martedì 23 giugno 2015

Costruire il «popolo». Il nuovo populismo di Rafael Correa nel laboratorio dell’America Latina (leggendo un libro di Carlo Formenti)



di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Carlo Formenti, Magia bianca magia nera. Ecuador: la guerra fra culture come guerra di classe (Jaca Book, pp. 116, euro 12.00), è apparsa su Tysm il 5 giugno 2015.

 
Il ritorno del «popolo»

«I poveri non solo subiscono l’ingiustizia ma lottano anche contro di essa! Non si accontentano di promesse illusorie, scuse o alibi. Non stanno neppure aspettando a braccia conserte l’aiuto di Ong, piani assistenziali o soluzioni che non arrivano mai, o che, se arrivano, lo fanno in modo tale da andare nella direzione o di anestetizzare o di addomesticare, questo è piuttosto pericoloso. Voi sentite che i poveri non aspettano più e vogliono essere protagonisti; si organizzano, studiano, lavorano, esigono e soprattutto praticano quella solidarietà tanto speciale che esiste fra quanti soffrono, tra i poveri, e che la nostra civiltà sembra aver dimenticato, o quantomeno ha molta voglia di dimenticare. Solidarietà è una parola che non sempre piace; direi che alcune volte l’abbiamo trasformata in una cattiva parola, non si può dire; ma una parola è molto più di alcuni atti di generosità sporadici. È pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni. È anche lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, la terra e la casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi. È far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro: i dislocamenti forzati, le emigrazioni dolorose, la tratta di persone, la droga, la guerra, la violenza e tutte quelle realtà che molti di voi subiscono e che tutti siamo chiamati a trasformare. La solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia ed è questo che fanno i movimenti popolari. […] I movimenti popolari esprimono la necessità urgente di rivitalizzare le nostre democrazie, tante volte dirottate da innumerevoli fattori. È impossibile immaginare un futuro per la società senza la partecipazione come protagoniste delle grandi maggioranze e questo protagonismo trascende i procedimenti logici della democrazia formale. La prospettiva di un mondo di pace e di giustizia durature ci chiede di superare l’assistenzialismo paternalista, esige da noi che creiamo nuove forme di partecipazione che includano i movimenti popolari e animino le strutture di governo locali, nazionali e internazionali con quel torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino comune. E ciò con animo costruttivo, senza risentimento, con amore».
Nelle parole rivolte da Papa Francesco agli esponenti dei «movimenti popolari» guidati dal Presidente della Bolivia Evo Morales, nell’incontro in Vaticano del 28 ottobre 2014, molti dei più critici osservatori del nuovo pontificato hanno ravvisato i segni di una cultura ostile al mercato e ai principi del liberalismo, se non addirittura le tracce di quelle concessioni al marxismo che tanto peso ebbero nella vicenda della Teologia della Liberazione, fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Un vaticanista come Sandro Magister ha persino ravvisato delle singolari analogie tra le formule di Papa Francesco e la visione dell’ordine mondiale che emerge da Empire di Michael Hardt e Antonio Negri, perché tanto il pontefice quanto i due autori radicali «individuano la sovranità mondiale in un dominio transnazionale del denaro, che alimenta le guerre per ingrossare i profitti, contro il quale solo la moltitudine dei ‘movimenti popolari’ può portare a una ‘riappropriazione della democrazia’ non formale ma sostanziale» (S. Magister, Il pendolo di Bergoglio, tra capitalismo e rivoluzione, in «L’Espresso», 19 dicembre 2014). Ovviamente un simile accostamento è solo una provocazione, di cui peraltro non è difficile trovare ulteriori (e ben più violente) espressioni nelle critiche al pontificato di Bergoglio che giungono da molti ambienti conservatori. Forse, più che sulle presunte affinità col marxismo del nuovo pontefice, sarebbe da ricordare come molti autori ‘post-marxisti’ – e tra questi naturalmente proprio Hardt e Negri – abbiano negli ultimi anni attinto a piene mani al linguaggio della spiritualità cristiana, ritrovando in Francesco d’Assisi il paradigma per una politica radicale adeguata al XX secolo. Ma non è neppure da dimenticare come altri interpreti del magistero di papa Bergoglio abbiano enfatizzato ben diverse componenti, quali per esempio l’influenza del peronismo, un tutt’altro che ostile atteggiamento nei confronti dell’economia di mercato, o infine – un aspetto su cui forse si dovrebbe riflettere con maggiore attenzione – il ruolo della cosiddetta «Teologia del Popolo».
