lunedì 7 ottobre 2013

Le paure dell’«homo munitus». Gli Stati murati secondo Wendy Brown




di Damiano Palano

Con il suo film La Zona il regista messicano Rodrigo Plá ha offerto un’ottima rappresentazione di quella paura postmoderna che spinge a rinchiudersi dentro recinti ipersorvegliati. Il quartiere blindato della Zona era naturalmente la metafora di una condizione più generale. Ma gated communities simili a quella del film si sono effettivamente moltiplicate negli ultimi decenni, soprattutto negli Stati Uniti e in America Latina. Alla percezione di insicurezza che spinge a rifugiarsi nel perimetro di queste cittadelle fortificate è dedicato Stati murati, sovranità in declino (Laterza, pp. 169, euro 16.00), un volume in cui Wendy Brown si muove tra filosofia politica e fenomenologia del presente. In realtà Brown, docente a Berkeley, non si concentra tanto sulle gated communities, quanto più in generale sui muri di separazione che negli ultimi vent’anni sono sorti più o meno in tutte le aree del mondo come barriere contro l’immigrazione clandestina e contro il terrorismo. Ciò nonostante, il suo testo può essere considerato come una sorta di indagine sulla psicologia dell’«homo munitus», l’uomo che si barrica dietro il proprio recinto.




La tesi di Brown è piuttosto semplice. La costruzione di un muro di protezione, costantemente presidiato e rafforzato da sofisticati sistemi di videosorveglianza, potrebbe apparire come il trionfo della sovranità dello Stato, come un’esibizione della sua forza e della sua capacità di controllo. In realtà si tratta esattamente dell’opposto, perché “i nuovi muri sono icone dell’erosione della sovranità”. In altre parole, si tratta solo di una risposta simbolica all’impatto della globalizzazione, che tenta di compensare con la teatralità di un’esibizione di forza la realtà della perdita di potere. Non è dunque casuale che negli ultimi due decenni i muri abbiano conosciuto tanta fortuna. Dal momento che hanno progressivamente smarrito la capacità ‘contenere’ i flussi di merci, capitali, informazioni e persone, gli Stati hanno trovato un rimedio alla crescente impotenza nella costruzione di grandi barriere. Spesso si tratta di fortificazioni costosissime eppure sostanzialmente inefficaci nel presidiare effettivamente il territorio. Ma la loro vera funzione va ritrovata altrove, e cioè nella capacità di elevare una sorta di «difesa psichica della nazione». I muri non sono dunque altro che meccanismi di rassicurazione, sia perché simboleggiano una barriera protettiva contro il ‘fuori’, sia perché riescono a ‘condensare’ in un’unica figura – il terrorista, il clandestino – tutte le minacce che insidiano potenzialmente la sicurezza dell’«homo munitus».
A ben vedere il ragionamento di Brown non è immune da un certo schematismo e non è affatto privo di alcune debolezze teoriche. In particolare, la filosofa americana interpreta un po’ troppo frettolosamente l’idea di Carl Schmitt secondo cui tutti i concetti della moderna dottrina dello Stato (tra la cui la nozione di ‘sovranità’) sono concetti teologici. E, così, fraintende largamente il significato di un fenomeno complesso come il ‘ritorno del sacro’, considerandolo solo come un riflesso della crisi della sovranità. Ciò nondimeno, il libro di Brown riesce a cogliere il legame fra l’impatto della globalizzazione e la rinascita del nazionalismo e della xenofobia. Proprio quando i confini diventano più porosi, proprio quando le frontiere si rivelano meno capaci di ‘contenere’ un popolo e un’identità culturale, si rafforza infatti la spinta a costruire (e ricostruire) una “comunità immaginata”. E torna a farsi sentire la spinta a elevare barriere simboliche che separino il ‘dentro’ dal ‘fuori’, e che respingano i ‘nuovi barbari’ oltre i confini.

Damiano Palano



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