venerdì 18 aprile 2014

L’Europa nella trappola del deficit democratico. La posizione di Claus Offe (tra Habermas e Streeck)





di Damiano Palano

La professionalizzazione delle scienze sociali ha prodotto senza dubbio molti effetti positivi, come l’affinamento dei metodi di ricerca e l’adozione di un linguaggio rigoroso. Ma quel processo ha avuto anche più di qualche costo. La specializzazione disciplinare ha spesso comportato infatti la parcellizzazione del lavoro scientifico e, soprattutto, lo smarrimento di uno sguardo complessivo sulla società. Non è dunque fortuito che, in tempi di crisi, molti tornino a cercare risposte nelle pagine di ‘vecchi’ classici come Max Weber o persino Karl Marx, capaci di proporre una visione complessiva dei meccanismi di trasformazione sociale, e, così, di oltrepassare gli angusti steccati delle discipline accademicamente consolidate. È per molti versi proprio a questa vocazione ‘generalista’ delle scienze sociali che guarda un libro come Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico (Feltrinelli, Milano, 2013), di Wolfgang Streeck, direttore del Max Plank Institut di Colonia. 

Dal punto di vista accademico, Streeck è infatti un sociologo, e più precisamente un sociologo dei processi economici (uno studioso del ‘neo-corporativismo’ e delle relazioni sindacali), ma in questo testo torna a guardare al modello della ‘vecchia’ Scuola di Francoforte, e dunque a una sociologia intesa come una scienza capace di utilizzare gli strumenti più diversi e di confrontarsi con le grandi dinamiche politiche, economiche e culturali. Tempo guadagnato nasce d’altro canto dalle Lezioni Adorno tenute da Streeck, anche se il sociologo, più che attingere a quell’impasto di marxismo, sociologia e psicoanalisi che contrassegnò la prima stagione della Scuola di Francoforte, sembra piuttosto ritornare alla fase in cui, attorno agli anni Settanta, la riflessione della Scuola di fatto si esaurì. Il libro di Streeck affronta infatti la crisi economica di oggi (e in particolare la crisi dell’Unione Europea) riprendendo il filo del discorso interrotto sulla ‘crisi fiscale’ dello Stato: una discussione cui, una quarantina di anni fa (in coincidenza non casuale con l’irrompere di un’altra crisi economica globale), presero parte fra gli altri, oltre all’economista neo-marxista James O’Connor, anche Jürgen Habermas e Claus Offe. 
In quel periodo, da una prospettiva ‘conservatrice’, alcuni politologi come Samuel Huntington sostenevano che fosse in atto una ‘crisi’ della democrazia liberale, prodotta da un ‘eccesso’ di partecipazione e da un conseguente ‘sovraccarico’ di domande, alle quali il sistema politico non era più in grado di dare risposte soddisfacenti. Collocandosi su un versante politico diverso (e certo più ‘progressista’), Habermas e gli altri giovani studiosi che si richiamavano più o meno direttamente alla Scuola di Francoforte, fornivano invece una lettura più articolata, che si concentrava in special modo sulle caratteristiche del capitalismo ‘misto’ postbellico. E, dunque, nonostante non sottovalutassero gli aspetti ‘culturali’ (e dunque il deficit di legittimazione del sistema politico), tendevano a interpretare la crisi in atto soprattutto come un riflesso di contraddizioni strutturali dell’‘economia mista’. In sostanza, secondo il loro discorso, il capitalismo ‘misto’ era nato come tentativo di risolvere la grande crisi degli Trenta, perché lo Stato era entrato stabilmente all’interno della regolazione dei processi economici per superare le contraddizioni del capitalismo di mercato. Se in questo modo erano stati evitati alcuni problemi, la contraddizione di base del capitalismo non era stata certo superata, e questa si ripresentava infatti in forma non più puramente ‘economica’, ma anche ‘politica’, come crisi di razionalità (dell’intervento statale) e di legittimazione.
Quel dibattito proseguì per tutti gli anni Settanta e trovò anche in Italia molti lettori attenti. Proprio sulla soglia degli anni Ottanta, però, la discussione di fatto si esaurì. La mutata temperie politica influì non poco nell’indurre i protagonisti ad abbandonare il tentativo di costruire una visione ‘sintetica’ del funzionamento dei processi sociali e politici. La Scuola di Francoforte finì di fatto  col dissolversi, e proprio Habermas – che in fondo continuò a rimanere l’erede ‘ufficiale’ di Adorno e Horkheimer – intraprese un percorso in cui non trovavano più alcuno spazio i richiami a Marx o a Freud, perché i riferimenti cruciali diventavano piuttosto i classici del pensiero liberale. Quarant’anni dopo, Streeck torna invece proprio alle analisi degli anni Settanta, di cui riprende alcune delle tesi di fondo, aggiornandole però con un’analisi delle trasformazioni economiche e sociali intervenute a partire dagli anni Ottanta. Ma il libro di Streeck non deve essere