mercoledì 9 maggio 2018

La tragedia rimossa, Rileggere un libro di Angelo Ventrone a quarant'anni dalla morte di Aldo Moro




di Damiano Palano

In occasione del quarantennale dalla morte di Aldo Moro, "Maelstrom" ripropone la lettura di un libro di Angelo Ventrone apparsa qualche tempo fa.

«Ne abbiamo visti davvero tanti / di manganelli e scudi romani / però s’è visto anche tante mani / che a cercar pietre / cominciano ad andar. / Tutta Torino proletaria / alla violenza della questura / risponde ora, senza paura: / la lotta dura bisogna far. / E no ai burocrati e ai padroni! / Cosa vogliamo? Vogliamo tutto! / Lotta continua a Mirafiori / e il comunismo trionferà. / E no ai burocrati e ai padroni! / Cosa vogliamo? Vogliamo tutto! / Lotta continua in fabbrica e fuori e il comunismo trionferà». Riascoltare oggi la Ballata della Fiat, e soprattutto rileggere i versi scritti da Alfredo Bandelli, rappresenta un esercizio utile per chiunque intenda accostarsi alla storia italiana degli anni Settanta e, in particolare, per quanti – non avendo vissuto quel periodo, e avendone solo una memoria indiretta – puntino a ricostruire i frammenti dell’immaginario di cui si alimentò l’estrema sinistra per più di un decennio. La ballata della Fiat, come d’altronde molte altre delle canzoni stese in quel periodo dai ‘cantautori militanti’ vicini a Lotta continua, riesce infatti a chiarire in termini quasi paradigmatici come la fascinazione per un certo tipo di violenza abbia rappresentato un tassello importante dell’immaginario coltivato dai movimenti e dalle diverse esperienze organizzative della sinistra estrema cresciute in Italia soprattutto tra la fine degli anni Sessanta e il principio del decennio seguente. Si tratta certo di un aspetto che può imbarazzare molti dei protagonisti dell’epoca, e in particolare tutti coloro che, quantomeno a partire da un certo momento, attorno alla metà degli anni Settanta, iniziarono a prendere le distanze dai miti della violenza rivoluzionaria, oltre che dalla declinazione che ne cominciavano a fornire le organizzazioni armate. Ma proprio in virtù di questo imbarazzo molte ricostruzioni – in special modo memorialistiche – del Sessantotto italiano tendono in qualche modo a distinguere tra la fase ‘verginale’ e ‘impolitica’ del movimento e le derive successive, in cui l’ideologia e i miti della politica novecentesca ebbero la meglio, sacrificando la spontaneità e l’originalità di un movimento non violento sull’altare del ‘Potere’ e delle sue spietate logiche. Che la fase aurorale della contestazione sia stata assai meno sensibile al culto della violenza è certo indiscutibile, ma il rischio di queste operazioni non è molto diverso da quello che fa correre la nostalgia, quando spinge a emendare degli aspetti meno lusinghieri il ricordo del passato meno recente. In questo modo, infatti, si finisce col perdere davvero qualcosa del passato, e col maneggiare soltanto delle oleografie, sempre più distanti dall’originale. E, nel caso della storia dell’estrema sinistra italiana degli anni Sessanta e Settanta, si finisce col perdere una componente importante di una vicenda politica, intellettuale e umana, e con l’allestire così una raffigurazione del tutto speculare a quella proposta da tutte quelle ricostruzioni che tendono invece a ritrovare in una sorta di fanatismo ideologico il robusto filo comune fra il Sessantotto e la drammatica pagina del terrorismo.
