domenica 24 aprile 2016

L’Italia senza bussola nel lungo inverno europeo. La politica estera della «Seconda Repubblica» nell’analisi di Emidio Diodato




di Damiano Palano

Il libro di Emidio Diodato, Tecnocrati e migranti. L’Italia e la politica estera dopo Maastricht (Carocci, Roma, pp. 117, euro 14.00), cui è dedicato questo testo, verrà presentato all'Università Cattolica, a Milano, martedì 26 aprile alle 14.30, in un dibattito cui parteciperanno, oltre all'autore, Corrado Stefanachi, Stefano Procacci e Damiano Palano. L'incontro è inserito nel ciclo Democrazie in tensione.

In una calda serata romana dell’estate 1915, mentre percorreva per via Nazionale, Francesco Saverio Nitti ebbe modo di incrociare l’allora Presidente del Consiglio Antonio Salandra, che – come ogni giorno, al termine della giornata di lavoro – compiva una lunga passeggiata igienica per rientrare nella sua abitazione di via Carducci. Invitato da Salandra, Nitti – che rievocò l’episodio nelle sue memorie – accompagnò il Presidente del Consiglio nel tratto che conduce verso piazza Termini, e fatalmente, dopo alcuni cortesi convenevoli, la conversazione tra i due uomini politici finì per cadere sulla guerra. «Io» - ricorda Nitti - «evitavo di dirgli cosa alcuna che potesse dispiacergli; poi che in quel momento avevo risoluto di non creare difficoltà al governo. Ma fu egli stesso che mi disse che le cose procedevano bene, quantunque gli Austriaci avessero mostrato un’organizzazione e una resistenza maggiore di quello che si poteva supporre nei primi giorni». Pur senza esprimere apertamente i propri timori, Nitti non mancò di manifestare la sensazione che la guerra sarebbe stata lunga, e che avrebbe comportato per questo difficoltà notevoli. Proprio queste perplessità sollevarono in Salandra il sospetto che il collega non avesse abbandonato il proprio pessimismo. E lo scambio successivo fra i due statisti risolta da questo punto di vista quasi sconcertante, oltre che rilevatore. «Io gli risposi» - scrive Nitti - «che non ero pessimista e credevo alla vittoria finale, ma che mi rendevo conto della realtà. E a mia volta gli chiesi: “L’inverno sarà duro nelle Alpi. Hai provveduto completamente agli approvvigionamenti invernali per l’esercito?” Si fermò di botto. Eravamo sotto un fanale. Ricordo ancora la sua impressione di sorpresa e la sua aria diffidente. Mi disse: “Il tuo pessimismo è veramente inguaribile. Credi che la guerra possa durare oltre l’inverno?”»
Per chi rilegga le memorie di Nitti a un secolo di distanza dalla carneficina della Prima guerra mondiale, l’esibito ottimismo di Salandra non può che suonare piuttosto familiare. Perché, nel corso della «Seconda Repubblica», l’esibizione di ottimismo esasperato – un ottimismo talvolta caricaturale, ma sempre sprezzante nei confronti di quanti, sottolineando semplici dati di realtà, finiscono per essere svillaneggiati come alfieri di un deprecabile ‘sfascismo’ – ha spesso costituito l’arma retorica principale di tutti i principali leader che si sono succeduti a Palazzo Chigi. Anche se – presto o tardi – il forzato ottimismo ha invariabilmente avuto la peggio nell’impietoso confronto con i fatti. Ma forse le memorie di Nitti possono anche offrire un buon prologo per rileggere l’intera storia italiana dell’ultimo trentennio. Perché probabilmente si può riconoscere qualcosa della sconcertante combinazione fra sventato ottimismo, colpevole dilettantismo e criminale improvvisazione, che trascinò l’Italia nella tragedia della Grande guerra, anche nelle dinamiche che condussero la classe politica della tramontante «Prima Repubblica» a sottoscrivere la decisione destinata a determinare il destino del Paese per decenni, e cioè la firma del Trattato di Maastricht.