Se la discussione sulle matrici dottrinarie di papa Francesco è destinata a continuare a lungo, è piuttosto evidente che molti dei riferimenti ai «movimenti popolari» e alle componenti distruttive del mercato rischiano di essere in larga parte fraintesi se non vengono collocati nel quadro delle esperienze che l’America Latina ha vissuto nell’ultimo quindicennio, e in particolare all’interno di quella tendenza che è stata spesso interpretata come una sorta di «ritorno del popolo» (sia sotto il profilo dottrinario, sia sotto il profilo politico dell’affermazione di nuovi regimi ‘populisti’). A partire dall’inizio del nuovo secolo, i paesi latino-americani sono stati infatti un formidabile laboratorio di sperimentazione politica, nel quale hanno visto la luce formule politiche nuove, di segno spesso molto differente e peraltro difficilmente interpretabili con le categorie più consolidate della politica europea. I movimenti e gli esperimenti nati in Argentina dopo la grande crisi dell’inizio del secolo, la «rivoluzione bolivariana» di Hugo Chavez, il Brasile di Lula, la Bolivia di Morales non hanno infatti solo dato inizio a stagioni politiche che hanno rotto con la storia precedente di questi Paesi, ma sono spesso andate a coincidere anche con la sperimentazione di nuove formule di organizzazione politica e di partecipazione popolare. Ovviamente solo una forma di acritico ‘esotismo’ può indurre a trascurare le ambiguità e i fallimenti di queste esperienze. E solo con uno sguardo attento si possono invece ritrovare le contraddizioni all’interno delle quali si muovono, problematicamente, molti dei nuovi esperimenti politici.
È proprio con uno sguardo disposto a cogliere la novità, ma senza subirne il fascino, che Carlo Formenti nel suo libro più recente – Magia bianca magia nera. Equador: la guerra fra culture come guerra di classe (Jaca Book, pp. 116, euro 12.00) – si rivolge alla «Revolución Ciudadana» di Rafel Correa e al nuovo corso politico dell’Equador. Noto soprattutto per i suoi studi critici sulla «rivoluzione digitale», e in particolare per lavori come Incantati dalla Rete (Cortina, Milano, 2000), Mercanti di futuro (Einaudi, Torino, 2002) e Cybersoviet (Cortina, Milano, 2008), Formenti in questo caso propone innanzitutto una sorta di reportage su una realtà in trasformazione come quella equadoriana, raccogliendo le testimonianze di osservatori e protagonisti dei cambiamenti politici del Paese. E quello che emerge dall’analisi di Formenti è il costante, tutt’altro che sopito conflitto tra «magia bianca» e «magia nera»: un conflitto che non è solo fissato plasticamente nei due piani in cui si divide il Museo Nazionale di Quito, ma che rivive quotidianamente nel contrasto tra la cultura dei colonizzatori di origine europea e le culture indigene, nella contrapposizione tra le istanze di modernizzazione (economica e culturale) della società equadoriana e le rivendicazioni di autonomia provenienti dal mondo contadino, nella lotta per la stessa definizione del concetto di buen vivir. E Formenti giunge così a mettere in seria discussione la stessa formula del «socialismo del XXI secolo» che spesso viene utilizzata per interpretare (e celebrare) – insieme al Venezuela e alla Bolivia – il caso dell’Equador.

