martedì 19 novembre 2019

Quando la democrazia dei partiti cominciò a precipitare. "Governare il vuoto" di Peter Mair



di Damiano Palano


La crisi dei partiti non sembra destinata a invertirsi e pare invece lasciare sempre più spazi vuoti all'avanzata di quello che spesso chiamiamo "populista". Tra i più lucidi studiosi a cogliere questa tendenza era stato il politologo irlandese Peter Meier. Di seguito, viene riproposta una recensione al libro di Meier,
Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti (Rubbettino, pp. 166, euro 14.00) è apparsa su "Avvenire" il 2 agosto 2016.


Proprio mezzo secolo fa, nel 1966, il politologo tedesco Otto Kirchheimer iniziò a intravedere i primi segnali della trasformazione che stava investendo i partiti di massa. L’avvento della società del benessere, l’attenuazione del conflitto di classe e l’indebolimento delle grandi appartenenze stavano infatti modificando l’ambiente in cui le grandi organizzazioni politiche erano nate alla fine dell’Ottocento. E proprio per rispondere a questi mutamenti, i partiti di massa cominciavano allora a tramutarsi in catch-all-parties, in partiti «pigliatutti», che puntavano cioè a conquistare voti non più soltanto in uno specifico segmento della società, contrassegnato da una forte identificazione ideologica e subculturale, bensì in tutti i settori. In questo modo venivano abbandonati i più ambiziosi ideali di trasformazione sociale, mentre tutte le energie venivano indirizzate verso l’obiettivo della vittoria elettorale e le risorse concentrate nell’attività di comunicazione.



A cinquant’anni di distanza, non è certo difficile riconoscere come le previsioni di Kirchheimer avessero intuito, con indubbia lungimiranza, molte delle trasformazioni successive. E il volume di Peter Mair, Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti (Rubbettino, pp. 166, euro 14.00), costituisce da questo punto di vista un prezioso aggiornamento di quelle antiche ipotesi. Un aggiornamento che mostra dove abbiano condotto quelle tendenze e, soprattutto, quali rischi esse comportino. Sulla base dell’esperienza maturata in un’intera carriera di studi, il politologo irlandese – scomparso prematuramente nel 2011 – si chiede infatti se, insieme ai partiti di massa (e a ciò che ne rimane), non sia destinata a essere messa in discussione anche la stessa forma democratica dei sistemi politici occidentali. In particolare, secondo Mair, la corrosione delle basi su cui si fondano i contemporanei regimi democratici è imputabile allo svuotamento dello spazio in cui cittadini e rappresentanti politici si trovano a interagire: questo spazio era in passato occupato proprio dai partiti, ma ora rimane sempre più sguarnito. Le cause sono in primo luogo da ricercare nel crescente disimpegno dei cittadini, di cui sono tracce (non sempre però così chiaramente interpretabili) il calo della partecipazione elettorale, l’instabilità del comportamento di voto e l’emorragia di iscritti di cui hanno sofferto pressoché tutti i partiti europei. Accanto a questo primo fattore si accompagna però anche la simmetrica tendenza al disimpegno che coinvolge le élite politiche. In altri termini, i partiti hanno quasi del tutto abdicato alla funzione di rappresentanza delle istanze sociali, assunte invece da altre agenzie. E, al tempo stesso, hanno privilegiato – in termini pressoché esclusivi – la ricerca di ruoli di governo (a livello locale e nazionale). Il ‘corpo’ dei partiti, costituito dalla rete organizzativa diffusa sul territorio, si è così progressivamente atrofizzato fino a diventare esilissimo. Mentre è cresciuta la ‘testa’, stabilmente insediata dentro le istituzioni rappresentative. I grandi partiti assumono così le sembianze di ‘agenzie dello Stato’, specializzate nel compito di reclutare il personale politico, ma del tutto incapaci di stabilire un solido rapporto (fiduciario e identitario) con la società. Per questo, scrive Mair, quella che si profila all’orizzonte «è una nuova forma di democrazia in cui i cittadini rimangono a casa mentre i partiti vanno a governare».
Le previsioni di Mair – che i travagli vissuti dell’Unione europea negli ultimi anni hanno ampiamente confermato – sono in realtà ancora più cupe. Nello spazio ‘svuotato’ dal disimpegno di élite e cittadini, vanno a infatti collocarsi tanto la protesta ‘populista’ contro l’establishment, quanto la tentazione di ‘depoliticizzare’ le democrazie, ossia di trasferire le decisioni più importanti verso arene sottratte agli umori di elettorati sempre più imprevedibili. Simili soluzioni non possono però davvero colmare il fossato aperto dalla scomparsa di quell’appartenenza comune che cittadini e leader politici condividevano grazie ai partiti di massa. Proprio per questo i nostri sistemi rappresentativi rischiano allora di scivolare nella voragine sempre più profonda aperta dalla fine della «democrazia di partiti». E di precipitare nel vuoto della società liquida.

Damiano Palano


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