Alcuni anni fa, nel suo prezioso volume Il vincolo esterno. Le ragioni della debolezza italiana (Mimesis, Milano, 2114), rileggeva proprio le dinamiche che avevano condotto l’Italia a Maastricht, inserendo quella decisione all’interno di una storia di lungo periodo. L’idea di fondo di Diodato – un politologo che, col garbo compassato dello studioso super partes, riesce, quasi senza darlo a vedere, a smontare pezzo dopo pezzo molti dei più consolidati e frusti luoghi comuni della discussione sul ‘caso italiano’ – era che  il mutamento nell’assetto interno di uno Stato costituisca sempre il riflesso delle trasformazioni che si producono nel sistema internazionale. Ma, soprattutto, in quel libro Diodato - anche sulla scorta dell'impostazione illustrata in alcuni suoi testi precedenti, come in particolare Il paradigma geopolitico (Meltemi, Roma, 2010) e Che cos'è la geopolitica (Carocci, Roma 2013) - tentava di cogliere l’intreccio strettissimo tra la dimensione interna e quella internazionale della politica italiana, sottolineando il peso che avevano avuto – nell’indirizzare la democratizzare italiana del secondo dopoguerra – tre «vincoli esterni»: innanzitutto, l’adesione agli istituti di Bretton Woods, dopo la seconda guerra mondiale; in secondo luogo, l’entrata nel Sistema Monetario Europeo nel 1979; e infine l’adesione ai rigidi parametri fissati a Maastricht. Fra le molte sollecitazioni che quel volume sottoponeva al dibattito (anche relative al modo di concepire gli studi politici), Diodato suggeriva una risposta alla domanda sui motivi che avevano spinto la classe politica della «Prima Repubblica», ormai al termine della sua parabola, a sottoscrivere (e anzi ad appoggiare con entusiasmo) un trattato che, di fatto, comportava la fine della ‘sovranità economica’ italiana e che, soprattutto, implicava enormi rischi per l’economia del Paese. La tesi di Diodato, da questo punto di vista, era quasi cristallina: con la dissoluzione del blocco sovietico, le tradizionali linee di politica estera adottate dall’Italia risultarono rapidamente inservibili, tanto da mettere in crisi l’immagine di «media potenza regionale» costruita nel corso dei decenni.
L’assenza di una politica estera adeguata al nuovo scenario aprì invece uno spazio di manovra all’iniziativa di Guido Carli, ministro del Tesoro ai tempi della sottoscrizione del Trattato Maastricht (oltre che principale negoziatore italiano nelle lunghe trattative che precedettero la firma). In particolare, Carli intuì come il nuovo contesto – dominato dalla riunificazione tedesca – offrisse una strada praticabile alla costruzione di un nuovo «vincolo esterno», cui ancorare la classe politica italiana e l’economia di un Paese, secondo la visione dell’ex Governatore della Banca d’Italia, ‘antropologicamente’ ostile ai principi dell’economia di mercato. Ma il nuovo «vincolo esterno» – come scriveva Diodato – ha finito col tradursi in un fardello sempre più pesante: «non siamo in grado di capire se l’Unione saprà rivelarsi la risposta adeguata alla crisi della sovranità dello Stato moderno. Quel che sappiamo è che l’Italia, a causa del suo ritardo con la modernità, nel corso del Novecento si è trovata a dover gestire un vincolo esterno divenuto sempre più costrittivo. Il rischio è che l’attuale vincolo monetario possa paralizzare lo sviluppo democratico ed economico del paese, soprattutto se la corruzione politica renderà vana ogni virtù nazionale» (ibi, p. 103). 
Nel suo volume più recente, Tecnocrati e migranti. L’Italia e la politica estera dopo Maastricht (Carocci, Roma, pp. 117, euro 14.00), Diodato riprende questa tesi, per ragionare in particolare sulla collocazione internazionale del Paese nel corso della «Seconda Repubblica». Un primo nodo che Diodato tenta di dipanare nel suo nuovo lavoro è quello che stringe il crepuscolo della «Prima Repubblica» alla nascita della «Seconda». E qui non può evitare di tornare al ruolo chiave giocato da Guido Carli al tavolo dei negoziati destinatati a partorire il Trattato sull’Unione europea, approvato dai capi di governo della Comunità europea nel dicembre 1991 e poi firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992. Benché il Trattato fosse approvato dal Parlamento pochi mesi dopo con una semplice legge di ratifica, era chiaro a molti che, di fatto, l’adozione delle misure fissate a Maastricht implicava una modifica di carattere costituzionale (in ordine al diritto di voto nelle elezioni amministrative). Ma, paradossalmente, non ci si avvide – o non si sottolineò nel corso del dibattito – un aspetto ben più rilevante: e cioè, come scrive Diodato, «che si stava procedendo in modo irreversibile all’abbandono dell’individualismo nazionale su questioni di sovranità monetaria, totalmente, e su questioni di politica e di bilancio, parzialmente» (p. 21). Mentre «forse solo Carli ebbe piena consapevolezza del rilievo costituzionale del futuro assolvimento degli obblighi economici» (p. 21). 
