lunedì 11 novembre 2013

La festa perduta. La storia delle feste dell’Unità in un libro di Anna Tonelli

di Damiano Palano

Oltre che dalla costante tensione sul futuro del governo delle “larghe intese”, l’estate 2013 è stata anche accompagnata da una polemica giornalistica, certo non determinante, sullo spettacolo conclusivo della Festa nazionale del Partito Democratico, che si sarebbe tenuta a Genova dal 30 agosto al 9 settembre. La scelta di collocare nella serata più attesa, quella di sabato 7 settembre, poche ore dopo il comizio del segretario Guglielmo Epifani (tradizionalmente considerato l’evento culminante della Festa), lo spettacolo di un giovane rapper portato al successo da una delle più popolari trasmissioni televisive del gruppo Mediaset ha infatti alimentato più di qualche perplessità fra i militanti e i simpatizzanti del partito. Per quanto non fossero evidentemente in gioco grandi questioni politiche, quella scelta non poteva che risultare infatti quantomeno inappropriata da parte di un partito che, almeno in parte, nella sua propaganda ha sovente imputato alle emittenti di Silvio Berlusconi responsabilità non residuali nella ‘decadenza’ politica e culturale dell’Italia. E, inoltre, non pochi hanno intravisto in una quella decisione un segnale implicito dello spostamento in atto nel Pd, con la migrazione di dirigenti locali e nazionali da quello che fino a pochi mesi prima era stato il versante ‘bersaniano’ verso la sponda di Matteo Renzi. Perché proprio il sindaco di Firenze, oltre ad aver dato prova in decine di manifestazioni di avere pienamente metabolizzato la lezione comunicativa del ‘berlusconismo’, era stato protagonista di una delle sue più note (e controverse) apparizioni televisive, presentandosi nello studio della più importante trasmissione delle reti Mediaset – la stessa che aveva reso celebre il giovane rapper – curiosamente abbigliato come l’Arthur Fonzarelli di Happy Days
Anche se il tenore della polemica e il calibro degli ospiti musicali restituisce in modo piuttosto fedele l’immagine di un partito in notevole difficoltà culturale, prima ancora che politica, discussioni di questo genere non sono affatto inedite. E una documentazione importante viene a questo proposito dal bel volume di Anna Tonelli, Falce e tortello. Storia politica e sociale delle Feste dell’Unità (1945-2011) (Laterza, pp. 220, euro 15.00). Le Feste dell’Unità – che naturalmente hanno solo una parentela molto lontana con le attuali feste del Pd – non furono mai concepite in effetti dal Partito comunista come semplici eventi ricreativi, o semplicemente come eventi con cui raccogliere finanziamenti per l’organizzazione, nonostante le loro funzioni fossero anche queste. Più in generale, come mette bene in luce Tonelli, erano uno dei tasselli di un mosaico ben più ampio, perché rappresentavano uno degli elementi di quella religione politica che il Pci cercò di comporre nel corso della propria storia, o almeno per una lunga stagione. Una volta Alberto Moravia scrisse che le feste dell’Unità avevano «il vantaggio di combinare in sé tre idee base: quella della festa cattolica, quella del Soviet e quella del mercato». E per molti versi era effettivamente così. Anche se non sempre l’impresa di tenere insieme questi tre elementi così diversi si rivelò agevole. Perché anche nella lunga vicenda delle feste dell’Unità il tentativo di costruire un evento ricreativo e culturale alternativo a quello proposto dalla società dei consumi si mostrò spesso irrealizzabile, e lo sforzo di circoscrivere la cultura popolare all’interno del perimetro dell’aderenza ai principi ideologici del Partito venne a compromessi – più o meno dignitosi – con i modelli della cultura pop, dell’industria culturale, della televisione.