Anche per questo motivo è quantomeno meritorio il lavoro compiuto da Angelo Ventrone in «Vogliamo tutto». Perché due generazioni hanno creduto nella rivoluzione. 1960-1988 (Laterza, Roma – Bari, 2012). La ricerca di Ventrone non si nasconde infatti come l’immaginario coltivato dalla sinistra radicale italiana lungo questo periodo – che viene fatto iniziare con il 1960 e la cui tappa terminale viene collocata nel 1988, in sostanziale coincidenza con il crollo dei regimi socialisti dell’Europa orientale – sia stato un immaginario integralmente rivoluzionario, e abbia cioè visto nella rivoluzione, una rivoluzione inevitabilmente violenta, un momento inevitabile di snodo, non solo sotto il profilo strettamente politico, ma anche dal punto di vista esistenziale. Così, il titolo del volume, «Vogliamo tutto», non rimanda soltanto allo slogan utilizzato dagli operai di Mirafiori nel 1969, ma intende alludere proprio alla convinzione che la rivoluzione sia un processo di scontro che investe ogni relazione sociale, e da cui può discendere un mutamento radicale della condizione individuale. Mentre il sottotitolo – Perché due generazioni hanno creduto nella rivoluzione – esplicita proprio la domanda che alimenta l’indagine di Ventrone, una domanda per cui una risposta puramente ‘politica’ – una risposta che dunque non prenda in considerazione le motivazioni più profonde dei protagonisti di quegli anni, l’aspirazione a un mutamento tanto radicale – non può essere sufficiente. Scrive infatti Ventrone proprio al principio del volume: «Non si fa la rivoluzione per cercare la felicità. Si fa la rivoluzione per poter vivere una vita autentica. Nessuno, o solo pochi, pochissimi, si sono illusi nel corso della storia che la società del domani sarebbe stata priva di ogni conflitto, che ogni problema avrebbe trovato soluzione e il male sarebbe definitivamente scomparso, che gli uomini avrebbero vissuto in pace una volta per tutte, che la felicità avrebbe regnato incontrastata. Ma molti, e moltissimi tra gli anni ’60 e la fine degli anni ’70, hanno sperato che nella società del domani ognuno avrebbe potuto realizzare se stesso insieme agli altri, a ognuno sarebbe stata data la possibilità di avvicinare ciò che fino ad allora era stato separato – desiderio e realtà –, di recuperare quell’armonia interiore che fino ad allora gli era stata negata, di conquistare quella padronanza di sé di cui fino ad allora ci si era sentiti privati» (p. VII). 
In questo senso, il volume di Ventrone tenta di contribuire a correggere la prospettiva da cui la stagione della mobilitazione collettiva è stata affrontata, e per molti versi distorta. L’attenzione si è infatti concentrata sui due «eventi» del Sessantotto e del rapimento di Aldo Moro: due eventi che senza dubbio hanno rappresentato forti cesure nella storia nazionale, ma che hanno inevitabilmente caricato di considerazioni politiche le ricostruzioni tanto dei protagonisti quanto dei testimoni, interessati più a cercare le prove della colpevolezza – o dell’innocenza – che a dipanare i fili di una storia intricata. «La politica» - con le parole di Ventrone - «l’ha fatta da padrone; i tempi brevi e la strumentalità delle polemiche hanno schiacciato la riflessione storica, che invece ha bisogno di esaminare i fatti nei tempi lunghi, che si propone uno scopo diverso, e vorrei dire più disinteressato, della semplice ricerca del colpevole. Fare storia vuol dire rendere comprensibile il complesso intreccio di azioni e reazioni, di passioni e paure, di speranze e illusioni che coinvolge i protagonisti, i compartecipanti, ma persino gli spettatori di un evento» (p. VIII). Ma un simile atteggiamento si è tradotto in una sorta di «patto di omertà», con cui i protagonisti dell’una e dell’altra parte si sono per certi versi impegnati a «far calare un velo di silenzio su tutti quegli aspetti che sono ritenuti scomodi e capaci di smentire le rassicuranti – e autorassicuranti – versioni sulla più o meno perfetta trasparenza del proprio operato che i protagonisti hanno riversato in migliaia e migliaia di pagine di interviste e memorie» (p. IX). 