Lacerato tra due diverse impostazioni – come egli stesso ammise – Carli si convinse probabilmente, nel passaggio tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta, che la classe politica al governo del Paese (dunque democristiana e socialista) fosse del tutto incapace di avviare una riforma istituzionale e soprattutto di adottare criteri di rigore nella gestione della spesa pubblica. Il momento di svolta, per Carli, furono – secondo la ricostruzione proposta da Diodato, ma suggerita in qualche misura dallo stesso ex governatore della Banca d’Italia – le dimissioni di Mario Sarcinelli da Direttore generale del Ministero del Tesoro, nel dicembre 1990, in risposta alla richiesta dell’allora Ministro degli Esteri Gianni De Michelis di concedere un prestito ad Algeria e Unione Sovietica (paesi considerati a rischio dal Fondo monetario). Dopo le dimissioni di Sarcinelli, Carli nominò un gruppo di tecnici che avrebbe dovuto lavorare alla negoziazione del Trattato sull’Ue e che comprendeva personalità (di differente estrazione), come Mario Draghi, Tommaso Padoa-Schioppa, Mario Monti e Francesco Giavazzi. Ma il gesto di Sarcinelli confermò in Carli la convinzione che solo ancorando le scelte politiche a un «vincolo esterno» si sarebbe potuta evitare la deriva del sistema economico italiano. «La nostra scelta del vincolo esterno», ammise d’altronde Carli nelle proprie considerazioni retrospettive, «nasce sul ceppo di un pessimismo basato sulla convinzione che gli istinti animali della società italiana, lasciati al loro naturale sviluppo, avrebbero portato altrove questo Paese» (G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana,a  cura di P. Peluffo, Laterza, Roma-Bari, 1993, p. 267). In altre parole, Carli vide nel «vincolo esterno» uno strumento per ‘neutralizzare’ l’autonomia della classe politica e per costringerla in una camicia di Nesso di disposizioni ‘tecniche’ non aggirabili. In questo senso, Diodato coglie perfettamente la nitida logica ‘tecnocratica’ che sosteneva il ragionamento di Carli, e cioè una logica non semplicemente contrassegnata dall’idea che la ‘tecnica’ abbia proprie necessità, ma soprattutto dalla convinzione che la ‘tecnica’ e le sue ragioni siano superiori alla politica e si debbano imporre – persino con la forza – alla politica, nonostante ciò finisca col comportare una sostanziale ‘de-democratizzazione’: «In quanto strumento politico, il vincolo europeo rappresentò la disponibilità a sacrificare non solo un po’ di sovranità, ma anche la democrazia nazionale sull’altare dell’integrazione europea. Nella sua monocraticità, il tecnico che per primo lo propose accettò le vesti del custode platonico. Il suo apporto individuale nasceva dalla necessità di far fronte al sovraccarico della democrazia, ossia di un regime politico che autonomamente non sarebbe riuscito ad abbattere quei costi di transazione collegati alla difficoltà di mantenere impegni di lungo periodo in società complesse, particolaristiche e differenziate» (E. Diodato, Tecnocrati e migranti, cit. p. 26).
