lunedì 12 maggio 2014

L’Europa e il revival nazionalista. Un libro di Alberto Martinelli



di Damiano Palano

A qualche settimana dalle elezioni europee del 25 maggio è ancora difficile immaginare quale sarà il responso delle urne e, soprattutto, quale configurazione assumerà il nuovo Parlamento di Strasburgo.  Molti sondaggi prevedono però che il sostegno alle formazioni ‘euroscettiche’ sia destinato ad aumentare notevolmente rispetto alle precedenti consultazioni del 2009, e d’altronde le recenti elezioni amministrative francesi hanno dimostrato tutta la forza di formazioni che sono state considerate a lungo come marginali o antisistemiche e che invece, anche a seguito della crisi economica, stanno diventando autentiche protagoniste della scena. Naturalmente il fronte degli ‘euroscettici’ è tutt’altro che omogeneo, ed è anzi sufficiente dare un rapido sguardo alle forze che criticano – più o meno energicamente – la moneta unica per rendersi conto di come le posizioni siano da questo punto di vista tutt’altro che allineate su una visione comune. Il Fronte Nazionale francese ha per esempio ben poco a che vedere con la lista capeggiata da Alexis Tsipras, mentre il PVV olandese di Geert Wilders, nazionalista e anti-islamico, appare molto distante dal Movimento 5 Stelle. E per questo, a prescindere dai risultati delle elezioni di maggio, è da escludere l’ipotesi che si formi una grande coalizione anti-euro tra tutte le formazioni ‘euroscettiche’. Ma, a ben vedere, anche all’interno delle due principali forze storicamente filo-europeiste – il Pse e il Ppe – le divisioni interne non mancano (il caso di Forza Italia è il più significativo, ma non l’unico), tanto che anche la costituzione di una ‘grande coalizione’ fra socialisti e popolari non sembra poter consegnare una base parlamentare particolarmente solida alla prossima Commissione. E molti segnali fanno presagire che il richiamo del ‘sovranismo’ sia destinato a diventare sempre più forte nei prossimi mesi, o forse addirittura nei prossimi anni.
È proprio alla comprensione delle radici di questo ritorno delle identità nazionali che è dedicato il volume di Alberto Martinelli, Mal di nazione. Contro la deriva populista (Università Bocconi Editore, Milano, 2013, pp. 151, euro 16.00), che peraltro non è concentrato esclusivamente sul presente (e sul futuro) dell’Ue,  perché svolge anche una riflessione più generale sul fenomeno del nazionalismo. Esaminando la letteratura politologica sull’argomento, Martinelli sottolinea in particolare come il nazionalismo sia un fenomeno moderno e dunque legato all’esperienza dello Stato nazionale, nonostante utilizzi e rielabori materiali premoderni. Il cuore dell’analisi dello studioso è però ovviamente rappresentato dal contemporaneo revival nazionalista, che trova nell’antieuropeismo il «punto di coagulo delle due componenti, nazionalista e populista» (p. 77). Ed è d’altronde questo nesso che consente a Martinelli di considerare come esempi di uno stesso fenomeno esperienze molto lontane, come quelle del Fronte Nazionale francese e del Movimento 5 Stelle italiano. «Anche la versione recente del populismo, la cosiddetta democrazia della rete», osserva per esempio Martinelli, «che utilizza le nuove tecnologie informatiche, dà sì voce ai cittadini che interagiscono nella piazza elettronica (come nei meet up del Movimento Cinque Stelle), ma diventa spesso la piattaforma legittimante per l’affermazione di leader plebiscitari che gestiscono il movimento in modo apparentemente partecipato, ma sostanzialmente autoritario e intollerante del dissenso; è radicalmente diversa dalla democrazia deliberativa che richiede una discussione articolata e ragionata delle questioni da decidere e non frettolosi commenti e sarcasmi a colpi tweet» (pp. 77-78).
