lunedì 19 gennaio 2015

Autopsia dello Zombie



di Damiano Palano

Questo testo è apparso su Tysm Magazine.

«E attraverso il rifiuto / attraverso i rifiuti / abbiamo trovato asilo / su mondi separati / e per comunicarci / il menù di domani / possiamo solamente / far segni con le mani / e fare le boccacce / d'un linguaggio inventato / che non emette suoni / emette solo fiato / con un po' di paura / che un intellettuale / capisca anche il silenzio / e lo voglia svelare / e ci tolga la voglia / di non capire niente / vivendo come corpo / anche la nostra mente / sapendo che comprendere / vuole dire abbracciare / ma se l'abbraccio è morsa / vuol dire strangolare / sapendo che la morte / non è così lontana / siamo noi che l'amiamo / non è lei che ci chiama / perché siamo i fantasmi / del fantasma d'Europa / che di carne e di sangue ne ha conservata poca / e dice con sospiro / come un basso profondo / unitevi di nuovo / zombie di tutto il mondo».
Sul finire degli anni Settanta, gli «zombie di tutto il mondo» di cui Gianfranco Manfredi evocava l’unione erano naturalmente una metafora di ciò che rimaneva dei movimenti del «maggio strisciante» italiano. In un Lp che riprendeva in chiave satirica i titoli di alcuni film del periodo, il cantautore milanese non mancava infatti di sfruttare il successo di Dawn of the Dead, il secondo episodio della saga dedicata ai morti viventi da George A. Romero, uscito pochi mesi prima e distribuito in Italia da Dario Argento con il titolo Zombi (oltre che con una colonna sonora dei Goblin, ben più efficace di quella originale). Per Manfredi la sinistra sagoma dello zombie diventava così il pretesto per fare dell’ironia (e soprattutto dell’autoironia) sul sogno coltivato durante un lungo decennio di mobilitazioni. Un sogno di cui in quella fase restava ormai solo qualche scampolo rabberciato, messo a dura prova dalla militarizzazione di alcune componenti del movimento e dal prorompente «riflusso». Tanto che il vecchio «spettro», che secondo Marx ed Engels si aggirava per il Vecchio continente, lasciava il posto alle assai meno romantiche movenze dei morti viventi, «fantasmi / del fantasma d’Europa / che di carne e di sangue ne ha conservata poca». Fantasmi di cui valeva ancora la pena auspicare l’unità, ma che certo parevano sempre più abissalmente lontani da quel nuovo ‘spirito del tempo’, che incominciava già allora a mostrare i propri contorni.
Nell’allegoria di Manfredi lo zombie assumeva evidentemente sembianze molto diverse da quelle che sembravano suggerire le sequenze di Dawn of the Dead. Nel film di Romero le orde di morti viventi, che affluivano con la loro goffa marcia verso un grande centro commerciale, parevano infatti alludere agli «uomini-massa» soggiogati dallo spettacolo ipnotico delle merci. «Sono alla ricerca di questo posto», diceva d’altronde uno dei protagonisti della pellicola di Romero osservando la massa di zombie assiepata ai cancelli di quel tempio del consumo, ormai abbandonato: «Non sanno perché. Ricordano e basta. Ricordano che vogliono venire qui». Ma l’operazione che Manfredi operava sulla sagoma dello zombie non era certo la prima rielaborazione di cui l’immagine del morto vivente era oggetto, e non sarebbe stata neppure l’ultima. A ben vedere, infatti, lo zombie subisce una serie di radicali metamorfosi, e soprattutto quando entra a far parte della cultura popolare delle società occidentali – in gran parte proprio per merito di Romero – lo spettro del living dead è destinato a conoscere una serie quasi sterminata di utilizzi, nel corso dei quali spesso acquisisce nuove caratteristiche o esibisce aspetti in precedenza sottovalutati.
Probabilmente la storia dello zombie inizia in Africa, ma le tracce del percorso che poi lo condurrà a irrompere nell’immaginario delle società occidentali passano soprattutto per Haiti. Nell’isola, nel corso del diciottesimo secolo, lo zombie assume infatti le sembianze di un individuo ridotto a una condizione di morte apparente a causa di una polvere somministrata da malvagi sacerdoti, i quali riescono poi a risvegliare quegli individui, ormai privi di resistenza, per costringerli al lavoro dei campi. In questo immaginario popolare il morto vivente è probabilmente un simbolo della schiavitù e della stessa incapacità da parte degli schiavi di poter anche solo immaginare la libertà. Ma da Haiti lo zombie sbarca negli Stati Uniti al principio del Novecento, con il romanzo di William Seabrook The Magic Island, per poi essere sfruttato anche dal cinema, in pellicole degli anni Trenta come L’isola degli zombies (1932) di Victor Halperin. In questa fase il morto vivente è comunque ancora – come nella tradizione haitiana, e prima ancora africana – un individuo drogato da qualcuno che ne vuole sfruttare lo stato di incoscienza. È invece solo molto più tardi, proprio con il primo film di Romero, il celebre La notte dei morti viventi (1968), che lo zombie assume i connotati che poi diventeranno familiari: innanzitutto l’idea che gli zombie siano individui morti che, per motivi mai del tutto chiari, tornano a vivere; in secondo luogo, il motivo che rappresenta la condizione di zombie come in parte assimilabile a una sorta di epidemia, che si trasmette a seguito a un contatto con gli infetti; infine, l’attribuzione allo zombie dell’antropofagia, un espediente in virtù del quale i morti viventi vengono da allora in poi rappresentati come belve fameliche alla costante ricerca di carne umana. 