Se retrospettivamente risulta del tutto chiara l’impronta tecnocratica che indusse Carli e i negoziatori verso la strategia del «vincolo esterno», è invece molto più complesso comprendere per quali motivi la classe politica accettò, sostanzialmente senza neppure resistere, una simile proposta. Da questo punto di vista, la risposta che fornisce Diodato è molto interessante, perché, più che sottolineare l’incomprensione delle conseguenze di Maastricht da parte del ceto politico, si sofferma sulla debolezza che l’Italia maturò in campo internazionale a partire dal fatidico 1989, e dunque sul tentativo di ritrovare un nuovo spazio di credibilità e riconoscimento, proprio grazie alla sottoscrizione del Trattato sull’Unione europea. In particolare, Diodato si sofferma su quattro eventi, che consumarono nell’arco di pochi mesi la posizione di «media potenza» che l’Italia aveva faticosamente conquistato nel corso dei decenni: in primo luogo, la riunificazione tedesca, che il governo Andreotti tentò di osteggiare (evocando persino lo spettro del ritorno del «pangermanesimo») senza successo, spostando in seguito il proprio obiettivo sul rafforzamento dell’Europa, inteso come strumento in grado di bilanciare il ruolo della Germania, ma, al tempo stesso, senza perseguire una chiara linea sui poteri da assegnare al Parlamento europeo; in secondo luogo, la prima Guerra del Golfo, che spazzò via definitivamente il ruolo di interlocutore degli Stati Uniti nell’area mediorentale; inoltre, la dissoluzione della Jugoslavia, che vide nuovamente la sconfitta della linea italiana, dinanzi alla posizione tedesca, favorevole al riconoscimento internazionale di Slovenia e Croazia; infine, la crisi albanese, nell’agosto 1991, che esponeva per la prima volta l’Italia alla realtà di un flusso migratorio di massa, ma che contemporaneamente rendeva poco credibile agli occhi dei partner europei la capacità del Paese di controllare le proprie frontiere. Dinanzi a questi nuovi scenari, la linea adottata dal governo nei negoziati europei fu frammentata e mutevole, ma – tra le varie ipotesi – ebbe per questo la meglio proprio l’opzione ‘tecnocratica’, fondata sulla centralità del «vincolo esterno», sostenuto in modo continuativo e coerente da Carli e dai suoi collaboratori.
Al di là delle motivazioni che condussero l’Italia ad adottare – anzi a sostenere energicamente – il Trattato di Maastricht, i parametri fissati nel testo erano destinati a pesare in modo decisivo sui destini della «Seconda Repubblica». In questo senso, Diodato ritiene anzi che, oltre alla politica estera, l’intero complesso della politica interna italiana sia stato dominato dal «vincolo esterno». In altri termini, le forze politiche protagoniste del nuovo scenario si caratterizzarono proprio per il diverso atteggiamento adottato rispetto a Maastricht: mentre il centro-destra puntò, sin dal primo governo Berlusconi, a ‘rinazionalizzare’ la politica estera, il centro-sinistra adottò una prospettiva ‘internazionalista’, e cioè principalmente ‘europeista’. La ‘rinazionalizzazione’ del centro-destra non riguardava infatti rivendicazione territoriali, ma semplicemente i vincoli di Maastricht, e in nuce in questa posizione si nascondeva un euroscetticismo destinato a palesarsi sempre più chiaramente con il passare del tempo. Nell’internazionalismo del centro-sinistra allignava invece una contraddizione, perché si trattava di un internazionalismo che – a differenza del vecchio internazionalismo comunista – si fondava sulla centralità dei «vincolo esterno» europeo: una centralità che naturalmente poteva funzionare politicamente solo fino al momento in cui il vincolo avesse prodotto conseguenze ‘virtuose’ e non avesse implicato solo ‘sacrifici’ imposti agli elettori. E in questo senso, la parabola dell’Ulivo di Prodi illustra nitidamente la logica di fondo dell’operazione, oltre che tutta la sua debolezza: «Tra il 1996 e il 1998, il governo Prodi diede un significato molto preciso agli ‘interessi internazionali’ dell’Italia già evocati nel programma del 1994. Portare l’Italia in Europa e assegnare al paese responsabilità internazionali nella gestione della sicurezza era un modo sicuramente nuovo di intendere il ruolo del paese nella globalizzazione. Maastricht e Schengen dovevano certo essere adattati al sistema politico italiano, cercando di conciliare il rigore con l’equità e con l’accoglienza. L’Ulivo era dopotutto l’albero di un’Europa mediterranea, capace anche di equità e di accoglienza. Tuttavia, l’impronta europea e internazionale del governo Prodi delineava un percorso geopolitico che, mentre si discostava da quello del centro-destra, orientava la sinistra italiana in una direzione che deviava dalla strada dell’internazionalismo comunista» (p. 68). Ma non solo per questo l’Ulivo non riuscì a estendere la propria egemonia all’insieme della sinistra. Alla base del suo fallimento stava infatti, probabilmente, la difficoltà di far convivere il rigore tecnocratico con il sostegno degli elettori: «L’Ulivo di Prodi non riuscì a trasformare un progetto sostanzialmente tecnocratico, cioè governato dal rigore dei vincoli europei, in un progetto politico capace di coniugare la stabilità economica richiesta dai mercati con la crescita economica richiesta dagli elettori. Non vi riuscì nonostante che nella metà degli anni Novanta prevalesse ancora un sostanziale ottimismo legato alla globalizzazione economica» (p. 69). 
