a conquistare il potere semplicemente concentrandosi su campagne online capaci di veicolare insoddisfazione, risentimento, protesta. La soluzione – sottolinea Barberis – non può essere comunque quella di ‘disconnettersi’ dalla rete. Ma consiste piuttosto nell’elaborare regole in grado di vincolare i nuovi poteri. Per esempio, ponendo limiti più stringenti alle grandi piattaforme ed equilibrando regolamentazione e libertà. O anche impedendo il ricorso ai social da parte di chi ricopre cariche istituzionali, con l’obiettivo di ostacolare un circolo vizioso difficilmente gestibile.


Un quadro così cupo contrasta naturalmente con l’immagine che a lungo abbiamo coltivato della rivoluzione digitale. Ma è evidente che gli smartphone, i social network e la connessione pressoché costante alla rete hanno davvero cambiato l’ambiente in cui ci troviamo a vivere e persino il nostro modo di interagire con i nostri simili. Per molti versi – lo abbiamo imparato ancora di più nel lungo isolamento imposto dal Covid – non possiamo più neppure immaginare un mondo differente. Ed è proprio per questo che dovremmo davvero iniziare a pensare a nuova divisione dei poteri, capace di controllare – se non di neutralizzare – quelle forze che negli ultimi anni sono cresciute sotto i nostri occhi, spesso senza che ne fossimo del tutto consapevoli.

Damiano Palano

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