Dalla ricostruzione proposta da Tonelli emergono peraltro i tratti di alcune significative trasformazioni che attraversano la festa – e il modo di percepirla – nel corso dei decenni. La prima festa, organizzata a Mariano Comense poco dopo la Liberazione, è ancora del tutto priva degli elementi che la caratterizzeranno in futuro, ed è intesa più che altro come una sorta di scampagnata, progettata sull’esempio delle feste francesi (che peraltro si richiamavano alle vecchie feste giacobine). Ma solo nel 1947, a Monza, iniziano a profilarsi alcuni degli elementi cardine, tra cui soprattutto la presenza del segretario del partito, Palmiro Togliatti, che più tardi si trasformerà in vero e proprio comizio, diventando l’evento capace di saldare la dimensione ludica con quella politica.  Come nota in questo senso Tonelli, non si tratta di un’innovazione di poco conto: «l’ingresso di Togliatti è destinato inevitabilmente ad aprire una nuova strada nell’attribuire alla festa anche una connotazione più specificamente politica, rispondendo alla necessità di utilizzare ogni forma di propaganda per definire il ruolo di un partito che si candida ad essere un soggetto politico fondamentale nell’Italia che si appresta a votare per le prime elezioni politiche» (p. 18). Poche settimane dopo, la festa organizzata al Foro Italico avrà un impatto ancora superiore, anche perché in quell’occasione il ritorno di Togliatti a due mesi dall’attentato innescherà una mobilitazione con pochi precedenti, che Italo Calvino, in veste di inviato de «l’Unità», descriverà non senza qualche concessione celebrativa: «Un’Italia multiforme e multicolore, festante e combattiva, povera e dignitosa. Non c’era dubbio che nelle vie di Roma ieri si vedesse davvero il volto di tutto il popolo italiano, non una parte, non uno dei volti soltanto di questo popolo. Eppure sembrava che a Roma non ci fossero altro che i comunisti: mentre migliaia e migliaia di bandiere rosse continuavano a sfilare per via del Tritone e per il Corso, una doppia muraglia di gente rimase dalle 11 fin quasi alle 5 a fare ala al corteo applaudendo e gridando ‘Viva li compagni di Torino!’, ‘Viva li compagni di Palermo!’, con quell’entusiasmo e quella cordialità che il popolo romano meglio di ogni altro sa esprimere» (citato ivi, pp. 21-22). I toni retorici del Calvino giornalista – peraltro così lontani da quelli del narratore – tradiscono evidentemente l’intento di rappresentare «l’identità di un partito capace di tenere uniti valori di classe, politici e sociali da esibire come cemento forte all’interno di una liturgia della festa» (p. 23). Ed è d’altronde una simile convinzione a tenere insieme gli elementi di una festa in cui la dimensione ricreativa e ludica ha un peso determinante, con incontri di lotta libera, con il ballo liscio e anche con qualche ambiguità, come nel caso delle «stelline dell’Unità», un concorso di bellezza che mostra come il Pci non rifiuti in questa fase di esibire l’avvenenza femminile. 
Le trasformazioni della società italiana non tardano però a farsi sentire anche sull’impronta della festa. Già alla fine degli anni Cinquanta, il nuovo clima del boom inizia a riflettersi nella stessa scenografia, perché a delimitare gli spazi dei diversi stand non sono più palizzate di legno, ma ponteggi costruiti con quei tubi Innocenti che diventeranno un po’ un simbolo delle Feste de «l’Unità». E se in questi anni emerge in modo marcato la mitizzazione dell’Unione Sovietica (con la celebrazione delle conquiste spaziali dei cosmonauti russi), non mancano primi segnali di apertura ai rituali del consumo. Così, le lotterie mettono in palio frigoriferi, lavatrici, cucine a gas, televisori e automobili, mentre iniziano a essere numerosi gli stand che ospitano aziende e attività commerciali. Ma il rapporto con la nuova società dei consumi diventa complicato soprattutto a proposito degli ospiti musicali, sia perché non è sempre agevole conquistare un equilibrio fra ‘vecchio’ e ‘nuovo’ capace di mettere d’accordo generazioni diverse di militanti, sia perché torna ogni volta a riaccendersi la discussione sull’opportunità di concedere uno spazio crescente alle star della musica commerciale, come Adriano Celentano, Gianni Morandi, Domenico Modugno. Perché, nonostante le molte concessioni, l’intento del Pci rimane quello di ‘educare’ le masse a un consumo culturale che non sia quello proposto dall’american way, e cerca così di «trasformare le feste in un’alternativa vera a quello stile di vita omologato e spesso pericoloso» (p. 84).
