domenica 10 luglio 2016

La legittimità difficile nella tarda democrazia. Alcune considerazioni a partire da «Gemina persona» di Paolo Costa





di Damiano Palano

1. Nel febbraio 2013, pochi giorni dopo il clamoroso gesto delle dimissioni di Benedetto XVI, Giorgio Agamben pubblicò un breve testo nel quale si suggeriva un’interpretazione suggestiva, per quanto certo radicale, della decisione del pontefice. La rinuncia di Papa Ratzinger al ministero petrino, scriveva infatti Agamben, «richiama con forza l’attenzione sulla distinzione fra due principi essenziali della nostra tradizione etico-politica, di cui le nostre società sembrano aver perduto ogni consapevolezza: la legittimità e la legalità». Il gesto di Benedetto XVI aveva cioè la capacità di portare alla luce la motivazione più profonda di una crisi che lacera tutte le nostre istituzioni (e non solo quelle religiose): una crisi che «non mette in questione soltanto la legalità delle istituzioni, ma anche la loro legittimità», non soltanto «le regole e le modalità dell’esercizio del potere, ma il principio stesso che lo fonda e legittima» (G. Agamben, Cosa insegna la rinuncia di Ratzinger, in «la Repubblica», 16 febbraio 2013, p. 1). 
La lettura proposta da Agamben – una lettura che andrebbe naturalmente collocata nel quadro ben più ampio di un’ambiziosa riflessione sul fondamento del potere sovrano nell’esperienza occidentale – si inserisce nella lunga riflessione sui rapporti problematici tra legalità e legittimità che attraversa la dottrina giuridica e la teoria politica dell’intero Ventesimo secolo, e che giunge sino a noi, alimentando molte delle discussioni sulla «crisi» della «tarda democrazia». Ed è per molti versi in questa stessa discussione che viene a situarsi anche il volume di Paolo Costa. Gemina persona. Un’ipotesi giuspubblicistica intorno alla crisi del soggetto politico (Giuffè, Milano, 2015), un testo in cui si possono forse ravvisare alcune analogie quantomeno con la prospettiva da cui Agamben indaga la progressiva lacerazione tra legittimità e legalità. L’indagine di Costa prende infatti le mosse dalla rilevazione ‘sociologica’ dei molti tratti che inducono non pochi interpreti a ravvisare oggi i segni di un «disagio», se non di una ‘crisi’ o di un vero e proprio ‘declino’, della democrazia. Ed è quasi superfluo richiamare, in questi senso, ‘segnali’ come l’aumento della sfiducia nei confronti della classe politica, il declino nel tasso di iscrizione ai partiti, le percentuali sempre più elevate dell’astensione in occasione delle consultazioni elettorali, o anche il successo della retorica antipolitica. Tutti questi elementi possono essere considerati con chiavi di lettura molto diverse, ma senza troppe difficoltà alcuni osservatori li hanno potuti ritenere negli anni recenti come testimonianze della difficoltà di conservare una solida legittimazione da parte di tutti gli attori politici e da parte delle stesse istituzioni. Sull’individuazione delle cause più profonde di questa tendenza le opinioni sono invece molto lontane, e così le radici della «crisi» della legittimazione democratica sono state rinvenute, di volta in volta, nella progressiva «individualizzazione» delle nostre società, nella «disintermediazione», in una «mutazione antropologica» che investe il cittadino occidentale, nelle conseguenze del «neoliberismo», nella crisi della «democrazia organizzata» postbellica, nella dilatazione della «controdemocrazia». L’intento di Costa – e qui sta forse l’analogia con la prospettiva di Agamben – consiste invece nel procedere oltre la semplice rilevazione della contemporanea «crisi della legittimazione», per ricercarne le più profonde radici nel logoramento di uno specifico dispositivo giuridico. 

