mercoledì 12 febbraio 2014

Che cosa è il Quinto Stato. Leggendo un libro di Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli



di Damiano Palano
 
«Un lavoro privilegiato»
Quando Luciano Bianciardi arrivò a Milano, nel 1954, il capoluogo lombardo era il centro trainante dell’economia italiana, probabilmente più ancora di quanto non lo fosse la Torino della Fiat. Se Torino era la «città-fabbrica» per eccellenza, dominata dal colosso automobilistico, Milano  era una città ‘policentrica’, in cui le fabbriche si affiancavano agli uffici, ai giornali, alle case editrici. Ed era proprio in questa Milano che Bianciardi doveva sperimentare cosa fossero diventati gli intellettuali, il loro ruolo, il loro lavoro, nel pieno del «miracolo economico». In un articolo pubblicato nel febbraio 1955, intitolato Lettera da Milano, scriveva per esempio di avere solo intravisto alcuni singoli intellettuali, ma di non avere incontrato gli intellettuali come «gruppo». E, soprattutto, scriveva di aver già riconosciuto, all’interno della schiera degli intellettuali, una netta differenziazione di ruoli: «Come non ho ancora visto gli operai, così non ho ancora visto gli intellettuali. Li ho visti, si intende e li vedo ogni mattina, come singoli, ma mai come gruppo. Non riescono a formarlo, e ad influire come tale sulla vita cittadina. L’unico gruppo in qualche modo compatto è quello che forma la desolata scapigliatura di Brera. Gli altri fanno i funzionari di industria, chiaramente. Basta vedere come funziona una casa editrice. C’è una redazione di funzionari, che organizza: alla produzione, lavorano gli altri, quelli di via Brera, che leggono, recensiscono, traducono, reclutati volta a volta come i braccianti per le faccende stagionali»[1].

Bianciardi avrebbe d’altronde sperimentato in prima persona le dinamiche dell’industria culturale milanese. E proprio questa esperienza doveva finire nello sfogo della Vita agra, la storia – scopertamente autobiografica – di un intellettuale che dalla Maremma giunge a Milano per vendicare gli operai deceduti nell’esplosione di una miniera. Il progetto di far saltare per aria i «torracchioni» di vetro e cemento dove si concentrava il «nemico» – ossia i grattacieli del centro direzionale compreso tra via Moscova e via Gioia – finiva però con l’essere abbandonato, perché l’intellettuale maremmano veniva gradualmente ‘integrato’ dentro il formidabile meccanismo della società dei consumi. In questo senso il libro di Bianciardi rimane uno specchio del boom, o meglio – come già allora molti segnalarono – un ritratto impietoso delle sue illusioni e delle sue dinamiche reali, oltre che della sua straordinaria capacità seduttiva. Ma non è solo per questo che oggi si continua a leggere Bianciardi. Se certo risulta ancora oggi efficace la satira della Milano consumista e frenetica dei primi anni Sessanta (la componente del romanzo che risultò maggiormente valorizzata dalla trasposizione cinematografica di Carlo Lizzani), è molto probabile che le nuove nuove generazioni trovino più di qualche motivo di interesse nelle pagine più cupe della Vita agra. Perché il libro di Bianciardi può essere letto oggi anche come una straordinaria anticipazione della realtà del lavoro intellettuale contemporaneo, e in particolare della condizione di quei lavoratori della conoscenza che – per scelta o per necessità – svolgono la loro attività soprattutto tra le pareti domestiche. Non è così affatto sorprendente che Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli – autori di Il Quinto Stato. Perché il lavoro indipendente è il nostro futuro[2], oltre che animatori del blog omonimo – abbiano trovato proprio nelle pagine del Lavoro culturale e della Vita agra quasi una sorta di manifesto[3]. In qualche misura, proprio quella che Bianciardi aveva descritto in modo così lucido più di mezzo secolo fa può essere infatti considerata la situazione in cui si trovano – secondo Allegri e Ciccarelli – gli esponenti del «Quinto Stato», uno strato sociale oggi già ben presente, sebbene ancora privo di un’identità definita e di un peso politico.

