giovedì 10 marzo 2016

La «Guerra Fredda» vista dal Sud. "La Guerra fredda globale. Gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e il mondo" di Odd Arne Westad





di Damiano Palano


Questa recensione  al volume di Odd Arne Westad, La Guerra fredda globale. Gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e il mondo (Il Saggiatore), è apparsa su "Avvenire" il 19 febbraio 2016.

 Nel 1916, mentre sui campi di battaglia si consumava il massacro di milioni di soldati, Benedetto XV definì la guerra scoppiata due anni prima come il «suicidio dell’Europa civile». Le parole del pontefice intendevano naturalmente esprimere una severa condanna della guerra. Ma rilette a un secolo di distanza possono anche essere intese come il riconoscimento della fine di un mondo. Al di là dei motivi scatenanti del conflitto e delle sue conclusioni, la Grande guerra segnò infatti la fine dello jus publicum europaeum, ossia di quell’assetto politico nato nel 1648 con la pace di Vestfalia. A un secolo di distanza, oggi è chiaro a chiunque che il Vecchio continente non è più il ‘centro del mondo’. Eppure il nostro modo di guardare alle dinamiche internazionali continua a essere segnato da un marcato eurocentrismo. E ciò comporta non solo un disinteresse per quanto avviene lontano dall’Europa, ma soprattutto una visione riduttiva del passato, che ci lascia privi degli strumenti necessari per capire da dove nasca l’odierno disordine internazionale.
Una sollecitazione importante ad allargare lo sguardo giunge invece da La Guerra fredda globale. Gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e il mondo dello studioso norvegese Odd Arne Westad (il Saggiatore, pp. 546, euro 35.00). Il volume ha infatti il merito di rileggere la storia del conflitto bipolare assumendo la prospettiva del Sud, e considerando le conseguenze che l’interventismo delle due superpotenze ebbe sulla nascita politica del «Terzo mondo». Lo storico mostra infatti come l’interventismo di Usa e Urss scaturisse dalle loro stesse matrici ideologiche. Tanto Washington quanto Mosca si sentivano eredi della modernità europea, e ai loro occhi era necessario cambiare il mondo “per dimostrare la validità universale delle loro ideologie”. Di fatto, il loro interventismo non fu percepito in termini molto differenti dal vecchio imperialismo. Eppure secondo Westad le motivazioni che spinsero Usa e Urss a utilizzare la forza fuori dai loro confini non erano lo sfruttamento e l’assoggettamento, bensì la convinzione ideologica di dover imporre il “progresso”, combinata con l’idea che conquistare il controllo anche su aree periferiche fosse indispensabile nel quadro della «guerra civile mondiale».
Un ruolo tutt’altro che secondario in questa dinamica fu ricoperto dalle classi dirigenti locali dei paesi del Sud del mondo, le quali inalberarono la bandiera di un’ideologia internazionale con l’obiettivo di ottenere lo stabile appoggio di una delle due superpotenze. In questo modo le élite post-coloniali sposarono una delle versioni rivali di «alto modernismo» di cui erano portatrici Washington e Mosca. E, soprattutto, vararono piani di modernizzazione forzata della società, che quasi sempre si concretizzarono in una sorta di guerra al mondo contadino (condotta utilizzando le armi della fame e della sete) e non di rado implicavano anche una guerra «culturale». L’interventismo delle superpotenze rese «semipermanente» la condizione di guerra civile in queste aree del pianeta. Ma contribuì anche a far nascere nuove forme di resistenza ideologica, in cui temi come l’appartenenza etnica e religiosa venivano rielaborati e riorganizzati all’interno di una nuova retorica nazionalista, con l’obiettivo politico di opporsi alla modernizzazione occidentale e alle élite locali che se ne erano fatte portatrici. E proprio in questo senso sono molto interessanti i capitoli dedicati all’Angola, al Mozambico, al Corno d’Africa, all’Iran, oltre che naturalmente all’Afghanistan. Perché d’altronde proprio intervenendo militarmente in Afghanistan – un’area all’apparenza tanto lontana dal ‘centro’ della politica globale – l’Urss mostrò al mondo di essere ormai una superpotenza in declino. E perché, nel corso della resistenza all’invasione sovietica, l’ideologia islamista cominciò ad assumere una consistenza politica.

Damiano Palano

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