2. Il libro di Costa pone al centro «la crisi della legittimazione rappresentativa», e il punto di partenza della discussione è in particolare la constatazione del fatto che, considerando gli sviluppi giuspubblicistici degli ultimi decenni, «sembra essere revocata in dubbio la sufficienza del dispositivo della rappresentanza per la legittimazione della decisione pubblica» (p. 1). Evocando l’insufficienza del dispositivo della rappresentanza, ai fini della legittimazione della decisione, Costa allude a una serie di logiche che vengono progressivamente a minare il principio secondo il quale i rappresentati politici, mediante un atto giuridico, autorizzano i rappresentanti ad adottare decisioni pubbliche. «Ogni volta che, più o meno implicitamente, si sostiene l’insufficienza teorica di tale autorizzazione a legittimare la decisione pubblica», scrive Costa, «si apre un vulnus nei bastioni della legittimità rappresentativa, e normalmente gli sviluppi successivi non sono che la logica conseguenza (anche giuridica) di tale vulnus» (p. 2). In sostanza, Costa intende riferirsi a tutte quelle dinamiche che tendono a far promanare la decisione politica non dal canale della rappresentanza politica in senso stretto, ma da altri canali. In particolare, Costa ricorre ad alcune esemplificazioni, che chiariscono la logica del ragionamento, e innanzitutto, richiama il caso della partecipazione alle procedure deliberative da parte di soggetti estranei al circuito rappresentativo-elettivo, i quali però incidono sulla definizione del contenuto della decisione, col risultato di una progressiva indistinzione tra atto politico (libero nella determinazione delle sue finalità) e atto amministrativo (invece condizionato al raggiungimento di un fine stabilito dall’organo politico). Nella misura in cui il coinvolgimento nelle procedure di deliberazione di soggetti estranei al circuito rappresentativo si configura in termini di obbligo giuridico, regolamentato da specifiche norme procedurali, «l’atto deliberato, da politico che era», nota Costa, «inizia ad assumere la conformazione di un atto amministrativo, cioè di un atto posto in essere da un organo amministrativo, per sua natura non rappresentativo» (p. 6). E, dunque, «la crescente assimilazione dell’atto politico all’atto amministrativo mette in discussione il fondamento rappresentativo del primo, per fondarlo a propria volta sulla sola legalità» (p. 6). Ma la stessa logica si può ravvisare – oltre che nella dinamica di rappresentanza degli interessi e nell’applicazione del principio di «sussidiarietà» (su cui si veda peraltro anche il volume curato da F. Pizzolato e P. Costa, Il lato oscuro della sussidiarietà, Giuffrè, Milano, 2013) – al fondo del concetto di governance, il quale, «lungi dall’essere solo un neutrale concetto organizzativo o un mero ‘stile’ di governo, è a sua volta un concetto capace di concrete implicazioni politiche, istituzionali e giuridiche, non di rado incompatibili con la sovranità dello Stato moderno», principalmente perché, «in ultima analisi, non fonda la propria legittimazione sul processo dell’autorizzazione rappresentativa, ma sul presunto possesso di una conoscenza tecnica» (p. 11). 
La crisi della legittimazione, ad avviso di Costa, va dunque distinta dalla «crisi dello Stato», dalla «crisi della legittimità democratica» e dalla «crisi del ‘politico’». Inoltre, alle sue basi va soprattutto rinvenuto un nucleo «strettamente giuridico, non debitore verso le dominanti concezioni materiali ed empiriche del potere, politico ed economico» (p. 20). «Lo svolgersi della crisi della legittimazione» è cioè, ai suoi occhi, «principalmente interno al pensiero giuridico» ed «è proprio il livello giuridico ad esserne la principale determinante» (p. 24). Così il terreno in cui la ricerca punta a rimanere è quello strettamente giuridico: «Il presente studio vuole […] partire dal giuridico e rimanere al suo interno. Si è persuasi e si tenterà di dimostrare che anche le clamorose rivoluzioni politiche che hanno caratterizzato la modernità, quand’anche ictu oculi appaiano come un completo congedo dall’epoca precedente, non risolvano e, neppure, semplicemente superino le questioni a cui le precedenti comprensioni giuridiche intendevano rispondere. Nel mutare delle risposte, in altre parole, pare non muti un interrogativo giuridico di fondo. Tale interrogativo può essere definito come il problema della legittimazione giuridica ab externo del potere politico» (p. 24). 
Per fornire una risposta a questo interrogativo, Costa procede a ritroso, alla ricerca delle fondamenta del pensiero giuridico moderno, ma si spinge soprattutto – sulla scorta del classico saggio di E.H. Kantorowicz – a ravvisare il nucleo dottrinario centrale «dell’intero diritto pubblico» nel concetto di gemina persona: un concetto che – come osserva l’autore - «sembra esprimere non già una costante risposta bensì un costante interrogativo, a partire dal quale si inizia a pensare il diritto pubblico» (p. 30). E sulla scorta delle indicazioni fornite da questa antica dottrina della stagione dei Tudor, la motivazione profonda della crisi di legittimazione risulta essere «la caduta, tanto nella comprensione dei governati quanto nell’auto-comprensione dei governanti, di qualunque distinzione tra la persona fisica e l’ufficio da questa ricoperto, a detrimento di quest’ultimo, capovolgendo l’antica massima giuridica secondo cui ‘il più degno trae a sé il meno degno’» (p. 31). A sua volta, però, «la caduta del ‘diaframma’ dell’ufficio […] è solo l’epifenomeno di una caduta ben più rovinosa, quella della personalità dello Stato» (p. 31).
