giovedì 14 settembre 2017

Il rischio della democrazia senza popolo. Una nota di Francesco Marchianò





di Francesco Marchianò

Questa nota dedicata a "Populismo" di Damiano Palano è apparsa su "Huffington Post" l'8 agosto 2017

Si fa presto a dire populismo. Il termine riempie da anni il dibattito pubblico anche se, spesso, viene adoperato con molta disinvoltura, forse perché soffre di una sorta di maledizione ogni qual volta si prova a definirlo. Ciò è dovuto al fatto che col tempo si è ampliato a dismisura l'insieme di fenomeni, contesti e attori ai quali ci si è riferiti con questo termine. Nonostante i molti e apprezzabili tentativi compiuti dagli studiosi per sciogliere l'enigma, il populismo pare soffrire ancora di quello che mezzo secolo fa, Isaiah Berlin definì "complesso di cenerentola", ossia l'esistenza di un principe azzurro (lo studioso) che ha in mano una scarpa (il concetto di populismo) ed è alla ricerca del piede al quale questa scarpa calzi a pennello (il populismo vero e proprio).
Per avere un quadro generale, si pensi che dentro al populismo ci sono finiti leader e partiti di estrema destra e di estrema sinistra; conservatori quanto laburisti (sia la Thatcher che Blair, per esempio); regimi autoritari sudamericani e paesi postcomunisti che transitavano alla democrazia; liberisti e antiliberisti; nazionalisti e secessionisti. A ciò si aggiunga la tendenza a utilizzare il populismo non in termini descrittivi ma polemici, mirati a criticare attori e fenomeni politici.
Un volume fresco di stampa, Populismo (Editrice Bibliografica) di Damiano Palano, ordinario di filosofia politica alla Cattolica di Milano, ci aiuta a capire meglio l'evoluzione di questo concetto. Il testo offre una mappatura storico-concettuale precisa ed esaustiva che, per l'impostazione seguita, si offre come uno strumento molto utile per addetti ai lavori e non. A cominciare dalla scelta di Palano di dedicare molto spazio alle esperienze storiche nelle quali risiede l'origine del populismo; un'operazione non scontata poiché, talvolta, la fretta di stare sul pezzo ha indotto alcuni a non dare sufficiente spazio a questo aspetto.
L'autore, invece, ci riporta molto bene alle origini del populismo che nacque sul finire dell'Ottocento, quasi simultaneamente, nella Russia zarista e negli Stati Uniti, i due paesi che da lì a qualche decennio avrebbero dominato lo scacchiere globale. In questi due contesti, come ben spiegato nel volume, si svilupparono, pur con tutte le differenze del caso, due movimenti che si dicevano populisti. In Russia, il movimento chiamato narodnicestvo (da narod, cioè popolo), si oppose al potere degli zar in nome di una visione romantica con forti venature slavofile che puntava all'emancipazione dei contadini, ritenuti un soggetto rivoluzionario. Negli Stati Uniti, dopo la Guerra di secessione, prese avvio un movimento di protesta di larghe fasce rurali, specialmente negli Stati meridionali e centrali, che si ritenevano molto danneggiati dal riassetto economico del grande capitale economico e finanziario. Washington e la classe politica divennero il bersaglio della polemica poiché ritenuti un'élite corrotta al servizio dei poteri forti. Entrambe queste esperienze erano accomunate da una visione romantica e, in parte, antimoderna, da un forte connotazione rurale e dall'assenza di leader personali.
Il capo populista comparirà qualche decennio dopo, in America Latina, in alcuni regimi autoritari. Tra i casi più importanti ci sono quello di Vargas in Brasile, di Lázaro Cárdenas in Messico e, in modo particolare, quello di Juan Domingo Perón in Argentina, probabilmente quello che per anni è stato il populismo per antonomasia, sebbene l'etichetta populista sia stata utilizzata a posteriori dagli studiosi. Questi populismi erano caratterizzati oltre che da una forte personalizzazione, dalla capacità di essere riusciti a integrare le masse povere ed escluse dentro le istituzioni, come intuito tra i primi dal sociologo argentino di origini italiane Gino Germani.
In seguito, il volume si concentra sul nuovo populismo, quello più recente, che inizialmente ha avuto una spinta dal Nord Europa con il successo di partiti e movimenti caratterizzati da una critica al fisco, alla burocrazia, al professionismo politico, alla politica organizzata, con una connotazione xenofoba e con valori tipici dell'estrema destra. Talvolta presentatisi come partiti nazionali, come il Front National in Francia o il Partito liberale in Austria, talvolta in chiave secessionista, come i partiti fiamminghi in Belgio e la prima Lega Nord in Italia, i populisti europei hanno in comune la critica agli Stati nazionali, alle banche e all'Europa, ma non propongono soluzioni rivoluzionarie. Vorrebbero meno Stato, ma non meno mercato, tant'è che nella maggior parte dei casi sono fautori del neoliberismo.
Completata la ricognizione storica, Palano passa in rassegna i tentativi compiuti per definire il populismo. I più ambiziosi in questa direzione hanno cercato di definire il populismo come una vera e propria ideologia, caratterizzata da una visione dicotomica della società dove al popolo puro, depositario delle virtù, si oppongono le élite corrotte, che minano gli interessi e l'unità del popolo. Il popolo viene visto come non diviso da conflitti, non attraversato da interessi opposti, ma come un mito di purezza incontaminata.
Molti altri studiosi hanno abbandonato questa strada, rinunciando a vedere il populismo come ideologia, preferendo solo stilare una tipologia delle sue manifestazioni. Tra questi, i contributi più importanti sono l'imprescindibile Populism, di Margaret Canovan, purtroppo mai tradotto, e più di recente i saggi del francese Taguieff. Per loro il populismo è uno stile accomunato dal richiamo costante al popolo cui si fa appello come fonte di legittimazione del proprio agire.
In mezzo a questi studiosi, si inseriscono quanti hanno definito il populismo come una mentalità, una forma mentis, cioè "una predisposizione psicologica verso una determinata interpretazione della realtà politica". La mentalità è un concetto nato per distinguere la visione politica degli autoritarismi da quella dei totalitarismi ed è un gradino sotto l'ideologia rispetto alla quale si presenta come meno sistemica.
Un caso a parte è la concezione del populismo come discorso, coniato da Ernesto Laclau e negli ultimi anni assunto come paradigma da alcune nuove formazioni di sinistra. Ragionando in chiave post-marxista, Laclau ha concepito i conflitti sociali più come identitari che non economici. Per questo, il populismo vorrebbe dire costruire popolo, ossia riuscire a politicizzare un tema, quale che sia, a renderlo conflittuale, a mobilitare le persone su esso e a creare consenso. In questo senso, lungi dall'essere un problema, il populismo è un obiettivo, una delle chiavi del successo, specialmente per la sinistra.
Al di là delle posizioni, come ricorda in chiusura Palano, il grande mutamento delle culture politiche che sta attraversando l'Europa è amplificato dalla sfida lanciata dei populisti. Il popolo, infatti, è uno dei concetti base della democrazia e le sue fiammate populiste devono essere lette come un segnale di malfunzionamento democratico al quale porre rimedio. Alcuni anni fa il filosofo Mario Tronti aveva sostenuto che il populismo compare quando non c'è il popolo; a conclusione del volume, Palano teme il rischio che gli eccessi di una sfida al populismo potrebbero portare al paradosso di una democrazia senza popolo. In una parola: la sfida al populismo, fatta "contro il popolo", potrebbe produrre ancora più populismo.

Francesco Marchianò

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