Dopo la breve esperienza del primo governo Berlusconi, la ‘rinazionalizzazione’ della politica estera portata avanti dal centro-destra si definì nitidamente a partire dal 2001, e in particolare in seguito agli attentati terroristici dell’11 settembre, quando la coalizione assunse uno specifico profilo ‘neoatlantista’: un neoatlantismo «ispirato dal fastidio per il vincolo europeo» e, dunque, «in parziale rottura con la stessa tradizione italiana», oltre che sostanziato di posizioni «quasi sempre dissonanti rispetto agli indirizzi prevalenti all’interno dell’Unione europea, in particolare per il fermo appoggio italiano al governo di Israele» (p. 82). Progressivamente, mentre peraltro Berlusconi si avvicinava sempre più a Putin, il centro-destra smarriva le proprie iniziali coordinate di politica economica, perché in un contesto di prolungata stagnazione – che in Italia, vale la pena di ricordarlo, iniziò a delinearsi già al principio del nuovo secolo – l’ottimismo degli anni Novanta e l’idea che fosse sufficiente ‘liberare’ le energie latenti nella società italiana si rivelavano armi del tutto spuntate. Ma fu in questo stesso quadro che, soprattutto dopo il 2008, la politica estera italiana prese a configurarsi sempre più chiaramente come una risposta al «vincolo esterno», anche per tentare di far fronte ai problemi creati da Schengen. 
Né l’europeismo del centro-sinistra, né il neoatlantismo del centro-destra erano destinati però a partorire «una politica estera europea capace di formare un blocco sociale egemone» o «una politica mediorentale e mediterranea capace di registrare le variazioni del grado di tensione internazionale nella regione, quindi di confrontarsi con le scelte degli altri paesi europei» (p. 99). In questo modo si aggravava ulteriormente lo storico ‘ritardo’ italiano rispetto al Vecchio continente. Ma il fallimento della «Seconda Repubblica» deve anche essere interpretato come un fallimento nell’aggiustamento strategico richiesto all’Italia dal nuovo contesto internazionale. In questo quadro, i risultati deludenti sul fronte mediterraneo conseguiti dall’Italia non furono però solo il frutto della frammentazione politica e della discontinuità degli indirizzi seguiti dai diversi esecutivi. Alla base di esiti in larga parte, secondo Didoato, insoddisfacenti, si trova infatti la stessa adesione italiana all’Europa di Schengen, con la quale di fatto venne adottata la linea di gestione delle politiche migratorie definita da Francia e Germania negli anni Ottanta. Come scrive in questo senso Diodato: «L’ingresso nell’Europa di Schengen nel 1997 non fu dunque una semplice decisione a favore della libera circolazione e dell’abolizione dei controlli alle frontiere comuni, ma un atto di politica estera con cui si accettò una certa visione della politica sull’immigrazione e della stessa politica estera dell’Unione europea e dei suoi Stati membri. Oltre a chiamare in causa le politiche di gestione dei flussi migratori, Schengen ha investito direttamente gli interessi geopolitici nazionali. Non si è trattato solo di decidere se e come conformare la politica immigratoria italiana alle politiche europee, ma di decidere se e come conciliare la scelta europea con le ambizioni di proiezione mediterranea dell’Italia. Il ritardo con cui l’Italia fece il suo ingresso nell’Europa di Schengen è imputabile, infatti, alla volontà del governo Craxi negli anni Ottanta di favorire una proiezione internazionale del capitalismo italiano nelle sue aree di riferimento tradizionali, Mediterraneo e Medio Oriente. Con l’ingresso nell’Europa di Schengen, qualsiasi scelta mediterranea e mediorentale del paese avrebbe dovuto confrontarsi con la decisione di rispettare il sistema europeo di regolamentazione dei flussi, nella condizione di paese di confine dell’Unione» (p. 103). Per molti versi dunque – questa la conclusione di Diodato – Schengen ha sottratto all’Italia la propria politica mediterranea, mentre i principi di Maastricht non sono stati in grado di fornire alla penisola una politica europea: «Osservando il decorso della politica estera dopo Schengen, alla luce delle lezioni apprese sulle missioni militari, l’incompiutezza della transizione italiana può imputarsi, oltre che alla difficoltà di mantenere gli impegni europei e a trovare una linea bipartisan, anche alla tensione geopolitica tra scelta europea e condizione mediterranea. Questa tensione ha impedito un’efficace regolazione strategica mediante le istituzioni internazionali e sovranazionali come l’Onu e l’Unione europea» (p. 103).