Quando richiama la dottrina dei due corpi del re, Costa non è interessato tanto alle sue radici teologiche, quanto alle sue implicazioni politiche. Ma certo non sfuggono a Costa le motivazioni per cui la dottrina viene costruita, ossia la necessità di elaborare un principio di legittimazione del potere che non può chiamare in causa la superiorità ‘naturale’ di un individuo su altri, nella misura in cui – assumendo la trascendenza di Dio rispetto agli uomini – viene preclusa la stessa possibilità di una gerarchizzazione ‘ontologica’ nelle relazioni umane. La gerarchizzazione, all’interno della visione medievale, non scaturisce infatti dalla ‘diversità’ tra gli esseri umani, bensì dalla gerarchizzazione orientata dall’ordine stesso del creato, in virtù della quale un individuo detiene un potere in virtù del compito che svolge all’interno di questa gerarchia: per questo, come osserva Costa, «la gerarchizzazione sociale, nella forma specifica dell’esercizio dell’auctoritas, richiede una legittimazione esterna, proprio perché nessun uomo ha in sé il diritto di elevarsi al di sopra degli altri» (pp. 42-43). E proprio per questo, «si rende […] necessario poter affermare che il sovrano governa non già in virtù delle proprie personali qualità (è e resta infatti un uomo che come tutti gli altri soggiace alle conseguenze della natura lapsa), ma per le qualità proprie di un qualcosa che lo trascende» (p. 45). In vista di una simile esigenza, la dottrina del Corpus mysticum viene a offrire uno strumento formidabile. Kantorowicz ricostruiva la graduale (e sorprendente) trasformazione della concezione del corpo mistico, che inizialmente era solo l’ostia consacrata, mentre in seguito venne a indicare – come per esempio affermò Bonifacio VIII nel 1302, nella bolla Unam Sanctam – che la Chiesa era «corpo mistico il cui capo è Cristo», assumendo così un significato non più sacramentale, bensì ‘sociologico’, per poi passare a indicare anche ‘corpi secolari’. 
L’importanza della gemina persona non riguarda però solo la genesi della modernità, perché la tesi di Costa è che essa contrassegni anche le stagioni successive: «Il grande travaglio dottrinale dei secoli che portano alla modernità politica presenta notoriamente significativi fattori di rottura concettuale e, prima ancora, metafisica, rispetto al sistema precedente. Nondimeno, ed è questa in sostanza la tesi che si sta tentando di dimostrare, sullo sfondo di questi sviluppi, e nello scenario della scristianizzazione dell’Europa, cambiano i dispositivi concettuali (o, forse, nascono per la prima volta) ma resta invariata la questione della legittimazione giuridica ab externo del potere e l’idea formale di gemina persona quale risposta ad essa» (p. 53). I momenti cruciali della rottura sono naturalmente rappresentati dalla graduale transizione alla modernità, e dunque alla rottura del rapporto fra sovranità e trascendenza: una rottura che si ravvisa già ai primi del Trecento, ma che si svolge poi con la riforma protestante e la rivoluzione scientifica, destinata a confluire nel Leviatano di Hobbes, in cui l’apparato della gemina persona viene trasferito nel corpo politico artificiale dello Stato. In questo senso, la dottrina della duplice persona dello Stato non viene effettivamente abbandonata, ma viene piuttosto riformulata, e in questo senso gioca un ruolo importante – persino cruciale – l’idea della rappresentanza: un’idea che esiste già nell’operazione di Hobbes, nel momento in cui, per effetto della rappresentanza esercitata dal sovrano, la moltitudine degli individui si trasforma in un popolo, ma il cui soggetto  fondamentale diventa in seguito, in quanto originario detentore della sovranità, proprio il popolo. La dottrina giuridica ottocentesca si incarica così di condurre al termine la costruzione della personalità dello Stato, almeno fino al momento in cui il positivismo kelseniano non sferra un colpo mortale a quella grande costruzione giuridica. E il ruolo di Kelsen – che «giunge a negare qualsiasi consistenza reale dei corpi politici al di fuori dell’ipotesi in cui la molteplicità irriducibile che li comporrebbe sia ridotta ad unità dallo stesso ordinamento giuridico» (p. 97) – risulta davvero cruciale, nelle ricostruzione proposta da Costa. Per il giurista austriaco, infatti, era solo «una crassa finzione considerare il popolo dello Stato come una comunità spirituale che produce una volontà collettiva nel senso della psicologia dei popoli», e non era neppure «necessario essere marxisti per considerare un fantasma, di fronte ai profondi contrasti di classe che dividono il popolo statalmente organizzato, che forma giuridicamente un’unità, una volontà collettiva che unifichi spiritualmente l’intero popolo». E il risultato non è, secondo Costa, solo l’insussistenza della persona reale dello Stato, ma anche qualcosa di più radicale: «ciò comporta […] la negazione dell’esistenza dello Stato e della sovranità e la riduzione dell’intero fenomeno politico-statuale ad ordinamento normativo astratto, privo di qualsiasi portatore. A questo punto il positivismo ha intenzionalmente ed espressamente rinunciato ad ogni volontà sovrana, e una critica diviene inevitabile. Non è più dato comprendere su quali basi sia costruibile un sistema di pura produzione normativa quale lo Stufenbau kelseniano se si rinuncia a fondare giuridicamente finanche la volontà legislativa. Ciò che per secoli ha costruito il principale problema del diritto pubblico, per Kelsen cessa di essere un problema giuridico. La questione della legittimità dell’autorità non sarebbe più un problema dei giuristi. Il positivismo denota così l’a-razionalità giuridica del proprio punto di partenza, ben visibile nell’impossibilità di definire i contenuti della Grundnorm» (p. 99). 
