di Damiano Palano
Mentre si avvicina la fine della Seconda Repubblica, diventa possibile stilare un bilancio dell'ultimo ventennio. Un bilancio che certo non può essere positivo. E che ci spinge a chiederci se la Seconda Repubblica non si sia basata su alcuni grandi bugie. O quantomeno su alcuni enormi errori di valutazione.
Questa recensione è apparsa sul sito dell'Istituto di Politica
Nell’aprile del 1993, proprio nei giorni in cui infuriava la bufera di Tangentopoli, Ernesto Galli della Loggia scrisse che la Seconda Repubblica stava «nascendo su una bugia», in modo non del tutto dissimile da quanto era avvenuto per la Prima: «Allora la bugia fu la supposta rivolta – morale prima, armata poi – di tutto il popolo contro il fascismo. […] Oggi la nuova bugia parla anch’essa di rivoluzione – non più antifascista ma antiburocratica – che […] vedrebbe protagonisti gli italiani per così dire rigenerati, fatti moralmente nuovi […]. Come si può credere ad una qualunque nuova sostanza morale di massa dietro la cosiddetta rivoluzione italiana quando non risulta che siano mutati di un ette i comportamenti ‘morali’ e ‘immorali’ di massa degli italiani?». Dalla lettura di Galli della Loggia trapelava ben più che un’ombra di pessimismo, e anche per questo risultava stridente il contrasto con gli umori dominanti, che dipingevano invece l’offensiva giudiziaria contro la classe politica del vecchio «pentapartito» come una sorta di liberazione dal giogo sopportato per tanti anni. Proprio quel pessimismo coglieva però la dimensione più oscura che si celava dietro il mito «società civile», dietro le entusiastiche celebrazioni della «gente», dietro la raffigurazione di una piazza onesta in rivolta contro la corruzione del «Palazzo». E non soltanto perché alle spalle di quelle immagini si nascondeva una grande operazione autoassolutoria. Ma soprattutto perché grazie all’illusorio rituale di quella specie di ‘nuova Resistenza’ si evitava di riconoscere il serrato legame che stringeva la società italiana (o quantomeno una sua parte significativa) al sistema politico, tanto da dimenticare persino come il benessere dei tanto celebrati (e denigrati) anni Ottanta fosse intrecciato a doppio filo con tutti i problemi che il paese si sarebbe trascinato per due decenni.
Oggi la pesante eredità che la Prima Repubblica ha consegnato alla Seconda inizia invece a diventare sempre più chiara, e in effetti diverse ricostruzioni si spingono a rintracciare proprio negli anni Ottanta le radici più profonde del clamoroso tradimento delle speranze di rigenerazione coltivate al principio degli anni Novanta. Un contributo importante al dibattito viene in questo senso anche dal volume di Simona Colarizi e Marco Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della Seconda Repubblica. 1989-2011 (Laterza, pp. 276, euro 18.00), un testo che naturalmente, pur volgendosi all’indietro, non può evitare di guardare al presente e, in special modo, al futuro di una transizione ancora indecifrabile. La tesi interpretativa dei due storici – non certo teneri nei confronti della classe politica dell’ultimo ventennio – si trova per molti versi esplicitata già nel titolo del lavoro. In primo luogo, la «tela di Penelope» evocata da Colarizi e Gervasoni – e richiamata dal verso dell’Odissea collocato in epigrafe («di giorno la gran tela tesseva / e la sfaceva di notte con le fiaccole accanto») – allude infatti all’impotenza della politica, del tutto incapace di costruire soluzioni alle necessità del paese e di mantenere le grandi promesse di riforma. In secondo luogo, il perimetro temporale, entro cui i due autori circoscrivono l’analisi, esplicita la convinzione che a segnare l’intera vicenda della Seconda Repubblica siano due eventi internazionali: il crollo dei regimi socialisti e il vertice europeo di Maastricht. Proprio questi due eventi – pur precedendo l’avvio del nuovo ciclo della politica italiana – sono infatti destinati a pesare a lungo. Per un verso, il crollo del Muro berlinese mette a dura prova l’identità del Pci, posto dinanzi al fallimento di un’esperienza a lungo considerata come un riferimento importante (se non proprio come un modello o una guida). Per l’altro, la fine della Guerra fredda priva anche la Democrazia cristiana del ruolo di baluardo anticomunista, sotto il quale è rimasta per decenni occultata la degenerazione del partito. Mentre entrambi i pilastri della Prima Repubblica risultano per questo colpiti nelle fondamenta, le tendenze alla disgregazione del sistema partitico possono finalmente svilupparsi compiutamente, conducendo rapidamente al tracollo – con il supporto dell’azione giudiziaria – un sistema di potere. Ma anche il secondo evento ricordato da Colarizi e Gervasoni – l’incontro di Maastricht – gioca un ruolo tutt’altro marginale. Negli ultimi anni della Prima Repubblica, la classe politica sposa infatti con un incondizionato entusiasmo europeista la prospettiva che condurrà all’unione monetaria, sebbene sia assai meno disposta a compiere i passi necessari per procedere realmente su questo terreno. «A parole», scrivono d’altronde i due storici, «tutti i partiti si proclamavano decisi a compiere i passi necessari, tutti sbandieravano la loro fedeltà ai principi comunitari», ma «nei fatti tutti esitavano con cura di attuare gli indirizzi della comunità europea che avrebbero comportato una brusca frenata alla spesa pubblica e al welfare su cui si poggiava l’edificio già traballante dei consensi ai governanti» (p. 17). L’ambivalenza fra un esibito europeismo e la resistenza a mettere in pratica le indicazioni dell’Ue segnerà il ventennio seguente. E, per molti versi, spingerà il paese verso un vicolo cieco.