Proprio il ruolo assegnato a Maastricht e Schengen, nell’interpretazione della politica estera italiana, chiarisce il motivo per cui Diodato fissi già nel titolo la centralità dei tecnocrati e dei migranti. Il titolo riecheggia naturalmente altre grandi coppie – il soldato e il diplomatico, il mercante e il guerriero – che hanno dominato nel passato la scena internazionale. Ma, evidentemente, l’accostamento fra il tecnocrate e il migrante riflette anche qualcosa di radicalmente nuovo, se non altro perché il migrante non è un protagonista delle scelte politiche. Per Diodato, il tecnocrate è infatti la figura simbolo della stagione che stiamo vivendo, e più in particolare di quella sorta di «utopia tecnocratica» su cui il progetto europeo – nella variante di Jean Monnet, molto lontana da quella auspicata dal altri storici esponenti dell’europeismo, come Altiero Spinelli – si è fondato sin dalle origini. La centralità che il tecnocrate assume nella costruzione europea dipende infatti dalla stessa impronta neo-funzionalista adottata fin dagli anni Cinquanta. In virtù di una simile impronta il tecnocrate – «figura moderna del custode platonico, un guardiano che non evoca più, primariamente, l’azione di un protettorato armato, ma la decisione saggia di un sapiente qualificato da una superiorità etica, che ha le sue radici nel mondo della produzione e dell’economia» (pp. 8-9) – svolge la funzione di garante super partes sul rispetto delle regole ‘tecniche’ concordate dai paesi. Per una serie di decisioni politiche, «si realizza un trasferimento di poteri in senso tecnocratico», e soprattutto si afferma un principio tecnocratico «basato su un’amministrazione razionale, preferita al principio della rappresentanza elettiva, quindi su una scienza economica che alla fine prevalga sull’arte di governo» (p. 10). Questa tendenza in realtà non riguarda in modo specifico l’Ue. «La globalizzazione dei mercati», scrive infatti Diodato, «ha accresciuto l’importanza della credibilità degli impegni di lungo periodo e difficilmente i governi possono agire al di fuori dal quadro istituzionale europeo. Compito assegnato ai tecnocrati nazionale è allora quello di mantenere quella solidarietà de facto senza che i popoli cedano al sospetto che ciò avvenga nell’interesse di un paese a capito dell’altro» (p. 13). Ma è scontato che le conseguenze più rilevanti riguardino proprio i paesi membri dell’Ue. Al tempo stesso, la figura del migrante - «che tenta di entrare in modo abusivo affrontando per ogni via i tentativi europei di respingimento» - diventa la seconda figura simbolo dell’ultimo quarto di secolo, la «pietra dello scandalo dell’utopia tecnocratica», perché innesca una sfida indirizzata direttamente al ruolo del tecnocrate: «il migrante assegna ai tecnocrati il compito di mantenere una solidarietà europea de facto, senza che gli elettori nazionali cedano al sospetto che l’Unione imponga ai suoi membri di accogliere i richiedenti asilo nell’interesse di uno a scapito dell’altro» (p. 16). E l’accostamento tra «tecnocrati» e «migranti» – come scrive Diodato nelle pagine introduttive – riesce a cogliere così tutta l’eredità che il «vincolo esterno», fissato dai due trattati di Maastricht e di Schengen, consegna all’Italia della «Seconda Repubblica»: «Maastricht, la rinnovata scelta europea, seguita nel 1997 dall’ingresso dell’Italia nel sistema di Schengen, è la decisione più importante che il paese abbia preso dopo l’improvviso e inaspettato innalzarsi di quel sipario di ferro che, nel bene e nel male, aveva fortemente condizionato la storia repubblicana. Ma soprattutto, nel caso italiano, l’attuazione di Maastricht si accompagna alla crisi del sistema dei partiti e, come vedremo, favorisce quella transizione politica che ci si è affrettati a denominare ‘Seconda Repubblica’. È questa condizione, ossia il forte legame tra livello europeo e livello domestico, a rendere il caso italiano particolarmente rilevante. Le vicende internazionali ed europee e le vicende interne si intrecciano a tal punto che può apparire perfino vano qualsiasi tentativo di sbrogliare la matassa. Afferrare il bandolo, ciò che questo libro propone di fare, può però servire a scoprire quali sono