L’importanza che Costa assegna all’operazione di Kelsen non è solo determinata dal rilievo che il giurista austriaco assume nella dottrina giuspubblicistica novecentesca. È infatti proprio nell’eliminazione della «persona-Stato», portata avanti con determinazione dal positivismo giuridico, che Costa coglie la radici più profonde dell’odierna «crisi di legittimità», una crisi di cui l’emergere di principi alternativi alla legittimazione rappresentativa - come quelli relativi alla partecipazione, alla governance, alla rappresentanza degli interessi – non è altro che una logica  conseguenza. «Il loro affermarsi», scrive infatti Costa, «non sarebbe stato possibile se la rappresentanza non fosse stata scossa nelle sue fondamenta da un sommovimento spirituale assai più profondo», rispetto al quale «i concetti e i principi richiamati appaiono più come sistematico rimedio empirico che come sistematica causa teorica, da rinvenirsi invece quest’ultima in un ‘sistema’ antagonista della rappresentanza politica» (p. 111). Il ragionamento di Costa, in sostanza, parte dal presupposto – ricostruito a fondo nel corso del volume – secondo cui «nessun concetto, nessun principio, nessuna dottrina, nessuna idea, nessun sistema è mai giunto ad una fondazione razionale» dell’autorità pubblica «senza radicarla positivamente nella metafisica, o, quantomeno, in una metafisica» (p. 112). Ma se per il positivismo «ogni fondazione metafisica e per ciò razionale dell’autorità politica sembra divenire per la prima volta impossibile», «il tratto antimetafisico, che ha caratterizzato il positivismo scientifico sembra essere divenuto ora il tratto proprio di una diffusa comprensione politico-sociale, rendendo in questo modo problematico, nella prassi politica e giuridica, il movimento del trascendimento della persona titolare della carica pubblica ad opera della persona politica» (pp. 112-113). In altri termini, «pare che la cultura e gli stessi governanti esercitino o comunque accettino una incessante e radicale entmythiesierung di tutto ciò che in precedenza si considerava generato sotto il segno della ragione», col risultato che – detto in termini simbolici – «la sfera pubblica pare in preda ad una sorta di furia iconoclastica» (p. 113).
Sintomi della ‘demitizzazione’ sono, per esempio, la crisi del dispositivo della rappresentanza politica, testimoniato per esempio dalla «denuncia politica – espressamente registrata nel dibattito italiano – del divieto del mandato imperativo», o nella «crisi della persona sovrana dello Stato» (con la «conseguente e logica caduta della dottrina dell’imputazione organica»), o anche «l’ormai diffusa critica della stessa esistenza delle guarentigie proprie degli organi costituzionali» (pp. 114-115). Ma, al di là delle espressioni della crisi, sono particolarmente importanti le annotazioni finali cui giunge Costa, il quale scrive: « Il vuoto di legittimazione che oggi può registrarsi sembra dunque notevole. È difficile, se non impossibile, immaginare gli esiti di questo travaglio. Senza una legittimazione razionale esplicitata a livello politico e giuridico, nel lungo periodo non è possibile alcuna obbligazione politica. Lo è forse nel breve, ma correndo il non secondario rischio – che forse già stiamo correndo – che il vuoto, per usare le parole di Carl Gustav Jung, si riempia ‘idee politiche e sociali assurde’. Probabilmente, con un certo realismo, un tale vuoto non va esagerato. La legittimità degli Stati non è ancora del tutto tramontata e la sua copertura continua ad essere necessaria, quantomeno come plusvalore per forme di potere che ne sono prive. Tuttavia non pare essere la legittimità politica la soluzione a cui oggi si guarda, bensì la tecnica, che costituisce l’ultima e più radicale fase della spersonalizzazione della politica. La presunta  perfezione, oggettività ed esattezza della tecnica sono una possibile e attuale risposta (soprattutto in chiave economicistica) al problema della legittimazione ab externo del potere politico. Tale risposta consta precisamente della negazione della necessità stessa di un potere politico, dacché l’oggettiva tecnica offrirebbe la migliore delle soluzioni possibili senza necessità di una decisione politica o discrezionale: richiederebbe semplice esecuzione, imponendo da sé sia il fine sia il mezzo. In questo modo, non si obbedirebbe alla volontà di nessuno, e neppure si obbedirebbe alla legge sovrana, ma semplicemente ad una determinazione tecnica» (p. 116). Ma – sottolinea Costa, esplicitando una convinzione che sostiene d’altronde l’intero ragionamento - questa è «una soluzione che per sua natura può reggersi solo per il breve periodo», perché ogni tecnica – persino la più elaborata – mostra sempre, a un certo punto, un grado di imperfezione, dinanzi al quale riemergono tanto la decisione politica, quanto il problema della sua legittimazione (dal momento che anche nel caso in cui «il potere si dislocasse nella scienza, lo stesso confronto scientifico tracimerebbe in lotta per il potere, perdendo in questo modo ogni credibilità», p. 117). «Simili tentativi di risoluzione del problema della legittimazione ab externo del potere politico generano ipotesi più inaccettabili di ogni soluzione politica e giuridica oggi esplorata», e per questo, «se la crisi della sovranità degli Stati nazionali giungerà infine al suo compimento, al di là di soluzioni di breve periodo, occorrerà allora attendere che la scintilla della ragione generi una nuova geminatio legittimante» (p. 117).