Scritti prima della rapida ascesa politica di Matteo Renzi, le osservazioni di Martinelli potrebbero forse essere indirizzate al ‘neo-populismo’ dell’odierno leader del Pd, anche se in questo caso l’uso disinvolto delle tecniche di comunicazione come strumento di conquista del potere non si è – almeno sinora – indirizzato contro le istituzioni dell’Unione europea, ma solo verso i più classici obiettivi dell’antipolitica, come la ‘casta’, i grandi burocrati, le ‘pensioni d’oro’. Martinelli considera però come esempi di nazional-populismo solo quello di destra, «nostalgico di una mitica grandezza della nazione», e quello di sinistra, «che rimpiange un mitico welfare state, ma non disdegna i temi patriottici» (p. 79), di cui sono espressione la greca Syriza o la tedesca Linke. Ma, al di là di questa mappa, sono interessanti le motivazioni che Martinelli indica come cause del revival nazionalista: in primo luogo, si tratta di una conseguenza della fine del bipolarismo Usa-Urss, che fa riaffiorare fratture più antiche; in secondo luogo, è la conseguenza del processo di «erosione della sovranità nazionale», un processo che determina il ridimensionamento del welfare state e, così, l’acuirsi di sentimenti di paura, insicurezza, frammentazione dei rapporti sociali. Proprio questa situazione, aggravata peraltro dal deficit democratico dell’Ue e dallo schiacciamento verso il centro dei partiti tradizionali di destra e sinistra, sarebbe allora all’origine dello spostamento di molti cittadini verso l’opzione nazional-populista: «La crisi economica prolungata e in particolare l’aumento della disoccupazione, che hanno effetti dirompenti sulla famiglia e l’organizzazione urbana e accentuano gli squilibri interregionali, ovvero comportano quel fallimento della società che alimenta il nazionalismo, forniscono nuovo combustibile alla protesta nazional-populista. I gruppi sociali emarginati, che fanno fatica ad adattarsi all’economia globalizzata e sono più penalizzati dalla crisi, come i giovani che non trovano lavoro, i piccoli commercianti e artigiani che subiscono un drastico calo delle loro attività, i lavoratori con qualifiche obsolete, sono i più sensibili all’appello nazional-populista» (p. 86).
Martinelli non ritiene comunque che la minaccia populista debba essere considerata come particolarmente insidiosa, o che possa generare qualcosa di simile alla crisi degli anni Trenta del XX secolo, proprio perché il fronte anti-europeista è molto frammentato e difficilmente compattabile dal punto di vista politico attorno a un programma unitario. «Il più efficace antidoto contro il nazional-populismo riemergente», osserva però Martinelli, «è la costruzione dell’Unione sopranazionale europea» (pp. 96-97). In sostanza, il problema per Martinelli diventa allora quello di trasformare l’Ue in un’unione federale, con un’accelerazione ulteriore dell’integrazione politica. Naturalmente, non mancano però gli ostacoli, che consistono principalmente nel fatto che i soggetti dell’Ue continuano a rimanere gli Stati nazionali (i quali continuano a ragionare, come le rispettive opinioni pubbliche, anteponendo l’interesse nazionale a quello sovranazionale), e nel dato per cui, a fronte di un trasferimento dei poteri verso il livello sovranazionale, gli impegni e la lealtà dei cittadini non sembrano essersi trasferiti verso le istituzioni dell’Ue.
Dato che le basi politiche risultano deboli, è dunque necessario costruire una vera e propria identità europea: «lo sviluppo di un’identità comune europea, non come identità esclusiva e alternativa alle identità nazionali, ma come parte di una identità plurima in cui l’identità europea coesista con le identità nazionali» (p. 107). Ma, soprattutto, secondo Martinelli è necessario procedere sul sentiero di radicali riforme, che per Martinelli prevedono soprattutto una unione politica sovranazionale tra i paesi che condividono la moneta unica, l’uniformazione della politica fiscale, l’introduzione di entrate tributarie autonome per l’Ue, la trasformazione della Bce in un banca centrale vera e propria, una netta separazione di competenze tra livello federale e livello statale, nuove regole elettorali, che dovrebbero prevedere anche l’elezione diretta del Presidente della Commissione.