 
Genealogia di un esperimento politico

La ricostruzione di Formenti prende le mosse innanzitutto dal contesto in cui nasce l’avventura politica di Correa, e in particolare dal fallimento della Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Equador (Conaie): dopo essere stata fondata nel 1986 e aver conquistato un notevole peso politico, la Conaie nel 1995 decide di dar vita al partito Pachakutik, che si presenta alle elezioni presidenziali ma viene sconfitto al primo turno. In questo fallimento emergono i limiti della Conaie, capace di costringere i governi al dialogo mediante i levantamientos (grandi marce che conducono nelle strade di Quito centinaia di migliaia di persone e che bloccano le vie di comunicazione), ma incapace di incidere sul piano della competizione elettorale. La decisione di trasformarsi in partito segna, paradossalmente, la fine dell’egemonia della Conaie sui movimenti. Il Pachakutik nel 2003 appoggia inoltre il golpe del colonnello Gutiérrez, conquistando in cambio quattro ministeri. Anche il nuovo governo è però oggetto di radicali contestazioni popolari, tanto che nel 2005, a seguito di proteste cui partecipano anche ampi settori dei ceti medi urbani, Gutiérrez è costretto ad abbandonare il potere.
La personalità di Correa emerge proprio dal composito movimento del 2005, in cui si mischiano giovani studenti ed élite professionali, notabili e Ong. Cattolico di sinistra, laureato in economia e perfezionatosi in Europa e Stati Uniti, Correa diventa infatti ministro nel governo Palacio, dopo l’uscita di scena di Gutiérrez, ma si dimette dall’incarico per divergenze sulla linea di politica economica dell’esecutivo. In vista delle elezioni presidenziali, Correa decide di candidarsi, senza però il sostegno di un partito, bensì con il supporto del nuovo movimento Alianza Pais. Alla base del programma di Correa sono la «rivoluzione costituzionale», la lotta alla corruzione, il cambiamento nelle linee di politica economica e la riforma dell’istruzione e della sanità. Come sottolinea Formenti, il vero filo conduttore della campagna elettorale è «la lotta contro la partitocrazia, una piaga che, in ossequio al sentimento popolare che ha alimentato la sollevazione del 2005, viene presentata come la causa prima di tutti i mali che affliggono il Paese» (pp. 20-21). Alianza Pais, cui viene assegnato il compito di svolgere da macchina elettorale, è un movimento formato da ex dirigenti della sinistra tradizionale, da attivisti della nuova sinistra sociale, ma anche elementi del mondo cattolico: dunque, «una forza eterogenea amalgamata dall’antipartitismo, dal rifiuto del neoliberismo e dall’impegno a costruire ‘a tavolino’, sfruttando sofisticati strumenti comunicativi, una inedita figura di leader carismatico» (p. 21). La strategia si rivela vincente, e Correa riesce nel ballottaggio ad avere la meglio sull’imprenditore Alvaro Noboa. Giunto alla presidenza, Correa indice le elezioni per un’Assemblea Costituente, nella quale Ap ottiene ottanta rappresentanti su centrotrenta. I lavori  confluiscono nella cosiddetta «Costituzione di Montecristi», nella quale si confrontano (e scontrano) la visione ‘modernizzatrice’ di Correa e quella ‘ambientalista’ e ‘indigenista’ di Alberto Acosta, il presidente dell’Assemblea (e in origine tra i fondatori di Ap), il quale si batte per il riconoscimento del principio del buen vivir mutuato dalle culture indigene.
Anche se l’esperimento di Correa è ancora in una fase interlocutoria, le interviste raccolte da Formenti segnalano le ambiguità e le contraddizioni del regime di Correa, nel quale sono indubbiamente ravvisabili i segnali di una svolta autoritaria, di un precoce ‘tradimento’ dei principi di Montecristi e di una rottura del rapporto con i movimenti popolari (o quantomeno con alcune loro componenti rilevanti). Oltre agli elementi che sembrano preludere a una deriva autoritaria da parte di Correa, c’è anche un’altra enorme questione su cui le promesse del nuovo corso sembrano arrestarsi, e cioè il cambiamento del profilo economico del Paese, che in realtà – come nel passato – non sembra aver minimamente intaccato la propria dipendenza dall’estrazione di risorse energetiche. E in questo senso la voce forse più significativa raccolta da Formenti è quella dello stesso Costa, nel frattempo diventato uno dei principali esponenti dell’opposizione di sinistra, il quale stila un bilancio fortemente negativo dell’esperienza di Correa: «Qui non c’è stata nessuna rivoluzione, né, tantomeno, si sta costruendo qualcosa che possa essere definito socialismo del XXI secolo; nella migliore delle ipotesi, lo possiamo definire un regime post neoliberale, certamente non post capitalista. Agli occhi degli europei può sembrare un paradiso, se confrontato allo smantellamento del welfare in atto nel Vecchio Continente, ma la realtà è che vigono gli stessi modelli estrattivisti dell’era coloniale e, se è vero che i poveri stanno meno peggio, è altrettanto vero che i ricchi stanno molto meglio, per cui le diseguaglianze sono aumentate e non diminuite» (pp. 50-51).