È scontato rilevare come ognuno dei tratti, che a partire da Romero contrassegnano la sagoma dello zombie, abbia radici profonde, tanto che per molti versi il morto vivente eredita l’iconografia popolare del vampiro. Inoltre è certo che, nella rilettura operata da Romero, qualche ruolo sia stato svolto da uno dei più famosi romanzi di Richard Matheson, Io sono leggenda. Nel romanzo, pubblicato al principio degli anni Cinquanta, Matheson metteva infatti in scena un mondo ormai spopolato, in cui l’unico superstite era costantemente accerchiato da schiere di vampiri: i vampiri di Matheson avevano però ben poco a che vedere con il vecchio immaginario, perché si trattava di esseri umani contagiati da una misteriosa epidemia, probabilmente causata dall’utilizzo di armi batteriologiche concepite per finalità belliche. A partire dalla loro pubblicazione le pagine di Matheson hanno ispirato diverse pellicole, tra cui per esempio Omega Man (1971) di Boris Segal (film noto in Italia con il titolo 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra) e il più recente I am Legend (2007) di Francis Lawrence, nel quale peraltro i vampiri sono ormai divenuti veri e propri zombie. Qualche influenza sul giovane Romero, che di lì a pochi anni avrebbe realizzato The Night of the Living Dead, ebbe probabilmente anche la prima trasposizione del romanzo sul grande schermo, L’ultimo uomo sulla terra (1964), di Ubaldo Ragona e Sidney Salkow, per molti versi la più evocativa (anche in virtù dell’ambientazione della vicenda nel quartiere romano dell’Eur). E forse non è neppure da escludere che qualche ruolo, nella metamorfosi dello zombie, si stato svolto anche da un piccolo cult movie come I Vampiri (1957) di Riccardo Freda, che ruppe con la tradizionale ambientazione gotica, collocando il vampiro in una città contemporanea. Ma il punto più significativo è che, combinando il mito haitiano dello zombie con i vampiri di Matheson, Romero riusciva a dar forma a una figura destinata a imporsi nell’immaginario occidentale e a conquistare sempre maggiore spazio con l’andare del tempo.
Fino agli anni Settanta gli zombie rimasero in fondo confinati a una piccola nicchia dei b-movies, ed è sufficiente pensare agli emuli italiani di Romero e in particolare al grande Lucio Fulci, che rivisitò in più occasioni il genere, in piccoli classici del cinema splatter come Zombi 2 (1979), Zombi 3 (1985) o Paura nella città dei morti viventi (1983). Ma solo più di vent’anni dopo la fortuna dello zombie incomincerà a conoscere un’autentica esplosione nella cultura popolare. Non solo perché lo zombie tornerà al centro di film come 28 giorni dopo o di serie televisive come The Walking Dead, o perché verrà sfruttato da videogiochi, fumetti e romanzi di genere (oltre che nella narrativa più ‘rispettabile’, come nel caso di La strada di Cormac McCarthy). Ma anche perché la sagoma del morto vivente riaffiorerà persino nella stessa cultura ‘alta’, diventando per esempio oggetto delle riflessioni di filosofi e politologi, i quali – certo senza prendersi troppo sul serio – si interrogheranno sul successo di questa figura o la assumeranno come simbolo di una conflittualità assoluta.
Alcuni esempi di questa riflessione sono senz’altro due volumi recentemente tradotti in italiano: La filosofia di zombie e vampiri. Una nuova vita per i non morti, un testo curato da Richard Greene e K. Silem Mohammad (Mimesis, pp. 295, euro 20.00), e Piccola filosofia dello zombie. O come riflettere attraverso lo zombie, un saggio di Maxime Coulombe (Mimesis, pp. 116, euro 12.00). 