Quando delinea le riforme che dovrebbero riformare l’Ue, Martinelli si colloca evidentemente più sul piano della proposta politica che su quello della semplice interpretazione del revival nazionalista. Ma, al di là di ogni valutazione delle proposte di riforma, è evidente che non si tratta di misure attuabili rapidamente, perché il loro orizzonte temporale si colloca piuttosto nel medio periodo. Il punto è però se l’Unione europea potrà sopravvivere così com’è per altri cinque-dieci anni, o se la forza della critica euro-scettica (e in particolare della critica alla moneta unica) non sia destinata a precipitare molto più rapidamente la situazione. A prescindere dalla stessa credibilità delle riforme indicate da Martinelli (e della valutazione del loro reale effetto politico ed economico), ci sono anche altre domande sollevate della sua analisi del fenomeno nazional-populista. In termini molto generali, è infatti difficile sottrarsi alla sensazione che Martinelli, pur svolgendo un’approfondita discussione delle diverse teorie che spiegano la genesi del ‘nazionalismo’, sottovaluti la portata dell’attuale ondata nazionalista, o che, quantomeno, la consideri soltanto come una ‘reazione’ emotiva, sentimentale, egoistica a un processo faticoso, ma in fondo inevitabile. In questo senso, il ragionamento che sta dietro l’analisi di Martinelli appare piuttosto lineare: la globalizzazione modifica radicalmente lo scenario in cui hanno vissuto i popoli europei; l’abbattimento delle barriere commerciali e l’ingresso di grandi attori emergenti dissolve completamente gli spazi in cui gli Stati nazionali hanno vissuto e operato a lungo; l’Europa può sopravvivere nello spazio globale solo trasformandosi uno Stato federale, capace di competere con i grandi attori del XXI secolo, come gli Stati Uniti, la Cina, la Russia, il Brasile, e così via; ogni ipotesi che guardi ancora ai vecchi Stati nazionali, o anche al vecchio welfare state novecentesco, è così solo il riflesso di un rimpianto nostalgico, ma non ha alcun futuro politico. Per quanto ridotta all’osso, fino al limite della caricatura, questa lettura ha d’altronde fornito anche il sostegno più solido alla costruzione comunitaria e al passaggio verso l’Unione. In sostanza, la giustificazione e la legittimazione dell’integrazione europea hanno fatto ricorso quasi esclusivamente a ragionamenti utilitaristici, che non casualmente hanno evocato i vantaggi economici derivanti dall’integrazione, mentre gli aspetti identitari sono stati relegati in secondo piano, tanto che quasi invariabilmente il compito della costruzione dell’identità europea è stata consegnato alla burocrazia europea, a progetti ‘culturali’ di impatto inconsistente, al tentativo di orientare il dibattito culturale e la ricerca scientifica in senso filo-europeista utilizzando i fondi dell’Ue, e soprattutto a quello stucchevole impasto retorico il cui perno è il ricordo del passato sanguinoso delle guerre del Vecchio continente. Ma è proprio adottando questo schema, che si rischia non prendere sul serio la sfida del nuovo ‘sovranismo’ e della rinascita del nazionalismo in Europa. 
Per quanto nella parte teorica del suo lavoro discuta a fondo i limiti delle visioni deterministe della genesi del nazionalismo, in realtà quando passa a considerare la situazione odierna tende a replicare uno schema quantomeno determinista, in cui la ‘base’ economica può incontrare qualche ostacolo sul proprio cammino, ‘resistenze’, retaggi del passato, che comunque sono destinati a essere spazzati via dalla storia e dalle logiche dello sviluppo economico. In altre parole, dal momento che Martinelli considera come il cammino dell’Ue – passato e presente – come un ‘destino’ determinato dalla globalizzazione e dalla transizione geo-politica, l’unica possibilità è aggiornare la ‘sovrastruttura’ a ciò che è diventata – e diventerà – la ‘struttura’ dell’economia mondiale. Certo, secondo questo ragionamento, ci possono essere residui sentimentali rivolti al passato, ma questi residui possono solo ritardare la necessaria opera di riforma, o persino determinare il declino dell’Europa, ma in ogni caso non hanno alcun ruolo positivo.
E una spia di questa lettura è anche l’utilizzo del termine “populismo” cui ricorre Martinelli per descrivere – e squalificare – la retorica dei diversi “nazional-populismo”. Da questo punto di vista, è piuttosto chiaro che l’adozione di una simile formula coglie alcune analogie nell’utilizzo della comunicazione e negli stili retorici, ma è altrettanto evidente che il termine “populismo” finisce con l’introdurre un’ipoteca normativa insostenibile in tutta l’indagine. A ben vedere, infatti, la retorica “populista” è propria di tutte le forze politiche, tanto che  si potrebbe persino sostenere – con una battuta – che le uniche forze politiche non populiste sono le forze ‘impopolari’. Naturalmente, la vocazione populista viene declinata in modo diverso, ma il riferimento al ‘popolo’ rimane fondamentale per tutte, e il tentativo di distinguere tra forze ‘populiste’ e forze ‘non populiste’ finisce spesso col palesare l’intento politico di squalificare qualche soggetto come moralmente indegno, o scorretto. Così, se lo stile populiste di Grillo e Bossi può apparire spesso sgradevole, non è difficile ritrovare la medesima logica nella retorica di Bettino Craxi e Matteo Renzi, nel loro esibito ‘decisionismo’, nello spregio delle forme della democrazia interna al loro partito, nell’esibizione del ‘fare’ contro le chiacchiere degli “sfascisti”, nella liquidazione degli avversari politici come mosche cocchiere della storia. Ma il problema non sta evidentemente tanto nei toni del “nazional-populismo” contemporaneo, quanto nelle radici da cui quel fenomeno profondo. Radici che la lettura proposta da Martinellli tende per molti versi a considerare solo marginalmente.