3. Per l’enfasi che pone sulla «tecnica» come fonte di legittimazione, il libro di Costa può essere probabilmente considerato anche come un riflesso intellettuale della crisi dell’Unione europea, e in particolare di quello scontro tra la volontà popolare e i vincoli ‘tecnici’ cui assistiamo sempre più evidentemente nel Vecchio continente dal momento in cui la crisi economica ha investito l’Europa meridionale. Ma le radici del ragionamento di Costa sono molto più profonde, e non è affatto pretestuoso ravvisare il presupposto dell’indagine compiuta in Gemina persona in una vecchia prolusione, pronunciata da Giorgio Balladore Ballieri più di sessant’anni fa, nel 1951, all’Università di Padova e dedicata proprio a La crisi della personalità dello Stato. In quella conferenza, il giurista cattolico, oltre a ricercare le motivazioni della «crisi», chiariva quale fosse stata la motivazione che aveva indotto a costruire la «persona» dello Stato. E le sue parole – non solo perché costituiscono la premessa dell’indagine di Costa – meritano di essere rilette: «il principio della personalità dello Stato è stato introdotto con un fine precipuo: quello di spersonalizzare; spersonalizzare cioè la autorità politica, la fonte capace di rivolgere comandi alle collettività umane. L’antica dottrina vedeva nel sovrano, nel funzionario, in colui che comunque detenesse una parte della pubblica autorità, anzitutto l’uomo in fatto investito di quella autorità e che in fatto lo esercitava. Sul nostro capo continuano oggi a piovere come per il passato comandi, leggi, decreti, ingiunzioni, precetti, mandati; questi vari atti continuano come per il passato ad essere materialmente compiuti da uomini in carne ed ossa, ma fra loro, che ci governano, e noi, che siamo governati, vi è il diaframma dello Stato. La loro volontà in tanto ha il potere di obbligarci in quanto si sia trasformata e sia diventata volontà dello Stato; in tanto noi abbiamo il dovere di obbedire in quanto simile trasformazione si sia verificata. E non si tratta solo di qualcosa che inutilmente complici ciò che di per sé è semplice; o di un artificioso modo di renderci accettabile la dura realtà dell’obbedienza. Vi  è un profondo significato in questo modo moderno di concepire il rapporto tra pubblica autorità e sudditi, e vi corrisponde inoltre una reale rivoluzione intervenuta in proposito» (G. Balladore Pallieri, La crisi della personalità dello Stato, in «Jus», 1953, n. 1, p. 2). La rivoluzione su cui allora Balladore Pallieri attirava l’attenzione consisteva nel fatto che la decisione dello Stato si formava attraverso una serie di procedure non imputabili alla volontà di un singolo, bensì solo alla «persona» dello Stato: «Noi non siamo più governati da uomini; nelle leggi e nei vari atti che ci governano noi non riconosciamo più la loro volontà individuale ed empirica. È così lungo e così complesso il cammino perché si formi l’atto giuridico, sia esso la legge o qualsivoglia altro, che la volontà di coloro che materialmente hanno concorso alla sua formazione perde per istrada le proprie scorie, si purifica, diviene una volontà non più riconducibile a questo o a quell’altro individuo, non più collegata con le passioni, i motivi egoistici o altro che possono aver dato occasione al suo scorgere. Lo Stato non è solo un diaframma fra noi e i governanti […], è anche, ed anzi prima di tutto, un filtro attraverso il quale si decantano le volontà individuali e si dà loro quella obiettività e quella razionalità di cui difetterebbero altrimenti» (ibi, pp. 3-4). Anche Balladore Pallieri – così come oggi Costa – non poteva evitare però di riconoscere il peso che avevano le dottrine che, per motivazioni differenti, puntavano ad abbandonare del tutto il vecchio principio della personalità dello Stato, tanto nel campo del diritto interno quanto in quello del diritto internazionale. E in questo senso, osservava che – per quanto non fosse «per nulla disposto a buttare a mare con disinvoltura ciò che ci proviene dalla tradizione» - era necessario rivedere e affinare quella vecchia dottrina. «Se noi vogliamo salvare il patrimonio ideale che abbiamo ricevuto dalle generazioni immediatamente precedenti alle nostre, è tempo di metterci rapidamente al lavoro per sfrondarlo di tutto ciò che è superfluo, per correggerlo e modificarlo con energia di tutto ciò che oggi è anacronistico o anche semplicemente inopportuno, per rivederlo nella sua stessa ispirazione o, forse, per mancanza di ispirazione» (ibi, p. 14).