La valutazione che fornisce Formenti della «Rivoluzione» di Correa è fortemente critica, anche se l’esperimento va comunque considerato come un’innovazione degna di attenzione. Il successo di Correa, il suo carisma mediatico, la polemica antipartitocratica, il suo rifiuto di ricondurre la «Revolución Ciudadana» nell’alveo del conflitto di classe sono infatti elementi che il regime equadoriano condivide con il nuovo populismo del XXI secolo, oltre che con forme politiche che anche l’Europa, con qualche anno di ritardo rispetto all’America Latina, ha cominciato a conoscere. Una prima di linea di riflessione critica articolata da Formenti non riguarda però in senso stretto il regime di Correa, quanto l’immagine del buen vivir che ha accompagnato almeno nella prima fase il nuovo corso dell’Equador e che ora viene rivendicata soprattutto dall’opposizione di sinistra, contro la ‘modernizzazione’ sostenuta dal governo. Il concetto di buen vivir è infatti declinato in modi molti diversi, soprattutto perché è stato riletto dalle élite bianche in una chiave che, armonizzandolo con i temi ambientalisti coltivati nel mondo intellettuale nord-americano, ne hanno snaturato per molti versi il significato originario, rendendo difficile capire se si tratti di un’operazione di assimilazione o della conquista di un’egemonia da parte dei movimenti ‘indigenisti’: «dove passa il confine fra egemonia rivoluzionaria di un movimento indigeno che si vuole, ad un tempo, identitario e di classe (con l’inevitabile tensione fra locale e universale) e assimilazione da parte di soggetti sociali e culture politiche che vanno in altre direzioni? È la magia bianca che celebra la propria rivincita sulla magia nera coloniale, oppure rischia di smarrire la propria energia vitale nell’abbraccio con falsi amici (anche quando costoro sfoggiano credenziali ‘postcoloniali’?» (p. 95). La tensione che si può riconoscere dentro il concetto di buen vivir è d’altronde il riflesso di una tensione più ampia, che caratterizza – seppur in modo diverso – molte delle esperienze di governo sorte in America Latina nell’ultimo quindicennio. Portati al potere anche dal sostegno dei movimenti popolari, le nuove élite di sinistra – espresse in molti casi dai sindacati – hanno mostrato un volto ‘modernizzatore’ che le ha spesso condotte a divorziare dalla loro base originaria, a ‘disinteressarsi’ delle sue mobilitazioni (e in questo senso il caso brasiliano è quantomeno emblematico).
Un’ulteriore domanda che emerge dal lavoro di Formenti riguarda invece le formule adottate per interpretare la realtà di movimenti al loro interno frammentari, composti da segmenti della classe media, da settori fortemente scolarizzati, da Ong, ma anche da vaste componenti di popolazione indigena. Da questo punto di vista Formenti critica senza esitazioni la possibilità che simili realtà possano essere comprese utilizzando la nozione post-operaista di «moltitudine» (pp. 107-108), ma ritiene che neppure la nozione di «populismo», nella versione fornita da Ernesto Laclau, possa essere di qualche utilità: come scrive Formenti, infatti, «l’ottimismo di Laclau non regge alla prova della realtà storica dell’evoluzione del regime correista (ma anche di altri, analoghi regimi) – una realtà in cui l’interesse generale del popolo assume il volto arcigno della repressione delle opposizioni di sinistra e del compromesso con gli interessi dei grandi gruppi industriali e finanziari» (p. 107). In alternativa a questi schemi, Formenti propone di utilizzare ancora il concetto operaista di «composizione di classe» (e in particolare la dicotomia di «composizione tecnica» e «composizione politica»), per interpretare i conflitti delle masse indigene e, in particolare, il loro ruolo rispetto alle dinamiche dello sviluppo capitalistico che attraversano l’America Latina. Ma in questo senso Formenti non sposa pienamente l’idea secondo cui sarebbero proprio i contadini – e non gli operai – a poter assumere un ruolo di ‘avanguardia’ anche politica. Piuttosto, sottolinea come il ruolo dell’«identità culturale» possa essere compreso solo all’interno di un’indagine più ampia, che prenda in considerazione gli effetti (sempre ambivalenti) che i fattori identitari hanno (o possono avere) sullo sviluppo dei movimenti: «a decidere se prevalga l’aspetto dell’indebolimento o del rafforzamento», scrive per esempio, «sono, in ultima istanza, i rapporti di forza con gli altri strati di classe: se l’egemonia pende dalla parte dell’antagonismo indigeno nei confronti della civiltà capitalista, vince la magia nera, se viceversa pende dalla parte dell’incivilimento del capitalismo attraverso il rafforzamento dei diritti individuali, vince la magia nera» (p. 111).