Nel primo dei due volumi si incontrano i contributi di intellettuali provenienti da percorsi disciplinari piuttosto eterogenei che – con qualche concessione alla goliardia – indagano i percorsi che conducono dal vampiro fino allo zombie contemporaneo, non senza volgersi verso i possibili significati che i morti viventi assumono nella cultura popolare americana. Ben più stimolante è invece il secondo lavoro, in cui Coulombe, sociologo e docente di storia dell’arte contemporanea all’Università francese di Laval, compie una sorta di ‘autopsia’ filosofica dello zombie, alla ricerca di una risposta al fascino che questa creatura dell’orrore esercita sull’Occidente contemporaneo. Benché forse non proprio sorprendente, la risposta che fornisce Coulombe è comunque interessante, ed emerge d’altronde già dall’enunciazione dell’obiettivo che l’autore del volume esplicita: «fare dello zombie un Virgilio, una guida per osservare la nostra società occidentale», una guida particolarmente efficace perché «sembra indicare le angosce e le paure della nostra società occidentale molto più che le sue speranze o i suoi sogni» (p. 14). Ma Coulombe rifiuta una lettura schiacciata su un’unica interpretazione, perché – e qui coglie un punto importante – nello zombie «confluiscono immaginari a volte contraddittori che dinamizzano la sua figura», immaginari che lo intendono di volta in volta «cadavere e riflesso di noi stessi, mostro sanguinario e individuo traumatizzato, vittima e carnefice» (p. 15), senza che comunque sia mai riconducibile solo a una di queste varianti. Adottando alcune delle indicazioni metodologiche fornite da Georges Didi-Huberman, a partire dall’opera di Aby Warburg (cfr. sul punto L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, Bollati Boringhieri, Torino, 2006), Coulombe mostra che in effetti «lo zombie rappresenta perfettamente il frutto di un bricolage complesso che arriva a mescolare il mostro haitiano e l’individuo turbato, la bestia sanguinaria e il malato contagioso, la folla anonima e il doppio dell’uomo» (p. 33). Tutte le trasformazioni che la figura subisce nel corso del tempo – nel suo cammino dall’Africa ad Haiti, fino a giungere nel cuore dell’Occidente – hanno comunque significati che non possono essere ricondotti a una logica binaria, e cioè alla lotta fra due (e solo fra due) istanze contrapposte. «Noi infatti siamo convinti» – questa è la tesi di Coulombe – «che lo zombie non sia il risultato di una dialettica tra due desideri contraddittori; forse non è neppure soltanto una questione di desideri, ma anche di timori. Questi timori, distinti tra loro, costruiscono una creatura capace di aprirsi un varco in molteplici modi fino all’immaginario della nostra epoca. Seguire lo zombie come appare oggi nel nostro cinema, nei nostri romanzi e nelle nostre strade, significa capire che rispetto a questo stesso tema si sono espressi molti dei nostri interrogativi, dei nostri dubbi e dei nostri fantasmi. Questa la ragione per cui lo zombie ci affascina ed è così popolare, questa è la ragione per cui è anche un formidabile rivelatore della nostra epoca» (p. 37).
Per decifrare cosa si nasconda dietro il volto dello zombie, Coulombe segue in particolare alcune grandi piste teoriche. La prima – nonostante l’autore prenda in parte le distanze dalla logica dicotomica ravvisabile nella teoria del padre della psicoanalisi – è indicata da Sigmund Freud e dal suo celebre scritto sul «perturbante». Lo zombie in altre parole è legato, in questo senso, al paradigma dell’uomo traumatizzato, all’individuo che ha subito uno shock, e più in particolare lo shock causato – come voleva Walter Benjamin – dalla modernità. «L’appiattimento della soggettività e la difficoltà di vivere nuove esperienze segnano», secondo Coulombe, «l’orizzonte della nostra condizione (post)moderna» (p. 51). Una seconda pista conduce invece a rappresentare la cinematografia degli zombie come una sorta di rito carnevalesco, in cui si ribalta il codice ordinario della cultura contemporanea, fondato sul rifiuto della morte e della carne, anche se in un tale rovesciamento manca del tutto qualsiasi proiezione verso un futuro alternativo: «Ciò che si manifesta chiaramente nella figura dello zombie è una volontà, visibile nella risata, di rovesciamento delle costrizioni sociali. Tuttavia stiamo parlando di una volontà priva di progetto. Nel momento in cui la trama lo renderebbe possibile, l’orrore non riesce a trasformarsi in utopia. Essa non fa che liberarci mostrando i nostri obblighi, le nostre norme minate. In questo gusto per lo sfogo, in questa volontà di assistere alla fine del mondo occidentale, in questa incapacità di sognare, sopra le rovine dell’ordine stabilito, un altro mondo possibile, si manifesta una certa pulsione per la morte. Qui arriviamo a toccare il nodo centrale fantasmatico che si incarna nel mondo contemporaneo ed è raffigurato nel cinema zombie: il desiderio di assistere, in mancanza della possibilità di sognare qualcosa di migliore, alla distruzione del mondo» (p. 81). Ed è questo motivo che conduce d’altronde a ritrovare, dentro l’immaginario di tutta la fantascienza apocalittica, un riflesso della freudiana pulsione di morte: «una parte di noi desidera la distruzione dell’umanità come modo – metaforico – di riprendere il controllo di un fenomeno che ci è generalmente imposto. Il sogno dell’apocalisse funziona come una pulsione di morte, non semplicemente comportando una distruzione dell’umanità, ma permettendo di liberarsi da una passività – sociale, politica, ecc. – imposta. La fine dell’umanità sarebbe il nostro riscatto, non ne saremmo più vittime poiché l’avremmo, almeno immaginariamente, sognato, sperato. D’un tratto essa potrebbe liberarci: il film dell’apocalisse ci mostra questo fantasma. La finzione ci permette qui una riscossa immaginaria» (p. 103).