Oltre che per la presa del consumismo sulla società italiana, il modello ‘pedagogico’ con cui il Pci concepisce le feste viene anche sfidato dal Sessantotto e dalla ‘stagione dei movimenti’. Come sottolinea opportunamente Tonelli a questo proposito: «Nella generale categoria dell’antiautoritarismo che caratterizza la rivolta degli studenti, è compresa anche un’idea di politica basata su gerarchie e selezioni imposte: una critica che finiva col coinvolgere anche l’impostazione del Pci dirigista. Di qui le prime perplessità del partito nei confronti dei contestatori, visti come potenziali avversari della militanza comunista» (p. 91). Ma questo atteggiamento si risolve spesso in una chiusura nei confronti di molte sollecitazioni che provengono non dai ‘giovani’, ma anche dalle donne. E quest’ultimo elemento di ritardo si rivela nella difficoltà di elaborare un modello dell’emancipazione femminile che non coincida con l’esaltazione del modello sovietico e con un atteggiamento di cui la celebrazione della cosmonauta russa Valentina Tereshkova, invitata al Festival dell’Unità di Milano nel 1967, costituisce un esempio emblematico.
Anche per rispondere alle sollecitazioni che provengono dalla trasformazione della società italiana, le feste si modificano però notevolmente negli anni Settanta. Si tratta innanzitutto di un’esplosione quantitativa, tanto che si arriva nel 1975 a più di settemila feste, senza contare le feste provinciali, con una partecipazione stimata di circa 30 milioni di persone (p. 105). Ma questa esplosione – che ovviamente coincide anche la massima espansione elettorale del Pci – è anche la testimonianza di come l’organizzazione del partito intenda le feste, oltre che come evento ludico e ricreativo, come strumento di comunicazione, capace di trasmettere l’immagine di un partito forte, grande ed estremamente organizzato: «Lo scopo di raccogliere i fondi per l’Unità e il partito rimane immutato, ma diventano prioritarie le esigenze di dimostrare quanto il Pci sia un modello proponibile per una società che doveva fare i conti da una parte con la lotta contro il terrorismo e dall’altra con il rifiuto dei valori tradizionali messi in discussione dai fermenti giovanili e movimentisti, senza contare la risposta da dare alla crisi economica e alla recessione. Non sempre tali esigenze riescono a tradursi in una politica con un orientamento chiaro e innovativo, ma convergono in un dibattito più aperto sulla posizione del partito all’interno della società dei consumi. Vale a dire quale compito svolgere per orientare, formare, convincere le masse attorno a un concetto di cultura funzionale all’interno e all’esterno. In questa direzione le feste sono fondamentali per la capacità di coinvolgere i propri militanti e, nello stesso tempo, di rivolgersi anche a visitatori esterni non iscritti al partito» (p. 111).
Il rischio implicito nella svolta ‘commerciale’ è però soprattutto quello del «gigantismo», un rischio che viene messo subito in evidenza anche all’interno del partito, e che consiste peraltro anche nel replicare strutture che già esistono, ma che funzionano male.  Simili critiche non inducono comunque a un sostanziale ripensamento, anche perché a partire dalla metà degli anni Settanta, in coincidenza con l’avvio dell’esperienza di governo del «compromesso storico», la spinta al «gigantismo» si rafforza ancora di più: d’altronde, «i dirigenti sono convinti che dai padiglioni delle feste deve uscire confermato il verdetto delle urne, con un Pci capace di funzionare come forza di governo anche misurandosi sulla qualità dei ristoranti e sull’allestimento delle mostre» (p. 122). E anche per questo la tensione fra cultura ‘alternativa’ e modello consumista, invece di allentarsi, si accresce, come per esempio nel caso dei concerti di grandi star della musica italiana e internazionale. D’altronde, a partire dalla fine degli anni Settanta una componente rilevante del gruppo dirigente del Pci inizia a rivedere i cardini di quella stessa distinzione, oltre che ad abbandonare la vecchia demarcazione fra ‘alto’ e ‘basso’, cercando così – per esempio con le sperimentazioni dell’Estate romana – di allestire eventi ludico-ricreativi che, poco a poco, perdono ogni connotazione pedagogica.