Qualche anno dopo, nella Prefazione alla sua Dottrina dello Stato, tornò, con un esplicito pessimismo, proprio su queste preoccupazioni, sottolineando – seppur solo fugacemente – come si stesse allora assistendo allo «sfacelo dello Stato tradizionale». Per Balladore «i presupposti dello Stato moderno» non valevano più: «La unità di ogni pubblica autorità e funzione nelle mani di un unico ente territoriale, lo Stato, non corrisponde integralmente alla realtà del mondo contemporaneo. Ai bisogni della difesa militare (che pure è uno dei più sicuri compiti tradizionalmente appartenenti allo Stato), alla risoluzione di certi problemi economici, lo Stato oggi non basta; organizzazione internazionali sorgono e li si sovrappongono, e ciascuna ha i propri confini, e per la difesa militare vi sono, come la Nato, certe unità conglobanti in sé certi Stati, e per certi problemi economici altre unità, come la Ceca e, domani, il Mercato Comune, conglobanti Stati parzialmente diversi dai primi. Per ogni funzione, cioè, tende a crearsi una organizzazione apposita, con propri confini territoriali determinati dalle proprie esigenze, e non coincidenti con i confini fissati per altra organizzazione che provvede ad altra funzione. Il principio a cui indefessamente ha lavorato tutto il mondo moderno di unificare nelle mani dello Stato ogni funzione sociale, così che a tutte sovrastasse un unico principi unitario, è intaccato alla base e nel suo stesso concetto ispiratore» (G. Balladore Ballieri, Dottrina dello Stato, Cedam, Padova, 1958, p. X). Ma la crisi dello Stato moderno non riguardava solo i rapporti internazionali, perché investiva anche il ruolo interno dello Stato, e in particolare il suo rapporto con i cittadini e la pluralità delle organizzazioni politiche. «Partiti politici, organizzazioni sindacali, coalizioni varie di interessi stanno oggi fra lo Stato e il cittadino», scriveva, e dunque «modificano notevolmente sia la sovranità che esso esercitava nel suo interno sia le libertà dei cittadini quali tradizionalmente intese» (ibi, pp. X-XI). E, in questo senso, non poteva dimenticare il peso della ‘guerra civile mondiale’, con considerazioni suggerite certo dall’esperienza della Seconda guerra mondiale, ma rinvigorite anche dal clima della Guerra fredda e dello scontro ideologico fra Oriente e Occidente: «lo Stato ha cessato di essere il massimo punto di riferimento e di unità per gli uomini e l’ente verso cui gli uomini in primo luogo professano la loro lealtà. Già nell’ultima guerra mondiale nella maggior parte degli Stati i cittadini han combattuto dall’una o dall’altra parte a seconda delle loro convinzioni politiche, e indipendentemente dalla posizione presa ufficialmente dallo Stato a cui appartenevano: cittadini degli Stati totalitari si sono schierati a fianco degli Stati democratici, e in questi ultimi i vari Quisling e seguaci a fianco degli Stati totalitari. E tutto lascia supporre che ove un conflitto dovesse sorgere tra gli Stati comunisti e Stati capitalisti, ciascun individuo, posto di fronte alla propria responsabilità, sceglierebbe non secondo la appartenenza allo Stato ma alle sue convinzioni di altro genere» (ibi, p. XI).