Assunto nella nuova casa editrice fondata da Giangiacomo Feltrinelli appena arrivato a Milano, Bianciardi ne fu infatti licenziato dopo poco tempo. O, meglio, gli venne proposto di lavorare come collaboratore esterno, come traduttore. La prospettiva era di conservare più o meno lo stesso stipendio e di lavorare a casa. Per uno spirito libertario come quello di Bianciardi questo aspetto doveva avere più di qualche lato positivo. Ma, ovviamente, ciò significava anche andare a ingrossare il gruppo di via Brera, ossia quell’esercito di lavoratori intellettuali che – al di fuori delle case editrici – «leggono, recensiscono, traducono, reclutati volta a volta come i braccianti per le faccende stagionali». Da quel momento in poi la vita di Bianciardi sarebbe mutata in modo radicale, perché, al lavoro d’ufficio, egli avrebbe sostituito un’attività svolta tra le pareti domestiche, spesso con l’aiuto della compagna. In questo modo, venivano eliminati i tempi e i costi di trasferimento quotidiani, il controllo eccessivamente rigido dei capi, gli ambigui rapporti con i colleghi, l’obbligo di timbrare il cartellino, a tutto vantaggio di tempi scelti (almeno in parte) liberamente, oltre che con prospettive di guadagno significative. Insomma, come diceva il protagonista della Vita agra, un «lavoro privilegiato»: «A pensarci bene, a far bene i conti, io ho un lavoro privilegiato, con cinque ore al giorno me la cavo, mentre altri debbono farsi le loro otto quotidiane di ufficio, più un’altra ora di tram, da casa al posto di lavoro, e hanno gli orari comandati, la macchinetta che punzona all’ingresso, oppure l’usciere apposito che segretamente marca e poi riferisce al capo del personale, e hanno i rapporti umano a cui stare dietro, gli attriti aziendali, tanta fatica per guardarsi le spalle dalle manovre delle segretarie, e dei dirigenti in ascesa. Io no, io debbo soltanto lavorare cinque ore al giorno, anche la domenica s’intende – e fanno trentacinque ore settimanali, una media da sindacato americano – ma poi sono libero, e non ho attriti aziendali, né umane relazioni, non insomma necessità di vedere gente»[4].

Sperimentando la nuova condizione consentita dal suo «lavoro privilegiato», Bianciardi avrebbe però scoperto rapidamente che la scelta di diventare collaboratore esterno doveva cambiare la sua vita anche in un altro modo. La Vita agra era infatti, in gran parte, proprio il diario della scoperta di questa nuova condizione, al tempo stesso lavorativa ed esistenziale. Una condizione in cui non rimaneva più alcuna traccia dell’antica aura che ancora nobilitava l’intellettuale di provincia, ma in cui il lavoro intellettuale, pur inglobato in un processo produttivo sempre più vicino a quello industriale, continuava comunque a conservare una propria specificità, che rendeva particolarmente utile la collaborazione esterna. E, soprattutto, una condizione che, pur svolgendosi formalmente in autonomia, addirittura tra le pareti domestiche, non cancellava il rapporto di dipendenza dal committente: «Tu magari firmi senza leggere con attenzione, ma intanto ti sei impegnato a consegnare un giorno preciso, e se sgarri ti impongono una penale del trenta per cento. Il pagamento lo fanno dopo l’approvazione. Hanno facoltà di rifiutare a loro insindacabile giudizio, escludendo ogni compenso. Sempre a loro insindacabile giudizio, qualora il tuo lavoro non corrisponda ai criteri e alle direttive […], e si renda necessaria una revisione, il compenso dovuto per quest’ultima sarà detratto dalla somma globale stabilita quale corrispettivo di cui al presente contratto. […] E poi bisogna lavorare tutti i giorni, tante cartelle per questo e quello e quell’altro, fino a far pari, anche la domenica. Se ti ammali non hai mutua, paghi medico e medicine lira su lira, e per di più non sei in grado di produrre, e ti ritrovi doppiamente sotto. […] E poi per loro era preferibile dar lavoro così, a cottimo, senza pagarci sopra oneri sociali, mutue, previdenze e altre marchette, senza rimetterci né la carta, né l’usura della macchina, dei nastri, dei tavoli, nemmeno il caldo. Il caldo te lo paghi da te. Ti paghi il caldo, l’usura della macchina e del nastro, tutto quanto. È un lavoro che può rendere, ma nessuno te lo invidia né cerca di toglierglielo, perché è parecchio faticoso e non piace. Non rientra nel gioco dei rapporti di forza aziendali, non dà né potere né prestigio, non è a livello esecutivo, e perciò te lo lasciano, e ti lasciano in pace. Al massimo ti potranno sollecitare, ti potranno telefonare»[5].

Per quanto rivestiti da una dose abbondante di ironia, molti elementi della Vita agra erano effettivamente autobiografici. Dal momento in cui Bianciardi scelse di lavorare come collaboratore esterno, ogni sua ora, ogni giornata, ogni settimana, venne infatti scandita dal numero di cartelle ancora da tradurre, dall’angosciante approssimarsi delle scadenze, dalle visite settimanali alle case editrici per consegnare i lavori svolti e per ritirare i nuovi, dai tentativi di ottenere un compenso più elevato e dal timore di non rovinare le relazioni con i pochi committenti. Il successo della Vita agra e il suo seguente adattamento cinematografico certo contribuirono a mutare la condizione economica dello scrittore. Ma l’atteggiamento di Bianciardi dinanzi alla buona notizia della decisione di Bompiani di pubblicare quello che sarebbe diventato il suo romanzo più noto rimane da questo punto di vista emblematico dello stato emotivo in cui il libro era nato. Perché, rivolgendosi al responsabile della casa editrice, che non vedeva nello scrittore tracce di entusiasmo, Bianciardi rispose che era contento, ma che doveva tornare subito a casa per concludere la sua razione quotidiana di cartelle.





 
 

Nessun commento:

Posta un commento