Il percorso di Ventrone, attraversando quasi tre decenni della storia italiana, tende a privilegiare soprattutto alcune esperienze della sinistra extraparlametare, perché, in effetti, il ragionamento ruota per larga parte attorno all’operaismo italiano degli anni Sessanta e ai suoi sviluppi successivi, sebbene riservi un certo spazio anche al maoismo italiano, e in special modo all’Unione dei Comunisti Italiani, meglio nota con il nome del suo giornale, «Servire il popolo». In effetti, la maturazione dei fermenti destinati a palesarsi con l’esplosione del Sessantotto viene seguita da Ventrone soprattutto nelle prime riflessioni dei «Quaderni rossi» di Panzieri e Tronti e nell’esperimento di «Classe operaia», ossia in esperienze che rompevano nettamente con la tradizione del socialismo e del ‘progressismo’ italiani, e che, soprattutto, partivano dalla convinzione che l’Italia fosse ormai un paese a capitalismo avanzato: un paese in cui, dunque, il proletariato aveva finalmente la possibilità di assumere una piena centralità economica e politica. Successivamente, Ventrone si volge alla deflagrazione della fine degli anni Sessanta, da cui scaturiscono tanto la contestazione studentesca, quanto i gruppetti dell’estrema sinistra. E, infine, lo sguardo si sposta alle formazioni armate, la cui parabola raggiunge il culmine fra anni Settanta e Ottanta, prima di esaurirsi rapidamente alcuni anni dopo, con lo smantellamento dell’intera struttura superstite delle Brigate Rosse. A questo proposito, uno degli intenti di Ventrone consiste nel mostrare come, al di là delle inevitabili cesure, vi siano forti elementi di continuità fra la prima parte degli anni Settanta e la stagione identificata con l’espressione «anni di piombo»: non tanto, però, perché questi due periodi siano stati segnati dal medesimo livello di violenza, quanto perché le premesse della deriva militarista si ritrovano proprio nelle parole d’ordine e nel linguaggio adottato dai gruppi. Per quanto Potere operaio e Lotta continua adottassero alcune espressioni in termini effettivamente retorici, quel linguaggio – più o meno consapevolmente – andò a rafforzare un immaginario, un’iconografia, una mitologia dello scontro di classe, destinata a diventare per alcuni l’unico modo realistico di comprendere il mondo. Come scrive Ventrone a questo proposito, riprendendo una riflessione di Luigi Manconi: «tra tutti coloro che simpatizzavano per la contestazione, solo una parte di essi urlava minacce in un corteo o incitava alla violenza in un articolo di un giornale; e solo una piccola parte di questi intendeva quelle frasi in senso letterale, così come solo una parte di questi ultimi si riteneva in grado di metterle in pratica. Infine, solo un gruppo ancora più ristretto lo faceva effettivamente. Ciò non vuol però dire che non ci sia alcun legame tra i molti che hanno detto e i pochi che hanno fatto. Se i momenti della teorizzazione e della legittimazione della violenza non possono certamente essere sovrapposti e identificati con la pratica della violenza, è comunque impossibile sostenere che la loro distinzione sia chiarita e definita» (pp. 115-116).