Le radici del popolo


Per molti versi, l’analisi del caso equadoriano e in particolare l’ultimo capitolo di Magia bianca magia nera possono essere considerati come una sorta di sviluppo del ragionamento più generale svolto da Formenti nel suo recente Utopie letali. Contro l’ideologia postmoderna (Jaca Book, Milano, 2013). In questo volume, Formenti compiva infatti un ripensamento rispetto ad alcune sue tesi precedenti: un ripensamento che non consisteva semplicemente in una disillusione sulle potenzialità democratiche della Rete, ma investiva piuttosto la convinzione secondo cui la forma di organizzazione ‘orizzontale’ sarebbe un pregio che i movimenti contemporanei non dovrebbero intaccare. Proprio sulla base di questo ripensamento critico, Formenti giungeva allora a riconoscere la necessità di reintrodurre – in forme naturalmente molto caute – il nodo del partito, ossia di un’organizzazione ‘verticale’ che sappia porsi il problema del potere (per un esame del percorso di Formenti, fino a Utopie letali, rinvio ai due precedenti articoli Il viaggio di Hermes, in «maelstrom», 10 febbraio 2012, e Lenin a Pechino? in «Tysm», vol. 10, n. 15, giugno 2014). Oltre ad attaccare alcune convinzioni del «post-operaismo» (e tra queste soprattutto quella relativa all’efficacia descrittiva del concetto di «moltitudine»), Formenti indirizzava una critica piuttosto radicale alla riflessione compiuta da Laclau e in particolare alla sua idea del «populismo». La critica che in Utopie letali coinvolgeva soprattutto il versante teorico, in Magia bianca magia nera viene declinata invece con riferimento specifico alla realtà del regime di Correa. Ed è anche in questa chiave che l’indagine di Formenti sull’esperienza equadoriana risulta particolarmente interessante.
Per quanto la nozione di «populismo» sia quasi inafferrabile, l’esperienza di Correa – osserva Formenti – ne ripropone senza dubbio alcuni elementi, come soprattutto l’«attacco frontale alla partitocrazia», «il tentativo (riuscito) di creare un legame diretto fra leader e masse», «il rifiuto di interpretare la ‘rivoluzione’ come lotta di classe» (pp. 27-28). Ma la proposta politica di Correa può apparire populista soprattutto perché sembra davvero dare forma politica alla sequenza che ha tracciato teoricamente Laclau nella sua riflessione. Il filosofo di origine argentina, prematuramente scomparso nel 2014, aveva infatti liberato la nozione dalle connotazioni negative di cui il termine è gravato soprattutto in Europa, assumendo il «populismo» come l’espressione paradigmatica della dinamica di costruzione delle identità politiche. Ovviamente l’operazione di Laclau risente dell’esperienza del peronismo argentino, e in particolare di quel processo attraverso il quale negli anni Sessanta Juan Domingo Perón – allora in esilio ed escluso dalla politica nazionale – divenne il ‘collante’ di tutti quei compositi soggetti sociali che si opponevano ai governi anti-peronisti. Ma la riflessione condotta da Laclau, e culminata nel 2005 in La ragione populista (Laterza, Roma – Bari, 2008), segue però anche un itinerario più complesso, in cui sono tutt’altro che secondarie le influenze del dibattito europeo sui ‘nuovi movimenti sociali’ e sull’ascesa del neoliberismo. In effetti Laclau firmò insieme a Chantal Mouffe, alla metà degli anni Ottanta, Egemonia e strategia socialista (il Melangolo, Genova, 2011), uno dei libri più importanti dell’intero dibattito ‘post-marxista’: un libro in cui, oltre ad abbandonare la centralità delle categorie interpretative marxiane (soprattutto il conflitto capitale-lavoro), veniva proposto un armamentario teorico che, di fatto, avrebbe orientato tutta la riflessione successiva di Laclau. Il presupposto del ragionamento – in estrema sintesi – era innanzitutto un attacco alle pretese di scientificità del marxismo: un motivo non certo nuovo, che però veniva declinato non tanto per pronunciare un addio all’idea di conflitto, quanto per declinarla sul versante delle rappresentazioni simboliche. In sostanza, mentre il marxismo (nelle