gli intrecci principali, come e perché si sono formati, senza alcuna pretesa di chiarire o risolvere definitivamente il groviglio» (p. 18). Nonostante Diodato non pretenda di sciogliere l’intricato groviglio, la sua tesi pone però in primo piano proprio la dimensione internazionale, nel senso che ritiene che «seguendo le vicende della politica, tenendo sullo sfondo le figure del tecnocrate e del migrante, si possa comprendere meglio la transizione del sistema politico italiano in seguito alla rinnovata scelta europea» (p. 18). Ma Diodato non manca di rilevare opportunamente come l’«utopia tecnocratica» sia investita progressivamente, almeno da un decennio, da una duplice crisi di legittimità. Per un verso, la crisi economica «erode la legittimità di quei cittadini europei (non di passaporto tedesco) che non attribuiscono lo stesso peso alla lotta all’inflazione, che invece a partire dagli anni Venti è stata vista come un imperativo in Germania». «Lungo il crinale tra tecnica e tecnocrazia iniziano allora ad agitarsi tutti i governi nazionali, che non possono facilmente rinunciare al principio della rappresentanza elettiva e le cui politiche europee iniziano ad assumere il carattere di politiche estere della politica interna dell’Unione» (p. 10). Per l’altro, l’«utopia tecnocratica» si scontra con le conseguenze dell’allargamento (e dunque, da un certo punto di vista, con le conseguenze del potere attrattivo dell’Ue sugli aspiranti nuovi membri), soprattutto sul terreno della gestione delle politiche migratorie e in particolare in relazione ai principi fissati con il «regolamento di Dublino», in virtù del quale è lo Stato membro competente per la domanda di asilo che deve prendersi carico del richiedente. Mentre infatti «il regolamento ha una sua razionalità nel distribuire le competenze assegnandole agli Stati in cui è presentata la domanda di asilo», «quando il flusso migratorio assume le sembianze di un esodo inarrestabile, almeno nell’immaginario delle opinioni pubbliche nazionali», osserva Diodato, «allora il sistema si dimostra inefficace se non innesca un meccanismo tecnico che preveda un travaso di competenze dal livello nazionale a quello europeo» (p. 15). E proprio per questo, la realtà di flussi migratori, dinanzi ai quali la militarizzazione del confine non svolge le tradizionali  funzioni di ‘presa sulle vite’, finisce col mostrare l’inefficacia dell’utopia tecnocratica e con l’esporre quell’utopia a critiche sempre più radicali.
Negli ultimi anni il nostro modo di guardare alla costruzione europea è sensibilmente cambiato, e anche i più convinti sostenitori dell’«utopia tecnocratica» hanno dovuto prendere atto dei fallimenti, delle inefficienze, dei rischi cui espone il progetto di integrazione perseguito a partire dalla fine degli anni Ottanta. Parallelamente, quelle critiche che un tempo erano confinate alla schiera marginale e un po’ sospetta degli «euroscettici», sono diventate un patrimonio largamente condiviso. Naturalmente ciò non significa che le più sciatte polemiche dell’anti-europeismo siano effettivamente sempre fondate, o che sia legittimo rappresentare il processo di integrazione come una sorta di ‘complotto’ ordito da oscure élite ai danni dei popoli del Vecchio continente. Più semplicemente, per quanto concerne il ‘caso italiano’, il processo di integrazione per via ‘tecnocratica’ (e non ‘politica’) – come il libro di Diodato mostra in modo efficace – rappresentò uno strumento con cui alcune componenti delle classi dirigenti (che non possono certo essere ridotte al solo Carli) intesero adeguare il ‘sistema-Paese’ alle esigenze di un nuovo assetto, segnato dalla globalizzazione dei mercati e dalla crescita della competizione internazionale. In sostanza, l’«utopia tecnocratica» fu allora una scelta compiuta non solo nella convinzione che, per le sorti del Vecchio continente, la strada del ‘neofunzionalismo’ fosse adeguata e preferibile a ogni soluzione che anteponesse l’integrazione politica a quella economica, ma soprattutto  nella consapevolezza che quella opzione fosse in grado di ‘neutralizzare’ la classe politica italiana (in particolare la classe politica democristiana), di ‘costringerla’ ad adottare i