Non è dunque casuale che la lettura di Ventrone, accostandosi a documenti risalenti ormai a circa mezzo secolo fa, punti soprattutto a ricostruire l’effettivo significato delle parole utilizzate allora, talvolta anche per diradare quella specie di cortina fumogena che gli stessi protagonisti avrebbero in seguito diffuso sulle loro elaborazioni, per correggerne l’estremismo e, ovviamente, per ridimensionare il peso che, nei ragionamenti di allora, aveva la violenza. E questo atteggiamento, secondo Ventrone, tende a risultare particolarmente evidente nel caso dell’operaismo, a proposito del quale, osserva, «dominano le versioni edulcorate, addomesticate» (p. 54). Certo non tutta la riflessione dedicata alla storia dell’operaismo si risolve in una acritica celebrazione, anche perché non sono mancate – da parte anche degli stessi protagonisti – ricostruzioni tutt’altro che disposte a proporre una memoria puramente oleografica. Ma i rischi segnalati da Ventrone esistono davvero, e non sono forse neppure troppo diversi da quelli che contrassegnano una certa memorialistica sulla genesi del gruppo dirigente del Pci, oppure la storia celebrativa della Resistenza coltivata nei primi decenni della Repubblica. Il punto, però, non consiste soltanto nel fatto che, in questo modo, i protagonisti tendono inevitabilmente ad ‘addolcire’ il quadro di un’esperienza tutt’altro che priva di asprezze, di ingenuità, di errori e anche di drammi umani. Più radicalmente, la conseguenza – come Ventrone segnala appropriatamente – consiste nel deformare quelle esperienze politiche e intellettuali, occultandone componenti importanti. Come sa bene chiunque legga davvero quei documenti, e chiunque segua i percorsi individuali di quegli anni, la «rivoluzione» - una rivoluzione naturalmente immaginata in termini molto differenti dalle diverse componenti della sinistra radicale – non si riduceva affatto a una metafora allusiva o una concessione poetica, perché lo scontro di classe era percepito davvero come una realtà materialmente presente nella quotidianità, una realtà che poteva richiedere anche un costo personale che alcuni erano disposti a pagare.
Oltre che dall’intento di ‘prendere sul serio’ le parole di quegli anni, il lavoro di Ventrone è caratterizzato anche dall’obiettivo di ‘comprendere’ davvero cosa spingesse i protagonisti di quei gruppi a rincorrere una sorta di chimera di cui oggi ci appare tutta l’inconsistenza. Uno degli elementi più interessanti di «Vogliamo tutto!» è infatti il tentativo di fornire una risposta – o, quantomeno, il contributo per una risposta – alla domanda esplicitata con forza dal sottotitolo del volume: «perché due generazioni hanno creduto nella rivoluzione». E, imboccando un sentiero per molti versi ‘weberiano’, che tenta di ‘comprendere’ quali fossero le motivazioni profonde che muovevano i militanti degli anni Sessanta e Settanta, Ventrone le ritrova nella ricerca di una «vita autentica»: una ricerca i cui esiti diventavano tanto più decisivi quanto più il futuro era percepito nei termini di una sorta di inevitabile «massificazione». In questo senso, il Sessantotto nasceva dallo stesso incubo che aveva percorso l’intero Novecento, e che molti intellettuali avevano condiviso, pur giungendo a fornire risposte diverse: «Ai loro occhi, l’uomo contemporaneo viveva in una società ossessionata dalla ricerca del comfort, impigrita dalle comodità della vita moderna, soddisfatta della dimensione esclusivamente materiale della propria esistenza. Una società che chiedeva all’essere umano di rinnegare la sua essenza più intima, ovvero la dimensione spirituale, che voleva dire volontà, abnegazione, capacità di donarsi a un’idea, a un progetto collettivo» (p. 13). Adottando la visione di una massificazione irrefrenabile, il Sessantotto si collocava così proprio all’estremità del Novecento: e la «debolezza del pensiero», l’incapacità di sviluppare una riflessione che superasse la soglia del XX secolo, appare dunque «uno dei possibili frutti, seducente e nello stesso tempo pericoloso, di una ricerca, di una speranza di rigenerazione che veniva da lontano e che le giovani generazioni di quel momento, come d’altronde quelle che le avevano precedute, ritenevano spettasse loro portare finalmente a compimento» (p. 15). Alle origini della stessa riflessione operaista, Ventrone coglie allora – non senza fondamento – il timore di un totalitario potere omologante: «il timore che il dominio della tecnica fosse in grado di rendere il mondo un inferno. Un mondo in cui il nemico del genere umano avrebbe preso il sopravvento in modo totale e definitivo, tanto da schiacciare tutti coloro che gli si opponevano, plasmando le loro menti e cancellando la possibilità stessa di pensare a un modo di vivere diverso, di immaginare una possibile alternativa. Insomma, la definitiva affermazione di quegli ‘uomini su misura’, dotati di una mentalità ‘fatta apposta per piacere al futuro padrone’, di cui aveva parlato in un libro di grande successo Vance Packard a proposito dell’ideale perseguito dai persuasori occulti che agivano dietro le quinte della società dei consumi» (p. 62).