sue molteplici varianti) aveva sempre ritenuto di poter decifrare la posizione dei diversi settori di classe a partire da una conoscenza della struttura ‘oggettiva’ della società, per Laclau e Mouffe era indispensabile riconoscere come la società e dunque le stesse classi fossero in realtà l’esito di rappresentazioni, e derivassero la loro identità da fattori ‘oggettivi’. E proprio per questo, recuperavano la nozione gramsciana di «egemonia», sciogliendola però da qualsiasi legame con quanto rimaneva dell’apparato marxista, per enfatizzare invece quegli elementi ‘soreliani’ che chiamavano in causa il «mito», in quanto elemento di costruzione delle identità collettive (e dunque delle classi). Procedendo su questo versante, Laclau poteva riformulare – con solo qualche parziale aggiustamento rispetto all’impianto delineato negli anni Ottanta – la nozione di «populismo», elevando un edificio teorico senza dubbio affascinante, nel quale tutti i diversi riferimenti – Gramsci, Freud, Lacan – erano però utilizzati come semplici ‘materiali da costruzione’ (dichiaratamente senza alcun riguardo per la fedeltà e per il rigore filologico). Alla fine, la costruzione del «popolo» appare per molti versi come una sorta di operazione ‘linguistica’, o meglio come un lavoro che si svolge interamente sul terreno delle rappresentazioni. Perché il «popolo» (che non promana da alcuna essenza ‘originaria’, né tantomeno da determinazioni sociali) si forma per effetto di «catene equivalenziali» che possono ancorarsi a un «significante vuoto», la cui forza attrattiva è direttamente proporzionale al fatto stesso che quel significante sia davvero ‘vuoto’ (per una discussione della teoria di Laclau è da vedere quantomeno il volume Populismo e democrazia radicale, a cura di Marco Baldassari e Diego Melegari, Ombre corte, Verona, 2012).
Benché sia stata sviluppata soprattutto sul versante della teoria politica, la riflessione di Laclau si è incontrata con il nuovo corso della politica latino-americana. E così, se in Argentina Laclau ha per esempio sostenuto con forza il ‘kirchnerismo’, il suo schema è stato utilizzato anche altrove per fornire una sorta di legittimazione dottrinaria ai nuovi governi di sinistra. Nonostante i problemi e le contraddizioni che incontra il ‘nuovo corso’ della politica latino-americana, il successo del ‘nuovo’ populismo è giunto anche in Europa. Nel Vecchio continente le riserve sulla stessa nozione di «populismo» rimangono ancora molto forti, in special modo fra i settori che si richiamano alle diverse tradizioni della «sinistra», e non è per questo sorprendente che spesso lo stesso pensiero di Laclau sia stato frainteso. D’altronde in Europa quando si evoca il «populismo» di solito non ci si riferisce tanto a movimenti ‘popolari’, o che puntino a difendere le ‘classi popolari’, bensì a tendenze politiche che utilizzano retoriche ‘demagogiche’, o che propongono un’immagine del ‘popolo’ come entità definita da fattori ben precisi, da un’identità ‘originaria’ e spesso anche da una ‘purezza’ da preservare. Che anche per questo lo spettro del ‘populismo’ – quasi onnipresente nel dibattito politico – sia di fatto inafferrabile, è quasi scontato, ed è confermato anche dal fatto che gli studiosi che ne ricercano le tracce finiscano col ritrovarne più o meno in tutti i movimenti politici del passato e del presente (un esempio è offerto in questo senso dal recente volumetto di Nicola Tranfaglia, Populismo. Un carattere originale nella storia d’Italia, Castelvecchi, Roma, 2014). Ma se la categoria di «populismo» continua a essere utilizzata per individuare movimenti di cui di solito si vogliono mettere in luce le componenti più o meno scopertamente antidemocratiche, non sono mancati tentativi di declinare la nozione anche in una versione diversa, in cui il «populismo» assume una connotazione positiva, proprio come nella riflessione di Laclau. A questo proposito l’esperimento forse più significativo è quello di Podemos, un caso su cui comprensibilmente si sono negli ultimi mesi concentrate le