Più o meno nello stesso periodo in cui Balladore Pallieri scriveva quelle scarne righe di Prefazione alla Dottrina dello Stato, il nodo della «persona» affiorava anche nella prolusione che nel 1957 il suo allievo Gianfranco Miglio dedicava all’Unità fondamentale di svolgimento dell’esperienza politica occidentale. L’ipotesi di Miglio era infatti che nell’esperienza occidentale – in questo ben distinta da quelle orientali – fosse ravvisabile la costante aspirazione all’impersonalità del comando, ossia il tentativo di ‘razionalizzare’ il potere personale dei sovrani, imbrigliandolo in un complesso di regole e uniformità. Se la politica appariva a Miglio radicata in rapporti di dominio e obbedienza personali, nella storia dell’Occidente era riconoscibile una «ostinata lotta proprio contro questi aspetti naturali e più genuini della stessa obbligazione politica»: una «irrequieta e logicamente sempre contrastata ribellione all’autorità dell’uomo sull’uomo», che, sul piano istituzionale, aveva implicato il tentativo di «spersonalizzazione del comando» e il «toccante anelito ad un ordinamento in cui soltanto regnino precetti impersonali, sottratti all’arbitrio di ogni umana volontà» (G. Miglio, L’unità fondamentale di svolgimento dell’esperienza politica occidentale, in Id., Le regolarità della politica, Giuffrè, Milano, 1988, I, pp. 229-230). La più evidente testimonianza di quegli sforzi per Miglio era naturalmente rappresentata dalla medesima costruzione della ‘finzione’ della «persona» dello Stato. E proprio sulla scorta dei successi conseguiti, si spingeva a prevedere – con più ottimismo di Balladore Pallieri – che nel futuro prossimo il processo di ‘spersonalizzazione’ del potere sarebbe giunto a pieno coronamento, con la progressiva riduzione del ruolo dei rapporti personali di obbedienza, sempre più strettamente vincolati dalle ‘tecniche’ di gestione della società. E, se i portatori delle nuove tecniche fossero riusciti a «trasformare la dedizione al proprio dovere professionale nell’ideale di un servizio a più altra istanza», allora si sarebbe finalmente compiuto il progetto occidentale di ‘spersonalizzare’ completamente il potere
Qualche anno prima, al termine di uno studio sulla struttura ideologica della monarchia greca arcaica, Miglio aveva però intravisto affacciarsi una differente tendenza storica, che pareva procedere nella direzione opposta rispetto a quella seguita dalla ‘razionalizzazione’ del potere. La complessità dell’amministrazione statale contemporanea, aveva allora osservato, sembrava infatti richiedere «un ritorno alla unità del comando e alla diretta responsabilità degli aiutanti», con conseguenze inattese ma estremamente significative. Per effetto di quella necessità, sembrava infatti riaffiorare il carattere originario dell’obbligazione politica, e cioè quella dimensione ‘personale’ del dominio e dell’obbedienza, di cui peraltro negli anni seguenti Miglio avrebbe messo in luce la strutturale irriducibilità a procedure e norme giuridiche. E in questo senso le parole conclusive – davvero cruciali per ricostruire l’itinerario migliano – profilavano già una tesi che più tardi sarebbe stata ampiamente ripresa e compiutamente formulata: «è agevole constatare che gli aiutanti dell’amministrazione (al di sopra dell’osservanza formale dei regolamenti vigenti, ma in genere non contro di essi) sono interessati a raggiungere concretamente determinate mete, perché queste rappresentano i ‘programmi’ e le decisioni, espresse attraverso i suoi organi statutarî, da un partito, cioè da una minoranza dominante, nei confronti della quale gli aiutanti stessi – in quanto suoi affiliati, e praticamente designati – sono tenuti ad una stretta fedeltà. Orbene, questa obbligazione – tipicamente politica perché estesa fino al limite del «jus vitae et necis» - che si giustappone al dovere del ‘servizio’ verso l’amministrazione legale, ha preso esattamente il posto dell’antico diritto patrimoniale: quello che dall’età dei Diadochi fino al tramonto del «Polizeistaat» settecentesco venne richiesto in base alla prerogativa dominicale di un monarca, oggi è preteso in nome dell’obbedienza a capi carismatici e in forza della solidarietà di un più o meno ristretto gruppo dominante. In tal modo, anche come strumento ideologico atto ad assicurare, come un vincolo esterno all’ordinamento formale ed oggettivo vigente, l’efficacia dell’amministrazione pubblica, il concetto ‘patrimoniale’ dello Stato rivela la sua particolare portata storica» (G. Miglio, La struttura ideologica della monarchia greca arcaica -1956, in Id., Le regolarità della politica, cit., pp. 223-224).
Miglio alludeva allora soprattutto al dispotismo che aveva preso forma al di là della cortina di ferro, ma alcuni anni dopo – a partire dalla metà degli anni Sessanta – non avrebbe esitato a riconoscere le tracce di una riemersione degli aspetti originari e costitutivi dell’obbligazione politica anche in Occidente. E per molto versi, quando oggi – a distanza di più di sessant’anni dalle lontane considerazioni di Balladore Pallieri – ci interroghiamo sulla crisi della legittimità, oltre che sulla crisi della «persona-Stato», torniamo ancora una volta a quei vecchi nodi. Nodi che riguardano innanzitutto il ruolo della «tecnica» e la possibilità che possa davvero compiersi il progetto di una piena ‘razionalizzazione’ degli elementi originari del ‘politico’. Ma che riguardano anche il paradossale ritorno del corpo fisico dei detentori del potere, un corpo costantemente esibito, celebrato, ostentato nel quotidiano spettacolo della politica. 