L’interpretazione proposta da Ventrone costituisce senza dubbio uno dei principali motivi di interesse di «Vogliamo tutto!». E, a ben vedere, è davvero possibile ritrovare le tracce del terrore per la ‘disumanizzazione’ e per il dominio totalitario della ‘tecnica’ anche nella tradizione teorica dell’operaismo italiano, una tradizione che, peraltro, ha tentato quasi invariabilmente di ritrovare in ogni mutamento tecnologico, in ogni ristrutturazione capitalistica, in ogni stagione di innovazione produttiva, un ‘salto’ ulteriore verso la formazione dell’Arbeiterklasse prefigurata da Marx. Naturalmente, si potrebbe obiettare che la tesi ‘weberiana’ di Ventrone non risponde integralmente alla domanda di partenza, e che cioè non chiarisce fino in fondo per quale motivo una porzione minoritaria, ma comunque significativa, di giovani italiani abbia realmente creduto alla prospettiva di una rivoluzione possibile e imminente, sacrificando sull’altare di questa causa molto più che un impegno occasionale. Ma, come per ogni processo storico, è inevitabile che simili domande rimangano almeno in parte senza risposta. Anche perché, forse, questo interrogativo richiederebbe risposte che attengono, più ancora che alla ricerca storiografica, alla teoria politica e all’indagine sui moventi che inducono a riconoscersi in un corpo collettivo e a spingersi fino al limite estremo del rischio della vita.
Ma c’è forse anche un altro motivo per cui il libro di Ventrone merita una lettura attenta, ed è un motivo che attiene alla costruzione della memoria collettiva degli anni Settanta. Quella sorta di memoria ‘selettiva’ che spinge i protagonisti dell’estrema sinistra di quegli anni a ridimensionare alcuni aspetti – in primo luogo, la reale consistenza dell’immaginario rivoluzionario, insieme all’inevitabile corollario della ‘violenza di classe’ – è infatti la spia di un atteggiamento ben più radicato e ben più esteso. È proprio questo meccanismo di costruzione della memoria che, secondo Ventrone, palesa un’altra distorsione della prospettiva con cui si guarda ancora oggi al ciclo di mobilitazione degli anni Sessanta e Settanta: in sostanza, si tratta anche in questo caso di un effetto dell’ancora forte politicizzazione della memoria di quel periodo, una politicizzazione che – al di là di ogni tentativo di ripensamento – spinge a rappresentare entrambe le parti in modo «unidimensionale», e soprattutto in termini semplificati. «Gli anni ’60 e ’70 sono dunque imbalsamanti – nell’immagine che ne propongono spesso i protagonisti – o demonizzati da chi si sente erede di tutti coloro che si schierarono, all’epoca, sulla sponda opposta. Ad ogni modo, sono decontestualizzati dal ‘900 e quindi impossibili da comprendere nella loro complessità di momento di confine tra vecchio e nuovo» (p. X). È d’altronde proprio la ricostruzione «unidimensionale» che induce i protagonisti degli eventi – e in particolare coloro che vissero in prima linea l’esperienza del Sessantotto, dei movimenti, della sinistra extra-parlamentare – a tessere, più o meno consapevolmente, una rappresentazione in cui gli elementi meno gradevoli, tra cui la stessa infatuazione per la violenza rivoluzionaria, tendono a sfumarsi in cui quadro nostalgico. Così, anche la storiografia sugli anni Sessanta e Settanta tende a riflettere l’esigenza ‘politica’ di rappresentare una parte – la propria parte – come portatrice di valori integralmente positivi e la parte avversa come causa invece di tutte le degenerazioni, tra cui la stessa deriva violenta degli «anni