attenzioni di molti osservatori. In effetti, benché Podemos possa essere inteso come una filiazione del movimento degli Indignados, questo partito può anche essere interpretato soprattutto come il risultato di un esperimento di ‘costruzione (simbolica) del popolo’ compiuto da parte di un ristretto gruppo di intellettuali (alcuni dei quali giovani accademici). Un esperimento in cui non è difficile trovare una sorta di esplicitazione della logica delineata da Laclau (da questo punto di vista si può leggere il ricordo dedicato al pensatore argentino da Íñigo Errejón Galván, giovane politologo dell’Università Complutense di Madrid e membro del gruppo fondatore di Podemos: I. Errejón, Muere Ernesto Laclau, teórico de la hegemonía, in «Público», 14 aprile 2014). E, soprattutto, un esperimento in cui – specie sul terreno della ridefinizione linguistica e simbolica della tradizione della ‘sinistra’ – giocano un peso tutt’altro che secondario proprio le esperienze dell’Equador di Correa, della Bolivia di Morales e del Venezuela di Chavez (d’altronde, proprio attorno ai finanziamenti ricevuti da alcuni dei fondatori dell’organizzazione da parte del governo venezuelano sono nate alcune delle prime difficoltà).
Naturalmente sarebbe ingenuo far discendere i limiti di queste esperienze da una matrice dottrinaria (che peraltro non è affatto così definita). Ma è però piuttosto chiaro che gli esperimenti di ‘nuovo populismo’ si trovano già oggi (soprattutto per quanto riguarda l’Equador di Correa) di fronte a difficoltà che palesano alcuni dei limiti principali della teoria di Laclau. Limiti che sono evidenti soprattutto nel sostanziale disinteresse del teorico argentino nei confronti delle risorse materiali di potere di cui i soggetti possono effettivamente disporre. A ben guardare, infatti, la teoria di Laclau tende a dare per scontato che il confronto tra identità collettive avvenga sul terreno delle istituzioni statali, dunque – almeno implicitamente – che il confronto sia sempre interno alla dimensione nazionale, e infine che le istituzioni statali dispongano di risorse per agire nella società, anche se quest’ultimo è in realtà un elemento che Laclau non sviluppa se non incidentalmente (per un’argomentazione più compiuta di questa lettura, rinvio a Il principe populista, in Populismo e democrazia radicale, cit.). Ma è invece a questo proposito che il modello – che funziona efficacemente sul versante della spiegazione dei meccanismi di ‘costruzione’ del popolo – incontra le maggiori difficoltà: innanzitutto perché si trova costretto a ‘presupporre’ uno spazio economico ‘nazionale’, sostanzialmente impermeabile agli attori esterni, e dunque a immaginare una ‘sovranità’ anche economica analoga a quella che immaginavano i teorici della dipendenza quando auspicavano l’indebolimento dei legami con i paesi industrializzati e un’industrializzazione sostitutiva delle importazioni; in secondo luogo, perché sopravvaluta il nodo della effettiva capacità dello Stato di agire sul terreno economico, consolidando nel tempo la propria egemonia. Ed è invece proprio con questi problemi che si sono trovati a fare i conti tutti i nuovi regimi di sinistra latino-americani, ovviamente mostrando una ben differente efficacia. Se infatti il Brasile ha conquistato notevoli margini di manovra, anche grazie al suo ruolo di potenza emergente sul piano regionale, l’Equador di Correa – come sottolinea Formenti – non ha potuto evitare di utilizzare la ‘vecchia’ carta del petrolio, volgendosi ai prestiti cinesi per aggirare la morsa del Washington Consensus (oltre che per difendersi dalle mire egemoniche brasiliane), ma così rinunciando ad avviare il Paese verso una nuova strategia di sviluppo. Tanto che ora, di fatto, «l’Equador è un Paese ‘accerchiato’ che non sconta solo la scarsa volontà politica del governo di proseguire sulla via rivoluzionaria tracciata dalla Costituzione, ma anche lo status i piccola nazione, che lo costringe a barcamenarsi fra le pressioni di potenti interessi internazionali in competizione fra loro» (p. 79).