letto come una velata polemica nei confronti di Habermas solo per il metodo di indagine e per gli strumenti utilizzati. Perché, in realtà, in Tempo guadagnato c’è un motivo polemico molto più forte, e direttamente politico. Proprio al termine del volume, confrontandosi con le difficoltà dell’Unione europea, Streeck indica nel ritorno alla sovranità monetaria dei singoli Stati membri l’unica possibile soluzione – seppur non ‘definitiva’ – alla crisi. In sostanza, secondo il sociologo tedesco l’adozione della moneta unica ha prodotto risultati disastrosi e l’unico modo per uscire dalla palude sarebbe ritornare alle monete nazionali, pur all’interno di una serie di vincoli comuni. Ed è fatalmente proprio su questa ‘ricetta’ – d’altronde proposta proprio nel pieno della campagna elettorale tedesca del 2013 – che si è addensato il dibattito. 
Tra i primi a intervenire, prevedibilmente, è stato proprio il ‘vecchio maestro’ Habermas (un maestro in verità mai molto amato da Streeck, neppure negli anni Settanta), che in una conferenza tenuta all’Università Cattolica di Lovanio nell’aprile del 2013 ha sostenuto che l’unico vero modo di risolvere la crisi europea consiste nell’approfondimento del processo di unificazione ‘politica’: un approfondimento che comporterebbe innanzitutto un trasferimento di poteri dal Consiglio europeo agli organi ‘politici’ dell’Unione (Commissione e Parlamento), ma soprattutto l’assegnazione all’Ue di potere fiscale autonomo e, infine, la mutualizzazione del debito dei singoli Stati membri (mediante l’emissione di eurobond).
Naturalmente, se le soluzioni indicate da Streeck appaiono quantomeno radicali, quelle profilate da Habermas – seppure all’apparenza molto convincenti (soprattutto agli occhi delle opinioni pubbliche dell’Europa meridionale) – non sembrano molto più praticabili dal punto di vista politico. Ed è proprio su questo limite che attira l’attenzione Claus Offe nel suo recente volumetto L’Europa in trappola. Riuscirà l’Ue a superare la crisi? (il Mulino, pp. 102, euro 10.00). Il pamphlet può essere letto come un nuovo capitolo di questa discussione teorico-politica, ed è tanto più interessante perché il suo autore (per molti versi, il vero ‘maestro’ di Streeck) fu uno dei principali e originali protagonisti della riflessione degli anni Settanta sulla crisi fiscale dello Stato. E la posizione che emerge dal volumetto si colloca in qualche modo a metà tra le due opzioni radicalmente opposte di Streeck e Habermas. La crisi che vive oggi l’Ue secondo Offe è infatti dovuta principalmente a un contraddizione fondamentale: «In estrema sintesi: ciò che sarebbe necessario fare con urgenza è estremamente impopolare e di conseguenza praticamente impossibile in un contesto democratico. Ciò che si dovrebbe fare, e su cui tutti sono d’accordo ‘in linea di principio’ (ossia una mutualizzazione del debito su larga scala e a lungo termine, che porterebbe a massicce misure redistributive sia tra gli stati membri sia tra le classi sociali), non può essere ‘venduto’ agli elettori degli stati membri che finora sono stati meno colpiti dalla crisi rispetto a quelli della periferia. Nello stesso tempo, occorrerebbe una spinta rapida e sostenuta alla competitività dei paesi periferici, un adeguamento del loro costo del lavoro (inteso come rapporto tra salari reali e produttività del lavoro) che porterebbe al raggiungimento di un relativo equilibrio commerciale e a livelli sostenibili dei deficit di bilancio. Tutto ciò è considerato necessario, ma anche impossibile da realizzare senza compromettere irreparabilmente i sistemi politici democratici di questi paesi» (pp. 20-21). In sostanza, dunque, Offe sostiene che le misure indicate da Habermas sarebbero effettivamente capaci di superare le difficoltà economiche odierne. Ma il punto è che si tratta di soluzioni di fatto impraticabili dal punto di vista politico, perché sono destinate a scontrarsi sia al Nord sia al Sud con opposizioni invalicabili. Al tempo stesso, anche il ritorno al passato – e cioè alle monete nazionali – è altrettanto impraticabile. Ed è per questo che l’Ue si trova in «una trappola senza uscita per nessuno» (p. 25). 