di piombo». «In fondo l’immagine di una contestazione considerata nel giusto di fronte a uno Stato in ritardo nel riconoscimento dei diritti civili, nell’effettiva capacità di garantire uguali possibilità di emancipazione e di autorealizzazione a tutti, e soprattutto ai ceti popolari, si ispira a una grande tradizione culturale, quella nata insieme allo Stato unitario nella seconda metà dell’800. Una tradizione che, a partire dalla critica al fallimento del Risorgimento, all’incapacità cioè di rendere l’Italia non solo uno Stato ma anche una Nazione, ci ha abituato a pensare l’intera storia italiana come un susseguirsi di occasioni perdute, mancate: il Risorgimento incompiuto, la Vittoria mutilata, la Resistenza e la Costituzione tradite e, per finire, tra gli anni ’60 e ’70, l’affossamento del desiderio di protagonismo delle giovani generazioni attraverso la spietata spirale della repressione da parte del potere costituito e della disperata reazione violenta delle sue vittime» (p. XI). Ma, per quanto una simile lettura abbia più di qualche fondamento, e descriva realmente almeno una componente di ciò che la «contestazione» ha rappresentato nella storia italiana, è evidente come essa derivi anche dal «prevalere della polemica politica che spinge a enfatizzare le proprie ragioni e a negare quelle altrui», all’impostazione che «fa pensare a se stessi solo in quanto vittime – ingiustamente vittime – e mai anche come persecutori, oppressori» (p. XI). 
Una simile tentazione si coglie fatalmente soprattutto in quella sorta di ‘rimozione’ che viene a contrassegnare il culto della violenza cui i movimenti degli anni Sessanta e Settanta si alimentarono, ossia nella tendenza a presentare la scelta della violenza solo come una reazione alla violenza delle stragi, solo come una conseguenza di un attacco perpetuato dallo Stato come movimenti ‘innocenti’, e non anche come il riflesso di un’impostazione dottrinaria che attingeva all’immaginario rivoluzionario novecentesco, un immaginario in cui la violenza politica rappresentava una componente tutt’altro che residuale. Se si ‘rimuove’ l’enfasi posta in quegli anni sulla violenza, o se la si considera solo come un orpello retorico in fondo privo di effettivo significato, si finisce però col perdere una componente cruciale di quegli anni. Inoltre – ed è questa l’ultima, non meno significativa distorsione su cui Ventrone attira l’attenzione – la tendenza a interpretare i proclami rivoluzionari solo come un ‘gioco’, come un’allusione metaforica, «non rende giustizia a tutti coloro – e furono tanti – che sacrificarono gran parte delle loro energie non a un ‘gioco’, ma al sogno di costruire una ‘nuova umanità’» (p. XIV). Correggere queste distorsioni significa dunque anche ‘prendere sul serio’ le ragioni di quanti videro nella rivoluzione non un ‘gioco’ ma una vocazione, un sogno realizzabile, al cui raggiungimento dedicare la propria vita, talvolta persino a rischio della morte. E il libro di Ventrone si pone proprio questo obiettivo: «tentare di ricostruire come mai tanti giovani appartenenti ai gruppi della sinistra rivoluzionaria hanno creduto di poter cambiare il mondo, come volevano cambiarlo e per quali ragioni, perché ad un certo momento hanno cominciato a pensare che la violenza fosse lo strumento necessario per realizzare questo sogno. In altre parole, perché hanno creduto alla rivoluzione, perché davano per scontato che la rivoluzione fosse il passaggio obbligato per accedere a una vita degna di essere vissuta, a una vita autentica» (p. XV).
