martedì 12 giugno 2018

Se il migrante diventa un'arma. Un libro di Kelly M. Greenhill sull'utilizzo delle migrazioni come strumento di condizionamento politico



di Damiano Palano

In questi giorni la vicenda della nave Aquarius ha riaperto la discussione sull'utilizzo delle migrazioni come strumento di condizionamento politico. Non si tratta infatti di un caso inedito perché in diverse occasioni i flussi migratori - reali o minacciati - sono diventati strumenti con cui gli Stati hanno richiesto e ottenuto vantaggi economici o politici. A questo proposito, "Maelstrom" ripropone una recensione al volume di Kelly M. Greenhill, Armi di migrazione di massa. Deportazione, coercizione e politica estera (Leg, pp. 482, euro 20.00), apparsa sul quotidiano "Avvenire" il 6 giugno 2017.

Nel 1979, durante uno storico incontro con Deng Xiaoping, il presidente americano Jimmy Carter pose la questione del mancato rispetto dei diritti umani da parte della Repubblica Popolare. E dichiarò che, se il regime non avesse concesso ai propri cittadini la possibilità di emigrare senza restrizioni, gli Stati Uniti non avrebbero potuto commerciare liberamente con la Cina. La replica di Deng lasciò però Carter letteralmente disarmato: «Va bene. Allora, esattamente quanti cinesi le piacerebbe avere, signor presidente? Un milione? Dieci milioni? Trenta milioni?». La minaccia di Deng non si concretizzò mai. Ma l’episodio – ricordato da Zbigniew Brzezinski – può essere considerato come una testimonianza della fragilità che le democrazie liberali spesso mostrano dinanzi alla prospettiva di essere investiti da flussi migratori di massa. Una fragilità che, in qualche caso, può essere sfruttata politicamente da alcuni Stati per ottenere concessioni, o comunque per esercitare pressione.
Proprio a questo tema è dedicato il volume di Kelly M. Greenhill, Armi di migrazione di massa. Deportazione, coercizione e politica estera (Leg, pp. 482, euro 20.00). Greenhill sostiene infatti che, almeno in alcuni casi, le migrazioni progettate coercitive – ossia movimenti transfrontalieri deliberatamente creati o manovrati da Stati o organizzazioni non statali – possano essere sfruttate per ottenere concessioni politiche, militari ed economiche. Nel periodo compreso tra il 1951 e il 2010, la politologa ne riconosce ben cinquantasei casi. Le proporzioni della popolazione coinvolta e lo stesso profilo degli attori protagonisti furono ovviamente, di volta in volta, molto diversi. Nel 1953, l’allora cancelliere della Repubblica Federale tedesca Konrad Adenauer tentò per esempio di sfruttare l’improvviso afflusso di circa trecentomila profughi dalla Germania Est (dipinto come un deliberato piano di destabilizzazione ordito dall’Unione Sovietica) per ottenere aiuti straordinari dagli Stati Uniti. Un caso analogo vide protagonista l’Austria, che nel 1956 dichiarò che non avrebbe più accolto i rifugiati in fuga dall’Ungheria, se gli Stati Uniti non avessero fornito un consistente supporto finanziario per la gestione dell’emergenza. In altre occasioni le migrazioni furono invece direttamente innescate (o favorite) da parte di chi esercitava la pressione. Fidel Castro alimentò per esempio varie volte i flussi di profughi cubani verso la Florida per riaprire la contrattazione con Washington. E nel 1993 l’ex presidente haitiano Jean-Bertrand Aristide ebbe probabilmente un ruolo nel promuovere quell’afflusso di boat people verso le coste degli Stati Uniti che indusse l’amministrazione Clinton a intervenire nell’isola.
Il testo di Greenhill offre sicuramente una chiave di lettura. Ma – è importante sottolinearlo – i suoi risultati non possono essere fraintesi. In particolare, i flussi di profughi e migranti che negli ultimi anni hanno investito l’Europa non possono essere considerati semplicisticamente come il frutto di un deliberato calcolo politico, diretto a indebolire il Vecchio continente mediante una «bomba demografica». Anche se certo alcuni attori hanno tentato di utilizzare e manipolare quei flussi per ottenere benefici (non solo economici). Quasi sempre la coercizione per mezzo di migrazione sfrutta d'altronde flussi innescati da altri processi (spesso ben più complessi). Inoltre questo strumento di pressione – come mette in luce la politologa – riesce a far leva sul fatto che, nelle democrazie liberali, la popolazione tende a considerare la limitazione dei flussi migratori come un imperativo molto più rilevante rispetto a qualsiasi altra questione di politica estera. Al tempo stesso, gli Stati democratici considerano spesso troppo elevato ciò che Greenhill chiama il «costo dell’ipocrisia», ossia il costo in termini di credibilità e reputazione derivante dal mancato rispetto di quei diritti che pure vengono solennemente dichiarati inviolabili. Proprio una simile debolezza rende infatti gli Stati occidentali bersagli sensibili alla minaccia di diventare oggetto di flussi migratori. E dunque spesso disponibili ad accogliere le richieste di quegli attori che usano i migranti come un’arma per ottenere concessioni.

 Damiano Palano


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