martedì 22 maggio 2018

La fiducia distribuita non ha bisogno delle istituzioni? Un libro di Rachel Botsman



 Di Damiano Palano


Questa recensione al volume di Rachel Botsman, Di chi possiamo fidarci? Come la tecnologia ci ha uniti e perché potrebbe dividerci (Hoepli, pp. 328, euro 22.90), è apparsa su "Avvenire" il 19 maggio 2018.

Poco più di vent’anni fa il politologo americano Robert D. Putnam pubblicò un articolo dedicato ai mutamenti intervenuti nel modo in cui gli americani giocavano a bowling. All’inizio degli anni Novanta il numero delle persone che si dedicavano a questa disciplina risultava essere cresciuto rispetto al passato. Ma mentre negli anni Sessanta e Settanta si giocava a bowling all’interno di leghe sportive, nel corso del tempo era diventata un’attività individuale. Anche se il tema poteva apparire futile, per Putnam quella trasformazione era la spia di un processo ben più generale, che consisteva nel progressivo logoramento della tradizione civica propria della società americana. In altre parole, si stava sgretolando quella tradizione di civismo che Tocqueville aveva celebrato nell’Ottocento e che era alla base della partecipazione dei cittadini alla vita comunitaria. Le cause erano da individuare nel mutamento della composizione familiare e nell’aumento del tempo trascorso davanti alla tv, oltre che in altre dinamiche. Ma le conseguenze, ammoniva Putnam, erano allarmanti anche per lo stato della democrazia. Perché le istituzioni politiche possono funzionare in modo efficiente proprio in presenza di una solida base di civismo, e cioè quando esiste un solido capitale sociale di fiducia.

Le ipotesi di Putnam hanno aperto un dibattito sterminato. Qualcuno ha innanzitutto obiettato al politologo che non tutte le forme di capitale sociale risultano necessariamente benefiche per il rendimento delle istituzioni. Mentre altri si sono chiesti se i mutamenti tecnologici non possano anche contribuire a rigenerare il capitale sociale di fiducia ereditato dal passato. Ed è proprio questa l’idea sviluppata da Rachel Botsman nel suo libro Di chi possiamo fidarci? Come la tecnologia ci ha uniti e perché potrebbe dividerci (Hoepli, pp. 328, euro 22.90). Anche per Botsman – esperta delle conseguenze che le trasformazioni tecnologiche producono sull’economia – la fiducia è un ingrediente fondamentale per la buona riuscita di quasi ogni attività sociale ed economica. Come scrive, si tratta di una «relazione ottimistica con l’ignoto», ossia di quella molla che consente agli individui di avviare attività incerte, nella convinzione che avranno un esito positivo. Ma il punto è che la fonte da cui deriva la nostra fiducia nel corso del tempo si è modificata. Nel passato la fiducia era soprattutto locale, nasceva cioè dalla conoscenza diretta dei propri simili ed era perciò fatalmente legata alla piccola dimensione della comunità urbana. In seguito, con lo sviluppo dell’economia mercantile, è diventata istituzionale: prodotto cioè di grandi e autorevoli organizzazioni, capaci di svolgere un ruolo di intermediazione ma anche di garantire l’affidabilità dei singoli attori o il valore di una banconota. Oggi invece, proprio grazie alle tecnologie, la fiducia tende a essere distribuita. Non discende cioè dall’alto verso il basso, ma segue un percorso inverso. Se la crisi finanziaria globale ha sancito infatti l’esplosione della sfiducia nei confronti delle istituzioni finanziarie e politiche, sta gradualmente conquistando terreno la fiducia distribuita, in cui è l’interazione – e non un’autorità che sta al di sopra di tutti – a consolidare la reputazione e l’affidabilità di ciascun operatore. Naturalmente gli esempi che vengono considerati da Botsman sono eBay, BlaBlaCar o Airbnb, e cioè piattaforme che funzionano proprio perché sono riuscite a superare l’ostacolo della diffidenza verso gli estranei, non grazie alla creazione di un’autorità che regola le transazioni, ma mediante un meccanismo di reciproco controllo.

Senza dubbio il libro ha il merito di chiarire come funziona oggi la fiducia distribuita. Ma l’idea di un superamento dalla fiducia istituzionale – che Botsman d’altronde non sposa fino in fondo – rischia di essere fin troppo ingenua. Come ci mostrano le cronache, anche nel web esistono asimmetrie di potere sempre più evidenti. Le grandi piattaforme su cui si svolgono le nostre transazioni non sono luoghi ‘neutrali’, ma hanno proprietari che possono utilizzare le informazioni di cui dispongono tendenzialmente anche per modificare il comportamento degli utenti, senza però assumersi alcuna responsabilità. E non possiamo escludere che anche le piattaforme possano essere investite da ondate di sfiducia. Ciò significa dunque che le istituzioni – in primo luogo quelle politiche – avranno ancora un ruolo nell’ostacolare la concentrazione di potere digitale. Ma anche che avranno il compito di impedire che la fiducia distribuita rimanga vittima del proprio successo.


Damiano Palano

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