Certo si possono biasimare i rozzi strumenti retorici degli anti-europeisti, si possono stigmatizzare i toni populisti della polemica contro Bruxelles, si possono persino ridicolizzare le nostalgie del ritorno alla ‘liretta’, e si può così liquidare il revival nazionalista come una reazione emotiva a tutte quelle riforme ‘inevitabili’ che “chiede l’Europa”. Ma tutto questo induce a sottacere, o a collocare al margine della discussione, il grande, enorme problema che abbiamo sotto gli occhi e che consiste nel clamoroso fallimento delle classi politiche europee che hanno costruito l’Ue. Un fallimento che ha radici lontane, perché – non bisogna dimenticarlo – il progetto della moneta unica prende forma prima che finisca la Guerra fredda e che la Germania si riunifichi, in un mondo dunque completamente diverso da quello che abbiamo di fronte. Perché non sono stati minimamente previsti i risultati che la moneta unica (e i vincoli ad essa associati) avrebbe prodotto. Perché l’illusione che l’integrazione economica dovesse produrre la nascita ‘spontanea’ di una comune identità europea si è rivelata poco più di un sogno. Perché l’Ue è stata congegnata in modo tale da non consentire probabilmente che il cosiddetto deficit democratico sia superabile. E perché tutti i progetti di riforma – e anche molti di quelli che Martinelli auspica – potrebbero produrre effetti positivi “solo se” ci fossero delle condizioni politiche che in realtà non ci sono e che, con ogni probabilità, non si presenteranno nel prossimo futuro (come, per esempio, partiti politici ‘europei’ in grado di mobilitare le opinioni pubbliche verso un’ulteriore spinta all’integrazione politica, la disponibilità dei paesi del Nord a sostenere una parte del debito del paesi del Sud, ecc).
Se si considera la strada che ha condotto fino alla Ue odierna come un ‘destino’ al quale non esiste alternativa, è scontato che dobbiamo ritenere l’euroscetticismo, il revival nazionalista e ogni posizione sovranista come poco più che varianti contemporanee del luddismo, come una reazione emotiva del tutto irrazionale. Ma, in questo modo, compiamo evidentemente alcuni errori che non possono non inficiare lo sforzo intellettuale di comprendere il presente. In primo luogo, reintroduciamo una forma di determinismo quantomeno schematico, che considera le dinamiche economiche come ‘oggettive’ e immutabili (oltre che collocate al di sopra di ogni livello ‘politico’), e dinanzi al quale il determinismo volgare di Plechanov diventa persino raffinato. E, in secondo luogo, ci precludiamo di cogliere quali sono le forze che davvero muovono la Storia. Perché senz’altro è vero che il revival nazionalista odierno è in larga parte una reazione ‘emotiva’ alla sfida della globalizzazione e all’impatto determinato dall’integrazione europea sui singoli Stati. Ma la dimensione ‘emotiva’ non è un dettaglio nelle dinamiche politiche. Perché – che siano giuste o sbagliate, razionali o irrazionali – sono proprio le reazioni ‘emotive’ che spiegano molti eventi politici. Per esempio, noi possiamo biasimare la demagogia e la propaganda antisemita del nazionalsocialismo, e possiamo considerarla anche come una ‘reazione emotiva’ a serie di circostanze, ma questo non ci esime dall’obbligo di collocare l’ascesa del nazionalsocialismo all’interno di un quadro definito anche (seppure non solo) dalla volontà delle potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale di annullare politicamente ed economicamente la Germania. Inoltre, possiamo condannare la barbarie cui sono giunte alcune formazioni indipendentiste emerse nell’ex-Urss, e possiamo considerarle come ‘reazioni emotive’ alla dissoluzione di un grande impero multinazionale, ma ciò non ci può esimere certo dal collocare il risorgere di quei nazionalismi e il fallimenti di quegli esperimenti di convivenza multietnica anche nel quadro del clamoroso fallimento delle élite sovietiche nella costruzione di un regime collettivistico e nell’edificazione dell’economia socialista.
Certo l’Unione Europea non è l’Unione Sovietica. Ma ribadire per l’ennesima volta i meriti dell’Ue non ci può autorizzare a sottovalutarne i demeriti. E, soprattutto, non ci può autorizzare a squalificare i critici dell’Ue come ‘irrazionali’, come ‘populisti’, come demagoghi. Non certo perché spesso non lo siano. Ma perché in questo modo rischiamo di non comprendere ciò che sta avvenendo al Vecchio continente. E rischiamo soprattutto di sottovalutare un processo che, invece, è molto probabilmente destinato a modificare le nostre più consolidate categorie.

Damiano Palano

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