Le considerazioni di Coulombe – talvolta davvero interessanti, in qualche caso non del tutto convincenti – meriterebbero un approfondimento ulteriore. Ma, probabilmente, meriterebbe anche uno sviluppo più articolato il richiamo dell’autore alla riflessione di Giorgio Agamben sull’homo sacer e sul fondamento biopolitico dell’intera esperienza occidentale. Nel discorso di Coulombe le ipotesi di Agamben sul ruolo costitutivo dell’«eccezione» e dunque sullo spazio di indeterminazione fra zoé e bios, tra la vita ‘animale’ e la vita ‘qualificata’ (propriamente umana), vengono utilizzate per interpretare l’orrore nei confronti dello zombie, come variante del medesimo orrore (o della pietà) che proviamo dinanzi a individui privati di bios, e cioè a individui ridotti a una condizione di «quasi vita». «Lo zombie è una figura immaginaria, il comportamento dei protagonisti nei suoi confronti fornisce indicazioni sulla nostra cultura. Qui la reazione dei protagonisti davanti allo zombie è molto simile alle reazioni che noi abbiamo di fronte a individui che si trovano in uno stato vegetativo irrimediabile, individui che non sarebbero, ormai e per sempre, che zoè» (p. 58). Intesa in questo senso, l’immagine agambeniana dell’homo sacer finisce evidentemente col diventare poco più di una caricatura, che peraltro smarrisce del tutto il riferimento al potere ‘sovrano’, come potere che agisce nello spazio di indeterminazione tra zoé e bios. E in questo senso Coulombe non coglie alcune sollecitazioni pure molto importanti per sviluppare il suo progetto. È infatti molto probabile che proprio le ipotesi di Agamben potrebbero consentire di interpretare almeno alcuni frammenti dell’immaginario cresciuto attorno allo zombie. 
Come ha sostenuto Agamben in alcune sue pagine fondamentali, la macchina antropologica occidentale riesce a scoprire ciò che è proprio dell’essere umano solo grazie a un’operazione di esclusione, e cioè grazie alla fissazione di un confine tra la vita specificamente umana e la vita di qualcosa che, pur essendo vivo, non è qualificabile come «umano». In questa macchina è in gioco proprio «la produzione dell’umano attraverso l’opposizione uomo/animale, umano/inumano»: per questo, essa non può funzionare se non «attraverso un’esclusione (che è anche e sempre già una cattura) e un’inclusione (che è anche e sempre già un’esclusione)» (G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, p. 42). Inevitabilmente, la possibilità di distinguere fra umano e inumano prevede uno spazio di indeterminazione. Ed è questo lo spazio che viene occupato da quella galleria di mostri – di cui lo zombie rappresenta l’ultima variante – che si presentano come al tempo stesso «umani» e «non (più) umani». Nella passione che mostra per la sagoma dello zombie, la cultura popolare contemporanea non fa altro che riflettere il fascino e al tempo stesso la repulsione verso quella zona di indeterminazione, inevitabilmente ‘perturbante’. Ma è anche molto probabile che nel successo dell’immaginario dei morti viventi si trovino confusi tutti gli incubi dell’era biopolitica. Un’era in cui l’estensione globale dell’impero globale abbatte ogni barriera fisica tra il dentro e il fuori. E un’era in cui tutte le mitiche figure dell’estraneità – figure che in un passato neppure troppo lontano risultavano proiettate oltre i confini, o intraviste (forse solo immaginate) nelle misteriose foreste di remoti scenari esotici – vengono fatalmente introiettate. Tanto che nel famelico, bestiale eppure così familiare ghigno dello zombie possiamo riconoscere – ‘condensati’ come in un grande incubo notturno – tutti gli spettri della «natura umana». 

Damiano Palano

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