lunedì 23 marzo 2015

Meritocrazia, l’utopia «rovesciata» della società dispotica. Il vecchio libro di Michael Young

di Damiano Palano

Questa recensione è apparsa su «Avvenire» del 13 marzo 2015.

Se si dovessero ricostruire le novità intervenute nel lessico politico del XXI secolo, sarebbe davvero difficile negare la fortuna conosciuta negli ultimi anni dal termine “meritocrazia”. Spesso neppure i suoi più entusiasti alfieri sanno però che quella parola venne coniata quasi sessant’anni fa con intenzioni tutt’altro che celebrative. Il termine venne infatti introdotto dal sociologo britannico Michael Young (1915-2002), nel suo L’avvento della meritocrazia, apparso per la prima volta nel 1958 e ora riproposto dalle Edizioni di Comunità (pp. 231, euro 15.00). Nonostante Young fosse uno scienziato sociale, The Rise of the Meritocracy era in realtà un esempio di ‘fanta-sociologia’. Si trattava infatti di un fittizio saggio storico in cui un immaginario studioso del futuro, fermamente convinto della superiorità della società meritocratica, ne ripercorreva le origini e gli sviluppi. In qualche misura Young percorreva così un sentiero simile a quello tracciato da romanzi come Il mondo nuovo di Aldous Huxley o come 1984 di George Orwell. Anche la società meritocratica che descriveva era infatti un regime opprimente, ma a connotare quel peculiare dispotismo era la trasformazione del “merito” nella base dell’ordine sociale. Ciò comportava che la popolazione fosse suddivisa fin dalla più giovane età in base al valore del Quoziente Intellettivo e indirizzata verso percorsi educativi e lavorativi differenziati. 
Intervenendo nel 2001 sulle pagine del «Guardian», il sociologo notò come gli intenti che lo avevano indotto a coniare il neologismo fossero stati del tutto distorti. Se Young negli anni Cinquanta aveva scritto il suo saggio in polemica contro l’acritica celebrazione delle tecniche che misuravano il Q.I., in meno di mezzo secolo l’appello alla «meritocrazia» era invece diventato il pilastro di un’ideologia antiegualitaria. Negli ultimi decenni le polemiche sulla quantificazione del «merito» non si sono comunque esaurite. Molte voci hanno per esempo messo in dubbio che possano esistere strumenti davvero ‘oggettivi’ di misurazione. Altri critici hanno invece sottolineato come ogni criterio ‘meritocratico’ tenda a considerare solo il singolo individuo, trascurando così tutte quelle attività – per esempio nell’ambito della produzione di beni immateriali o della stessa ricerca scientifica – che sono il prodotto della cooperazione di molte persone. Ma forse il problema principale di ogni sistema meritocratico è di ordine morale (oltre che evidentemente politico). Il “merito” che si punta a misurare è infatti sempre valutato in relazione agli obiettivi di un’organizzazione. Che lo scopo sia la competitività nazionale, la produttività di un’azienda, l’efficienza di un servizio, i criteri meritocratici – anche nel caso (tutt’altro che scontato) che possano davvero funzionare – sono finalizzati a utilizzare le capacità dei singoli a vantaggio di un sistema. Il punto è però che gli obiettivi da perseguire – in vista dei quali il “merito” viene misurato – sono dei presupposti spesso sottratti al controllo di chi viene valutato. In altre parole, se i criteri meritocratici ‘misurano’ (in teoria) quanto il singolo contribuisce agli obiettivi dell’organizzazione, questi obiettivi sono stabiliti ‘dall’alto’, o addirittura dall’esterno. Col risultato che noi possiamo immaginare una piena attuazione dei criteri meritocratici persino in una società totalitaria, in cui il “merito” del singolo consiste nella capacità del singolo di perseguire gli obiettivi criminali di un regime dispotico. Ed è in fondo proprio per questo che, quasi inevitabilmente, il “merito” evocato dai sostenitori della meritocrazia rischia di diventare un obiettivo fine a se stesso. Un obiettivo del tutto indifferente al ‘senso’ delle nostre azioni.

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