venerdì 5 aprile 2019

Dopo la fine della Storia, il ritorno delle tribù. "Identità" di Francis Fukuyama



di Damiano Palano



Questa recensione al libro di Francis Fukuyama, "Identità" (Mondadori), è apparsa il 15 marzo 2019 sul quotidiano "Avvenire".

Il nome di Francis Fukuyama rimarrà probabilmente sempre associato a uno slogan fortunato. Nel 1989, pochi mesi prima che il blocco sovietico si dissolvesse, l’analista nippo-americano scrisse infatti sulla rivista «Foreign Affairs» un breve articolo intitolato Siamo forse alla fine della Storia? grazie al quale avrebbe conquistato una pressoché immediata notorietà. La formula della «fine della Storia» riusciva infatti a cogliere lo spirito del tempo. E così divenne nel giro di pochi mesi estremamente popolare, sollevando al tempo stesso severe obiezioni. Ai numerosi critici di Fukuyama, l’idea che la storia fosse finita sembrò per lo più solo un’illusione molto ingenua. Ma a questi lettori sfuggivano alcune sfumature importanti. Quando evocava la fine della Storia – come avrebbe chiarito nel ben più corposo libro uscito tre anni dopo – Fukuyama riprendeva infatti quanto Hegel aveva scritto nel 1806 all’indomani della battaglia di Jena, a proposito degli ideali della Rivoluzione francese. In questa visione, la Storia era dunque un «processo evolutivo unico e coerente», che, percorrendo molteplici tappe, si indirizzava verso istituzioni e principi in grado di risolvere finalmente i problemi dell’umanità. Per Hegel questa condizione coincideva con lo Stato liberale, che con la vittoria delle truppe francesi a Jena si era definitivamente affermato. Marx avrebbe poi proiettato la fine della Storia nel futuro della società comunista. Per Fukuyama la fine della Storia era invece sancita dalla vittoria della democrazia liberale, che, dopo il 1989, poteva profilarsi ormai come «il punto di arrivo dell’evoluzione ideologica dell’umanità» e come «la definitiva forma di governo tra gli uomini». Ai suoi occhi, quell’assetto aveva peraltro un grande pregio, perché consentiva a ciascun individuo di soddisfare la sete di riconoscimento nella pacifica competizione politica e nello scambio economico. Ma nelle pagine finali Fukuyama si chiedeva se questo genere di sublimazione del thymòs fosse davvero sufficiente.

Trent’anni, nel suo nuovo libro Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi (Utet, pp. 236, euro 19.00), Fukuyama torna a quella domanda. Ovviamente il contesto politico è oggi molto diverso da allora. L’ordine internazionale liberale mostra crepe evidenti e nuove autocrazie si affacciano sulla scena globale. La più clamorosa testimonianza di questo disagio rimane la vittoria elettorale di Donald Trump. Per ironia della sorte, Fukuyama, in un passaggio incidentale della Fine della storia, aveva indicato proprio il miliardario newyorkese come esempio di un individuo eccezionalmente ambizioso che aveva incanalato il proprio desiderio di riconoscimento in un’attività imprenditoriale di successo. Mentre oggi – certo non solo perché l’ambizione di Trump lo ha condotto oltre la soglia della Casa Bianca – sembra che la liberaldemocrazia non sia più sufficiente a garantire pacificamente il desiderio di riconoscimento degli individui.

Il libro è infatti un tentativo di spiegare l’ascesa del «populismo globale» e, più in generale, l’emergere di una sorta di nuovo ‘tribalismo’ che punta alla difesa (o all’affermazione) di specifiche identità. Naturalmente il politologo non trascura la rilevanza dei processi economici, ma ritiene comunque che la dimensione economica non sia sufficiente a dar conto del divampare, in tutto il globo, del «risentimento». La chiave deve essere ritrovata invece proprio in una domanda di riconoscimento, che può presentare aspetti economici, ma che non si limita ad essi. Per dare un sostegno alle proprie argomentazioni, Fukuyama costruisce una suggestiva teoria dell’agire umano, che combina Platone, Rousseau ed Hegel. Ma, al di là del rigore filologico dei suoi riferimenti, l’intento è dimostrare che la gran parte delle turbolenze che attraversano la politica mondiale – e non solo quella occidentale – scaturiscono del desiderio di vedere riconosciuta un’identità individuale o di gruppo. La politica dell’identità praticata nei campus americani, il suprematismo bianco, il ritorno del vecchio nazionalismo e gli usi politici dell’Islam sarebbero tutti in sostanza espressione di una domanda di riconoscimento che secondo Fukuyama – a dispetto di quanto sosteneva trent’anni fa – non possono trovare soddisfazione solo nella competizione economica e nella dimensione del mercato. Il risentimento di oggi non si limita però a portare di nuovo sulla scena il thymós, ossia quella parte dell’anima che secondo Platone era sede dell’orgoglio. La richiesta di riconoscimento della propria identità riflette questa componente, ma con una differenza ulteriore, che emerge solo sul finire del Settecento, proprio con Rousseau. E cioè la convinzione che ciascuno di noi abbia un io interiore degno di rispetto, e che la società esterna, se non lo riconosce, sia in errore.

Benché la democrazia liberale affermi (almeno teoricamente) la pari dignità di tutti i cittadini, una serie di trasformazioni – i flussi migratori, i mutamenti demografici, l’impatto della globalizzazione e ulteriori dinamiche – ha innescato la richiesta di riconoscimento da parte di gruppi in precedenza ‘invisibili’. E queste istanze hanno alimentato il risentimento di settori sociali che si sono sentiti soppiantati. Il risultato è che, da entrambe le parti, ci si è rinchiusi all’interno di recinti identitari sempre più ristretti e autoreferenziali. Ma in questo modo si è indebolito il tessuto identitario condiviso. Per fronteggiare la progressiva ‘tribalizzazione’ della società, non è comunque sufficiente, secondo Fukuyama, evocare un vago scenario cosmopolitico. È invece necessario ripartire proprio dalle identità, non per dividere, ma ripensandole e riplasmandole per integrare. E soprattutto ritiene non si debba mai dimenticare che, senza il sostegno offerto dalla convinzione di appartenere a una «comunità di destino», nessuna democrazia può sopravvivere a lungo.



 Damiano Palano

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