giovedì 30 ottobre 2014

Il moto pendolare fra la ‘parte’ e il ‘tutto’. Una recensione a un volume di Massimiliano Gregorio

di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Massimiliano Gregorio, Parte totale. Le dottrine costituzionali del partito politico in Italia tra Otto e Novecento (Giuffrè, Milano, 2013, Collana «Per la storia del pensiero giuridico moderno», n. 101), è apparsa sulla rivista «Storia del pensiero politico», n. 2, 2014. 

L’insofferenza che l’opinione pubblica sembra oggi nutrire nei confronti dei partiti in tutte le democrazie occidentali può forse alimentare il sospetto che questa forma organizzata dell’azione politica sia giunta al capolinea. A ben vedere, però, la pessima fama che circonda i partiti non è affatto eccezionale nella lunga vicenda del pensiero occidentale, perché una svolta significativa avviene solo a partire dalla fine del XVIII secolo e, soprattutto, al principio del Novecento. Un contributo rilevante alla ricostruzione di questo passaggio teorico e concettuale proviene ora dal volume di Massimiliano Gregorio, che in una approfondita e ricca analisi si sofferma sulle dottrine costituzionali italiane nel periodo compreso tra gli ultimi due decenni dell’Ottocento e gli anni Cinquanta del XX secolo. L’idea di fondo che orienta il lavoro è ben sintetizzata dal sintagma che dà il titolo al volume, perché l’espressione ossimorica «parte totale» viene a descrivere «la dialettica entro cui l’idea di partito è da sempre costretta a muoversi, quella tra parte e tutto, tra pluralità degli interessi e necessità di reperire un principio di unità politica» (p. VIII). Secondo Gregorio il concetto di partito è infatti destinato a oscillare nello spazio concettuale compreso tra la ‘parte’ e il ‘tutto’, alla costante ricerca di un punto di equilibrio. 
Nella stagione liberale – la prima fase considerata da Gregorio – l’atteggiamento della dottrina costituzionale italiana nei confronti del partito risulta segnato dalla marcata influenza esercitata dalla Staatslehre tedesca. Il dibattito può però accogliere parzialmente il partito perché lo intende come l’articolazione interna di una classe politica compatta dal punto di vista sociale e ideale, e dunque come il semplice riflesso della distinzione tra una maggioranza e un’opposizione che comunque «non poteva più rappresentare un reale pericolo di frammentazione» (p. 21). Questa prima legittimazione rimane però molto limitata, sia perché le riserve tradizionali sull’opportunità di formare veri e propri schieramenti partitici non vengono mai meno, sia perché l’infiltrazione della politica nella pubblica amministrazione viene ben presto interpretata come uno dei più nefasti prodotti della contrapposizione tra maggioranza e opposizione propria del sistema parlamentare. Dal punto di vista dottrinario, la soluzione che si impone – e che segna a lungo il dibattito all’interno della ‘scuola giuridica nazionale’ – è però quella avanzata da Vittorio Emanuele Orlando: una soluzione che certo riconosce un ruolo ai partiti, ma che, al tempo stesso, li colloca su un terreno ‘politico’ del tutto esterno al perimetro in cui domina la personalità giuridica dello Stato. 

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