Quando Ventrone cerca di ‘prendere sul serio’ le parole che utilizzavano gli estremisti degli anni Settanta, e quando considera le loro ragioni – ‘weberianamente’ – come motivazioni reali, e non come gli esercizi retorici di un ‘gioco’ finito tragicamente, non affronta però soltanto un problema storiografico. In modo più radicale, affronta una questione che coinvolge la stessa memoria italiana degli anni Settanta, quella memoria su cui si sono costruiti – in misura non marginale – la rappresentazione degli «anni di piombo» e lo stesso immaginario politico della ‘Seconda Repubblica’. Non è dunque sorprendente che la memoria – e in particolare la memorialistica – di quel periodo storico tenda a polarizzarsi attorno a due soluzioni opposte. Per un verso, su quegli anni risulta impresso lo stigma della ‘dannazione’, e in fondo la stessa espressione «anni di piombo» – la cui estensione cronologica, nell’uso giornalistico, viene spesso a comprendere tutto il periodo che va dal Sessantotto fino all’escalation terroristica del principio degli anni Ottanta – tende a proporre l’immagine di una violenza ideologica e nichilista, una violenza tanto insensata da poter essere spiegata solo ricorrendo all’idea di una patologia collettiva. Per un altro verso, quanti propongono invece una difesa di quegli anni (e delle esperienze che contribuirono, in modo più o meno significativo, a imboccare una deriva violenta) finiscono, come sottolinea Ventrone, col coltivare una memoria ‘selettiva’, attenuando la dimensione ‘rivoluzionaria’ delle rivendicazioni di allora e procedendo così a ricollocare la dinamica dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta nell’alveo di un più rassicurante radicalismo democratico. In altre parole, dato che oggi non crediamo più alla possibilità della rivoluzione, e dato che ci pare letteralmente ‘impossibile’ che intellettuali originali, profondi, tutt’altro che sprovveduti, potessero credere davvero a quella che ci appare solo come un’illusione terribilmente ingenua (se non addirittura infantile), gli stessi protagonisti degli eventi di allora – insieme a una parte della storiografia – tendono a rileggere la storia degli anni Sessanta e Settanta sulla scorta di questa convinzione, considerando solo come immagini, metafore, allusioni, parole come «violenza di massa» e «rivoluzione». 
Ma, per quanto opposte, queste due raffigurazioni attorno a cui si organizza la memoria dell’Italia degli anni Sessanta e Settanta restituiscono in realtà un quadro del tutto speculare del nostro immaginario ‘post-politico’. Sia che si ritrovi nella follia degli anni Settanta la manifestazione del morbo dell’ideologia, del fanatismo politico, del mito rivoluzionario, sia che si espungano dal bagaglio dei movimenti dell’estrema sinistra i riferimenti alla violenza rivoluzionaria, il risultato è che quella stagione viene di fatto reinterpretata con le coordinate di un immaginario ‘post-politico’, e dunque collocata ‘al di fuori della storia’. Ai protagonisti di quella vicenda viene così negata ogni razionalità ‘politica’, oppure si reinscrivono le loro motivazioni più profonde all’interno di una costellazione ‘postpolitica’ che rimuove la violenza, attribuendo le responsabilità della deriva violenta solo alle istanze di un potere repressivo e ostile al mutamento. Proprio attraverso queste lenti deformanti, gli «anni di piombo» sono venuti a rappresentare la sagoma sinistra di una negatività assoluta, su cui l’immaginario della politica italiana – a partire dagli anni Ottanta – si è ridefinito. Gli anni Settanta sono stati così, al tempo stesso, ossessivamente presenti nel dibattito pubblico, eppure sostanzialmente rimossi, ‘de-storicizzati’ e ‘depoliticizzati’: semplicemente perché in un mondo ‘post-politico’ – in un mondo che rimuove la politica e le sue ‘regolarità’, in un mondo che interpreta i conflitti e le contrapposizioni politiche come manifestazioni del ‘male’ – il dolore delle vittime e dei loro parenti deve apparire solo come il frutto insanguinato di un fanatismo senza alcun senso, mentre la violenza non può che risultare sempre del tutto fuori dalla storia. E forse è anche per questi motivi che è importante rileggere oggi la storia di quegli anni. Non soltanto perché si tratta di un doveroso impegno storiografico, volto a ricostruire cosa davvero sia successo in una fase tanto importante della vicenda repubblicana. Ma anche perché solo in questo modo si può capire davvero – o quantomeno capire un po’ meglio – il nostro presente.

Damiano Palano

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