martedì 23 luglio 2019

Nell’empatia la chiave della «biologia del potere». Un libro di Jean-Didier Vincent




di Damiano Palano


Questa recensione a volume di Jean-Didier Vincent, Biologia del potere (Codice, pp. 201, euro 20.00) è apparsa sul quotidiano "Avvenire".


Nel 1975 l’entomologo Edward O. Wilson pubblicava un ambizioso trattato in cui delineava i contorni di una nuova disciplina, volta a fornire una nuova interpretazione del comportamento sociale di ogni specie. Nel proposito dello studioso, la «sociobiologia» poteva consentire di raggiungere una «nuova sintesi» tra le scienze naturali e le scienze umane, riconducendo tutti i comportamenti sociali all’esigenza comune della ricerca di una migliore efficienza genetica. Si trattava di una proposta radicale, che peraltro si combinava con la fortuna che in quegli anni conoscevano le ricerche etologiche di Konrad Lorenz e libri di grande popolarità come La scimmia nuda di Desmond Morris. Quella fortuna nasceva anche dalla reazione all’ambizione di costruire l’«uomo nuovo» e di riprogettare ‘razionalmente’ l’ordine sociale. Dinanzi a simili speranze, la «sociobiologia» di Wilson, così come l’etologia di Lorenz, invitava a diffidare dell’idea che l’essere umano fosse una tabula rasa. In un’ottica rigidamente evoluzionistica, Wilson assegnava peraltro un ruolo centrale al concetto di dominanza: ai suoi occhi la definizione delle relazioni gerarchiche era infatti vitale per la capacità di un gruppo di darsi un’organizzazione e dunque per mettere in atto comportamenti aggressivi (necessari alla sopravvivenza). Comprensibilmente, la proposta della «nuova sintesi» incontrò però più di qualche obiezione. In larga parte gli scienziati sociali rimproverarono a Wilson una visione determinista del rapporto tra natura e cultura: in sostanza, la produzione culturale – nelle sue differenti articolazioni – perdeva qualsiasi autonomia, mentre il comportamento sociale della «scimmia nuda» finiva con l’essere affiancato a quello di una colonia di polli. E proprio per questo l’idea della «nuova sintesi» non fu raccolta dagli studiosi della politica e della società.

Negli ultimi due decenni, i progressi conseguiti nel campo delle neuroscienze hanno però reso nuovamente attuale la domanda sulla possibilità di una «nuova sintesi». E un modo per accostarsi alla portata della sfida è il volume di Jean-Didier Vincent, Biologia del potere (Codice, pp. 201, euro 20.00). Anche se il neurobiologo francese non esita a ricorrere ai risultati condotti su macachi e altre scimmie, la distanza dalla «sociobiologia» di Wilson è netta, non solo sotto il profilo del metodo, ma anche per le ipotesi principali, che riconoscono ampiamente la specificità dell’«animale uomo». Didier non abbandona il concetto di dominanza, ma ritiene che per comprendere davvero i gruppi umani si debba adottare un’idea di leadership più complessa e strettamente connessa al «cervello sociale». In sostanza, una parte rilevante dell’attività cerebrale che contrassegna specificamente gli esseri umani (e, in misura minore, alcuni primati) è legata al mondo sociale in cui l’individuo è inserito. Il tratto fondamentale del cervello sociale è così rappresentato dall’empatia: la capacità che gli individui hanno di accedere al cervello degli altri ‘mettendosi nei loro panni’. E, secondo Vincent, è proprio l’empatia a fornirci la chiave per comprendere la «biologia del potere» e le sue ambivalenze.




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