Nella loro ricostruzione, Colarizi e Gervasoni ripercorrono naturalmente la deflagrazione di Tangentopoli, la marcia verso le elezioni del 1994, la ‘discesa in campo’ di Silvio Berlusconi, la nascita di Forza Italia, e la vittoria dei due poli che nella figura del magnate della comunicazione trovarono l’elemento di temporanea aggregazione. E, in seguito, si volgono all’altra ‘discesa in campo’ di Prodi, alle lacerazioni interne del Pds, all’eterogeneità politico-culturale dell’Ulivo, ai rapporti contrastati con Rifondazione comunista. La frammentazione della coalizione guidata da Prodi ebbe come più evidente conseguenza l’instabilità governativa, destinata a segnare l’intera legislatura iniziata nel 2006. Ciò nondimeno, proprio gli anni del primo governo Prodi furono probabilmente quelli che indirizzarono l’Italia sul binario che avrebbe percorso nel corso della Seconda Repubblica. La decisione europea di giungere a un’unione monetaria ampia (comprendente anche Italia e Spagna), la crescita economica favorita dalla parabola della new economy statunitense, le pressioni sulla riduzione del debito pubblico, le prime misure volte a flessibilizzare il mercato del lavoro per favorire l’occupazione giovanile, definirono infatti un quadro da cui l’Italia non sarebbe più uscita. Come scrivono da questo punto di vista Colarizi e Gervasoni: «la nazione rinunciava a una parte rilevante della propria sovranità senza avere però una classe dirigente in grado di assicurare ai suoi cittadini i vantaggi che derivavano dall’appartenenza a una grande comunità sovranazionale, l’area economica più ricca del mondo. Il sistema politico, rimasto instabile dopo la caduta della Prima Repubblica, sembrava condannare l’Italia a una progressiva marginalizzazione sul terreno delle decisioni che gli Stati dell’Unione Europea assumevano e avrebbero assunto in questa fase di vera e propria riorganizzazione del mondo. E il paese declinava sotto ogni profilo, economico, sociale, culturale, più accentuato si faceva i ripiegamento su se stesse delle forze politiche chiuse nei palazzi di un potere ormai ridotto e assorbite da lotte interne che le allontanavano progressivamente dall’Europa e dalla stessa società italiana» (pp. 86-87).



In sede retrospettiva, è legittimo interpretare questa forma di erogazione di rendite come una sorta di compensazione con cui la classe politica della Prima Repubblica intendeva assicurarsi il consenso di elettori sempre più diffidenti e tendenzialmente ostili, e non è probabilmente fortuito che il ‘contratto’ fra governanti e governati vada in crisi proprio nel momento in cui – nella prospettiva di Maastricht e dell’unione monetaria – i nodi di un debito ormai mastodontico vengono al pettine. Ma, forse, è ancora più importante tornare a puntare lo sguardo su quanto avvenne nel breve arco temporale compreso fra il 1989 e il 1993. Proprio in quegli anni, in cui si consuma l’ultima stagione di una classe politica ormai avviata verso il tramonto, prese forma un’altra delle grandi bugie su cui nacque la Seconda Repubblica. Una classe politica ormai sempre più delegittimata – che in parte forse già sospettava il cataclisma che la attendeva, o che invece fu del tutto inconsapevole del peso delle proprie scelte – strinse infatti l’Italia nei vincoli fissati nel Trattato di Maastricht: vincoli che, come abbiamo scoperto in un ventennio, erano destinati a rendere quasi inevitabile il declino del paese. Per comprensibili motivi, il problema del debito accumulato negli anni Ottanta non venne allora affrontato come un problema effettivamente politico, come uno dei lasciti della Prima Repubblica, e non fu considerato da nessuna forza politica come un processo di ‘corruzione’ cui una parte consistente della società italiana aveva partecipato entusiasticamente. Affrontarlo in questi termini, e cioè ‘rinegoziare’ il debito con i cittadini creditori, avrebbe forse comportato il taglio di quel filo già estremamente sottile che ancora teneva insieme la società italiana. Senza dubbio, per una debole classe politica, messa sotto scacco da Tangentopoli, avrebbe significato alienarsi completamente ogni residuo sostegno, mentre per il nuovo ceto politico – o quantomeno per quella