Il bilancio sul futuro dell’Equador non può che rimanere sospeso, anche se è chiaro che molti indizi gettano più di qualche dubbio sulla possibilità che le molte promesse della Costituzione di Montecristi vengano mantenute (questi indizi dopo la pubblicazione del libro di Formenti sono stati peraltro ulteriormente confermati dalle iniziative adottate da Correa, sia in relazione agli oppositori, sia a proposito del settore petrolifero, il cui controllo diventa sempre più decisivo per conservare il consenso). Al di là delle difficoltà che sperimenta il governo di Correa e della possibilità – tutt’altro che remota – che imbocchi la strada che conduce a una svolta pienamente autoritaria, l’Equador rimane senza dubbio un osservatorio interessante sia per comprendere le potenzialità e i limiti del nuovo corso latino-americano, sia per decifrare la ridefinizione degli equilibri di una regione in cui il declino relativo americano si incontra sempre più con l’ascesa della Cina e con le mire egemoniche brasiliane. Ma forse, a quanti guardano all’esperienza di Correa come al laboratorio di un nuovo populismo ‘di sinistra’ da esportare anche nel Vecchio continente, il caso dell’Equador può suggerire anche una serie di interrogativi tutt’altro che residuali. Interrogativi che non riguardano l’abilità comunicativa di leader carismatici come Correa, l’efficacia retorica della lotta contro la «casta» e contro il sistema dei partiti, o la stessa battaglia contro l’austerity e le politiche neo-liberiste. Ma che coinvolgono direttamente il ‘potere’, e dunque – più o meno implicitamente – la capacità dei livelli istituzionali di guidare i processi sociali, di ‘controllare’ le dinamiche economiche e dunque di avviare processi di sviluppo più o meno duraturi.
Alcuni anni fa, in una conversazione con Franco Berardi, Formenti diceva che «è indispensabile tornare a riflettere sulla questione dello Stato», e «il fatto che oggi non si ragioni più in termini di Stato nazione ma di governance globale» non può esimerci «dal fare i conti con la questione della ‘statualità’» (F. Berardi Bifo – C. Formenti, L’eclissi. Dialogo precario sulla crisi della civiltà capitalistica, Manni, Lecce, 2011, p. 39). Si tratta in effetti di una questione – in cui tornano ad aggrovigliarsi tutti i fili dell’autonomia del ‘politico’ – rimossa per almeno un ventennio dalla retorica sulla globalizzazione, la quale di fatto si traduceva nell’idea che i governi nazionali non potessero esercitare alcuna forma di controllo sui flussi di capitali, e che dunque l’unica soluzione fosse di adeguare la società alla competizione globale. Ma si tratta di una questione che anche la teoria del populismo di Laclau, insieme d’altronde a buona parte della riflessione radicale contemporanea, tende a rimuovere in modo speculare, quasi che la globalizzazione di cui si è tanto parlato sia solo una ‘rappresentazione’, e che per provocarne la dissoluzione sia sufficiente dichiarare la ‘falsità’ delle ideologie che la celebrano. E invece, molto probabilmente, sono proprio questi i nodi di cui – senza concessioni retoriche, e senza nessun omaggio a ‘classici’ più o meno lontani e rispettabili – varrebbe finalmente la pena tornare a discutere.

Damiano Palano

Nessun commento:

Posta un commento