La valutazione dell’introduzione della moneta unica formulata da Offe non è certo generosa, perché l’unificazione monetaria viene bocciata senza appello dallo studioso tedesco. Ma, a suo avviso, non si tratta di un’operazione che sia facile – o possibile – revocare, se non a costi elevatissimi: «Non si può negare che l’euro sia stato un errore sin dall’inizio. Se si mettono due paesi come la Grecia e la Germania, per menzionare solo i casi estremi, in un’area valutaria unica, si scatenano forti pressioni economiche sul più povero e il meno produttivo, quello con i costi del lavoro più alti e perciò meno competitivo nel commercio internazionale, privandolo della possibilità di un aggiustamento esterno della propria valuta. In questo senso l’euro ha davvero legato le mani a tutti. Ma l’inclusione della periferia meno competitiva nell’Eurozona è stata uno di quegli errori che, una volta commessi, non possono essere emendati ritornando allo status quo precedente» (pp. 31-32). In sostanza, venuta meno la possibilità di un aggiustamento monetario esterno (svalutazione), l’unica via per ottenere un aggiustamento per i paesi meridionali dell’Ue è rimasta quella interna: pressioni sui salari, sulle pensioni, sul mercato del lavoro, sui servizi pubblici. E dato che questi aggiustamenti ‘interni’ sono stati fatalmente richiesti e imposti ‘dall’esterno’, hanno anche innescato forti reazioni.
La strada della ‘solidarietà’ – in buona sostanza, la mutualizzazione del debito – sarebbe vantaggiosa per tutti i membri dell’Ue, e anche per la stessa Germania. Ma per adottare simili politiche manca la base ‘politica’, ossia il sentimento di appartenenza a una ‘comunità di destino’: «nell’Ue la nozione di un ‘noi’ che definisca l’ambito della solidarietà non è consolidata come riferimento di un’identità condivisa» (p. 44). E ciò significa che manca oggi – e probabilmente che mancherà domani – il sostegno indispensabile delle politiche di solidarietà. In altre parole, dei deficit che imprigionano oggi l’Ue, il più grave è quello democratico. Se il deficit commerciale delle economie più povere e il deficit di bilancio sono quasi costantemente sotto gli occhi di tutti i cittadini europei, il più grave è però proprio il deficit democratico, perché solo riducendo quel deficit si potrebbe credibilmente sperare di attenuare anche gli altri. Per adottare le politiche di ‘solidarietà’ è infatti indispensabile il sostegno dei cittadini europei. Ma, ovviamente, la carta della democratizzazione delle scelte dell’Ue è molto più insidiosa di quanto spesso sostengano gli alfieri di una piena integrazione politica come Habermas. Non si può infatti sottovalutare il fatto che le opinioni pubbliche, quando si sono trovate ad esprimersi sul processo di integrazione, si sono dimostrate tutt’altro che entusiasticamente favorevoli (basti pensare ai referendum tenuti in Francia e in Olanda sull’approvazione del trattato sulla Costituzione europea). E, d’altronde, i partiti politici che dovrebbero sostenere l’adozione di una politica solidarista non sembrano affatto così omogenei e forti sul piano europeo, come opportunamente sottolinea Offe: «personalmente sono meno ottimista di Habermas circa le possibilità che i partiti politici siano realmente capaci e determinati a formare l’opinione pubblica attraverso il dibattito e la persuasione, allo scopo di creare il sostegno per politiche inclusive e lungimiranti. Ciò di cui i partiti politici avrebbero bisogno per formare il consenso è la capacità di superare paure, sfiducia, miope e sospetti diffusi» (p. 79).
Che i partiti che oggi affollano lo scenario europeo non siano affatto in grado di superare paure e diffidenze è un fatto talmente evidente da non richiedere neppure lo sforzo di una dimostrazione. Ciò vale naturalmente per le molte ed eterogenee forze ‘euroscettiche’ ed ‘euro-critiche’, i cui consensi vanno crescendo in termini quasi esponenziali. Ma vale anche per i grandi partiti europei, e in special modo per il Partito popolare, che appare fortemente diviso al proprio interno da una linea di frattura tra Nord e Sud, probabilmente destinata ad approfondirsi nei prossimi mesi per effetto della pressione esercitata dalle formazioni euro-scettiche. Ed è scontato che le prossime elezioni europee saranno molto più che un banco di prova, quasi un’ultima spiaggia per i progetti di riforma delle istituzioni delle Ue.
Affidarsi ai sondaggi pre-elettorali è sempre rischioso, e lo è a maggior ragione per elezioni da sempre ‘anomale’ come quelle del Parlamento europeo, quantomeno perché risulta sempre difficile stimare in anticipo il peso del principale partito, quello dell’astensione. È però probabile che i due grandi partiti storicamente ‘europeisti’ – il gruppo popolare e quello socialista – si ritrovino accerchiati da opposizioni bilaterali, molto diversificate al loro interno, ma sostanzialmente unite dall’euroscetticismo. Questa situazione non avrebbe forse un esito decisivo, ma potrebbe probabilmente indebolire ulteriormente le fragili ipotesi di procedere sul terreno di riforme solidariste, perché un esito del genere di fatto andrebbe a rafforzare l’elemento intergovernativo. Anche per questo, la via d’uscita dalla ‘trappola’ in cui si è cacciata l’Unione europea sembra destinata a diventare sempre più stretta, con conseguenze del tutto imprevedibili, che solo un semplicistico ottimismo può continuare a occultare sostenendo che all’Europa “non ci sono alternative”.
     
Damiano Palano

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