principi del rigore di bilancio, e dunque di introdurre meccanismi ‘strutturali’ capaci di rendere ‘virtuosa’ la gestione della spesa pubblica. Naturalmente, tutto questo avveniva in momento storico in cui il debito pubblico italiano, a causa principalmente della separazione tra Ministero del Tesoro e Banca d’Italia, dopo essere raddoppiato nel corso di un decennio, era ormai del tutto fuori controllo. Ma, soprattutto, avveniva in un momento storico in cui la classe politica della «Prima Repubblica» appariva sempre più frammentata al proprio interno e sempre più priva di quelle risorse di credibilità internazionale su cui aveva puntato per fare dell’Italia una «media potenza», centrale nelle dinamiche del «Mediterraneo allargato». A distanza di un quarto di secolo dai mesi cruciali che condussero a Maastricht, possiamo forse considerare la decisione italiana di appoggiare con forza l’ipotesi dell’integrazione economica e monetaria, intesa come strumento capace di bilanciare la minaccia rappresentava dalla Germania riunificata, come una sorta di suicidio – forse non del tutto consapevole – per la classe politica della «Prima Repubblica». Ma, venticinque anni dopo la firma solenne del Trattato sull’Unione europea, abbiamo ormai anche la sensazione che l’«utopia tecnocratica» mostri una serie di crepe non rimarginabili, e destinate anzi a diventare sempre più profonde. Crepe di cui diventano simboli eclatanti, per un verso, la lettera del Presidente della Bce al governo italiano dell’agosto 2011 o il diktat europeo seguito al referendum greco del luglio 2015, e, dall’altro, l’isola di Lesvos e i muri di sbarramento che stanno nascendo al Brennero e su altri confini interni dell’Ue. Al tempo stesso, è sempre più evidente che anche la strategia tecnocratica di ‘risanamento’ della politica e dell’economia italiana in cui Carli aveva confidato, e che aveva affidato alle virtù del «vincolo esterno», si sia risolta in un fallimento, certificato dal declino economico del paese, dalla stagnazione prolungata, dal peso sempre più insostenibile del debito pubblico. Tanto che all’orizzonte molti iniziano a intravedere nubi cariche di tempesta, che sembrano preannunciare, più che il semplice naufragio dell’«utopia tecnocratica», una radicale crisi del progetto di integrazione, dalle conseguenze imprevedibili. 
Osservati oggi – dalla prospettiva forse eccessivamente pessimista suggerita dal presente che abbiamo dinanzi – le promesse di prosperità, pace e sviluppo con cui, negli anni Novanta, venivano invariabilmente associate all’«appuntamento di Maastricht» e all’«ingresso in Europa» non possono che apparire come un clamoroso abbaglio storico, forse dovuto a improvvisazione, forse a errori di valutazione, o forse ancora imputabile a una consapevole volontà di ‘depoliticizzare’ i sistemi democratici europei. Ma ciò che più conta è che da quella «trappola», in cui il Vecchio continente si è infilato negli anni Novanta, non sembra esistere alcuna via d’uscita, per l’impossibilità ‘economica’ di uscire dalla moneta unica senza pagare enormi costi sociali e per la l’impossibilità ‘politica’ di procedere verso la costruzione di un’unione federale e democratica. Qualcuno potrebbe naturalmente obiettare che, in realtà, ci sono altre opzioni, che la politica ha ancora molte carte a disposizione, e che proprio l’insieme di queste grandi difficoltà potrebbe spingere le élite europee al ‘salto’ necessario per proseguire nel percorso di integrazione. Ma dinanzi all’ottimismo esasperato che viene inalberato per convincerci che i problemi di oggi – a dispetto delle loro profondissime radici economiche e politiche – sono destinati a essere superati nell’arco di qualche mese, è difficile non ricordare il sinistro ottimismo che Antonio Salandra esibiva in quella lontana serata romana dell’estate 1915, quando il collega Nitti gli manifestava le proprie perplessità sulle dotazioni militari italiane e prevedeva che la guerra si potesse protrarre oltre l’inverno. Perché – ormai lo abbiamo capito – la ‘guerra’ che stiamo vivendo non finirà in autunno. E l’inverno che ci attende sarà probabilmente molto lungo.

Damiano Palano

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