Negli anni Ottanta, in cui comincia il lungo crepuscolo della Festa (che peraltro sopravviverà al Pci), tutti gli elementi di ambiguità vengono alla luce. Non si registra ancora un calo quantitativo, ma si possono già cogliere alcuni segnali di cambiamento. Innanzitutto, le funzioni della festa iniziano a modificarsi, perché – come coglie bene Tonelli – la Festa diventa sempre più uno strumento di comunicazione politica (p. 147). Dal punto di vista organizzativo, anche per questo si assiste a un ulteriore ‘scatto in avanti’, che consiste soprattutto nella costruzione di strutture che non utilizzano più i tubi Innocenti ma prefabbricati più stabili e tecnologici. Ma, come rilevano i risultati di alcune inchieste interne, il consumo da parte dei visitatori è sempre più passivo e sempre più privo di connotazioni politiche, nonostante l’apertura a nuovi temi e a soggetti come i giovani e le donne. E saranno inevitabilmente queste tendenze a diventare sempre più forti con il passaggio dal Pci al Pds e con l’inizio di una contrazione quantitativa, che rende persino difficile organizzare l’appuntamento annuale della Festa nazionale (non casualmente ospitata quasi sempre nel triangolo Modena-Reggio Emilia-Bologna).
Con la nascita del Pd la storia ufficiale delle Feste dell’Unità» si conclude, anche se in realtà ancora in molte zone dell’Italia centro-settentrionale viene utilizzata la vecchia denominazione. Si tratta evidentemente di una delle tante conferme del fallimento della costruzione del Partito democratico. Un partito che, al di là delle alterne vicende elettorali, è stato ben lontano dal riuscire a raggiungere l’obiettivo che si prefiggeva di fondere in un’unica grande organizzazione le diverse anime del progressismo italiano, e in particolare quella ex-comunista e quella ‘cattolico-sociale’. Ancora non è chiaro quali saranno nel prossimo futuro le conseguenze di questo matrimonio precocemente fallito. Ma, al di là di questo, la lunga vicenda delle Feste dell’Unità, ci consente anche di ricostruire un aspetto della storia dei partiti italiani che oggi si tende spesso a sottovalutare. Con le loro ingenuità e qualche inevitabile eccesso retorico, le feste dell’Unità sono infatti forse l’esemplificazione più chiara del tentativo di costruire una religione politica, con i propri rituali, eventi ed eroi. 
E, al tempo stesso, ci fornisce la più nitida testimonianza di cosa significasse – al di là delle iconografie – la militanza in un partito di massa, e di come i partiti di massa potessero utilizzare l’energia di decine di migliaia di militanti, disposti a dedicare giorni, settimane e talvolta interi mesi alla preparazione di eventi che oggi spesso consideriamo come puri appuntamenti ricreativi. Oggi nessun partito potrebbe mettere in campo anche solo un decimo di quel patrimonio umano. Ed è difficile trovare una migliore conferma all’ipotesi che i partiti di massa sono ormai un ricordo del passato, e che i nuovi partiti – si definiscano come partiti professionali-elettorali, partiti di cartello o partiti in franchising – non hanno più alcun sostanziale rapporto con i propri iscritti e militanti. Nel frattempo ci si è liberati probabilmente di molti schematismi manichei, del peso dell’ideologia o di una disciplina talvolta soffocante. Ma forse dovremmo anche riconoscere che, in questa lunga transizione, si è persa anche una delle basi su cui si poggiava la fragile architettura delle nostre democrazie.

Damiano Palano


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