parte che si candidava a interpretare il «nuovo che avanza» - avrebbe comportato conflitti incalcolabili, che nessuno ebbe né la forza né il coraggio di affrontare. La soluzione al problema del debito fu così trovata nella costruzione di una mastodontica bugia: una bugia – grande almeno quanto il debito pubblico accumulato negli anni – raccontata dalla ‘vecchia’ classe politica e cui la ‘nuova’ (insieme d’altronde all’intera Europa) fece finta di credere. Il rimedio fu infatti di spostare il problema in avanti, e cioè di immaginare un piano di riduzione del debito pubblico legato alla progressiva diminuzione della spesa pubblica. Ma, oltre a questo impegno (che non sarebbe risultato vincolante, in assenza di accordi internazionali), si decise anche di impegnare il paese nella partita dell’unione monetaria europea: una partita che avrebbe privato in prospettiva l’Italia della possibilità di svalutare la propria moneta e che, soprattutto, l’avrebbe vincolata al rispetto di parametri destinati in teoria a rendere il paese più competitivo sul piano internazionale, e nei fatti a condannarlo a una crescente pressione fiscale.
Ventuno anni fa, mentre si avvicinava la conclusione dell’ultima legislatura della Prima Repubblica, un editorialista del «Corriere della Sera» scriveva: «La strada da percorrere per soddisfare i ‘criteri di Maastricht’ è abbastanza chiara ed è stata illustrata in vari documenti governativi. Occorre ‘soltanto’ percorrerla davvero, nella misura e nei tempi che vengono dichiarati, senza le diluizioni e i rinvii che si sono avuti negli anni scorsi. Il compito sarebbe agevolato se un gruppo di persone dotate di qualche autorevolezza riuscisse a far capire meglio all'opinione pubblica quanto fondamentale è la posta in gioco e, contemporaneamente, stimolasse il governo a compiere tutte le necessarie azioni di sua competenza, incalzandolo di fronte a quella stessa opinione pubblica più consapevole. Quanto all'accettazione di alcune incisive misure di austerità, sono convinto che il vero ostacolo sia il surplace che blocca i diversi partiti nel timore dell'impopolarità; ma che gli italiani siano più pronti, di quanto la classe politica ritenga, ad accogliere quelle misure, se venissero presentate con chiarezza, a cittadini ‘adulti’, in una prospettiva convincente». Ma il rispetto dei criteri di Maastricht e le dolorose misure di austerità richieste ai cittadini italiani, se erano elementi indispensabili per poter essere inclusi nell’area della moneta unica, non erano certo obiettivi sufficienti all’Italia per far fronte alle sfide che negli anni seguenti sarebbero giunti da un mondo globale. Per questo l’editorialista del «Corriere» invitava a guardare anche oltre, e a riflettere sulle insidie economiche del futuro: «È però necessario guardare anche agli aspetti ‘reali’ dell'economia e spingere lo sguardo molto più in là nel tempo. Se non fosse per il progetto di Uem, che ci costringe almeno ad alzare lo sguardo agli ultimi anni di questo decennio, è oggi assente dalla politica economica italiana, ma è poco frequente anche tra i protagonisti della vita economica, la riflessione su ‘dove saremo’ tra dieci o venti anni. Scadenze vicine, se pensiamo ai tempi tecnici di grandi investimenti industriali, di infrastrutture pubbliche, del sistema scolastico o del sistema previdenziale. Quale sarà, tra dieci o venti anni, la posizione dell'Italia nella competizione industriale, dei servizi, della finanza, del turismo? Quanta delocalizzazione di attività produttive avrà luogo verso altri Paesi? Quanta parte delle attività produttive che si svolgeranno in Italia farà ancora capo ad aziende italiane? Quanta parte della popolazione attiva residente in Italia (locale o immigrata) troverà occupazione? Un nuovo governo dovrebbe, come è avvenuto in altri Paesi, incaricare una commissione, composta non solo da esperti, ma anche da esponenti di spicco delle diverse forze produttive, di esplorare questi temi, di darne consapevolezza al governo e all'opinione pubblica, di individuare gli interventi necessari» (M. Monti, Progetto Italia in tre punti, in «Corriere della Sera», 31 gennaio 1992).


Damiano Palano
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