4. Alcuni anni fa, Mauro Calise, in uno dei suoi scritti dedicati alle «Seconda Repubblica» italiana, individuò chiaramente la tendenza all’affermazione di un nuovo tipo di partito, il «partito personale», di cui Forza Italia era solo il primo esempio, emulato da tutte le altre formazioni politiche italiane. Dieci anni dopo la pubblicazione del volume, nella nuova edizione apparsa nel 2010, il politologo tornava a riconoscere la forza di quella tendenza alla personalizzazione che pareva avere spazzato via culture consolidate e rituali organizzativi, ma segnalava anche come il fenomeno dovesse essere «inquadrato sullo sfondo di una parabola più antica, e inquietante: il declino del corpo politico come patrimonio collettivo e il ritorno al vertice, della polis, del corpo nudo del potere» (M. Calise, Il partito personale. I due corpi del leader, Laterza, Roma – Bari, 2010, p. 10). In altre parole, secondo Calise, la tendenza alla personalizzazione mostrava come la previsione weberiana sulla vittoria del modello burocratico, e dunque sul tramonto delle forme tradizionali e carismatiche di legittimazione del potere, dovesse essere sensibilmente ridimensionata. «La vicenda del partito personale dimostra», scriveva infatti, «che anche i più longevi e saldi meccanismi di riproduzione del consenso e selezione della classe politica possono essere, improvvisamente e rapidamente, annessi alla logica riemergente della personalizzazione». Ma, soprattutto, notava come la tipologia weberiana non riuscisse più a cogliere la novità di molti processi: «La novità del potere personale all’alba del terzo millennio sta», osservava, «nella capacità di fondere le risorse patrimoniali e carismatiche con le leve istituzionali. Questo avviene grazie a un fattore imprevedibile agli esordi della razionalità burocratica, l’avvento delle comunicazioni di massa come tramite fondamentale di socializzazione culturale. Ma anche per la crisi del sistema di valori e ideologie che ha segnato la secolarizzazione delle grandi democrazie industriali. Nel ritorno del potere personale, si agitano pulsioni profonde di una polis alla ricerca di nuovi approdi» (ibi, p. 155).
Le intuizioni di Calise – a qualche anno di distanza – continuano a rimanere centrali per impostare la discussione sulle contemporanee trasformazioni dei partiti e del ruolo dei leader politici. Probabilmente, però, la lunga crisi che ha vissuto l’Unione europea e, soprattutto, la fragilità che hanno mostrato molte leadership all’apparenza solide non possono non suggerire un interrogativo cruciale, che riguarda proprio la relazione problematica che il processo di ‘personalizzazione’ del potere – ravvisabile in tutte le «tarde democrazie» - intrattiene con la storica tendenza occidentale alla ‘spersonalizzazione’ del potere. La riemersione del ‘corpo fisico’ del capo sembrerebbe infatti sancire il clamoroso fallimento del progetto occidentale di imbrigliare il potere dell’uomo sull’uomo grazie a rigide norme e procedure ‘impersonali’. Ciò potrebbe forse condurre a rimettere in discussione proprio la classica tipologia weberiana sulle fonti di legittimazione del potere, e dunque a interrogarsi sulla reale efficacia e autonomia di una legittimazione del potere fondata esclusivamente su procedure impersonali. Ma forse – e questo sarà presumibilmente un terreno di ricerca che nei prossimi anni dovrà essere battuto – diventerà indispensabile anche problematizzare lo stesso rapporto tra ‘personalizzazione’ e ‘spersonalizzazione’, anche tenendo conto delle dinamiche ‘esterne’ che condussero alla nascita dello jus publicum europaeum. Nella costruzione della «persona-Stato», accanto al percorso ‘interno’ – in cui legittimazione proviene ‘dal basso’, dal consenso, dalla rappresentanza – si colloca infatti anche un percorso ‘esterno’, per effetto del quale la legittimazione scaturisce da un processo di reciproco riconoscimento fra i magni homines, che calcano le tavole del palcoscenico politico. Ciò non significa naturalmente che la dimensione ‘esterna’ debba essere riconosciuta come prevalente rispetto a quella ‘interna’, perché nella modernità europea le due dimensioni si intrecciano l’una all’altra in una salda costruzione normativa. Ma significa che nell’analisi delle trasformazioni della legittimazione del potere – che sono anche, per molti versi, trasformazioni che intervengono nelle funzioni cruciali dello Stato e nelle strategie perseguite per assolvere a tali funzioni – diventa sempre rischioso isolare l’interno dall’esterno, e viceversa. Forse proprio per questo la stessa la dinamica della ‘personalizzazione’ contemporanea dovrebbe essere considerata alla luce delle dinamiche che intervengono ‘al di fuori’ dello Stato, e che per esempio negli ultimi anni hanno visto gli Stati, in cerca di legittimazione, costruire strumenti ‘tecnici’ di accertamento ‘neutrale’ della loro ‘credibilità’ internazionale. Non è detto naturalmente che la tendenza verso la ‘personalizzazione’ possa trovare in simili fattori una spiegazione esauriente (e sarebbe ingenuo pensarlo). Ma non è affatto escluso che, proprio per questo, quello della ‘personalizzazione’ del potere non debba rilevarsi come un successo in gran parte illusorio.

Damiano Palano

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