giovedì 31 gennaio 2013

Le promesse non mantenute dell'ingegneria elettorale. Il fallimento della Seconda Repubblica in un articolo su "Vita e Pensiero"

 
 di Damiano Palano
 
Questo articolo è apparso sul numero 6/2012 di "Vita e Pensiero". Il testo è disponibile - gratuitamente - anche sul sito della rivista "Vita e Pensiero".

A vent’anni dalla fine della Prima Repubblica e dall’avvio della“transizione”, risaltano tutti gli abbagli dei riformatori degli anni Novanta. La frammentazione partitica non è eliminata, il quadro politico non è semplificato.
  
Nel 1882 Pasquale Turiello raccolse nel suo Governo e governati in Italia gli elementi di una spietata requisitoria contro le inefficienze del giovane Stato unitario. I problemi che segnalava erano numerosi, ma era soprattutto su uno squilibrio istituzionale che Turiello richiamava lo sguardo dei suoi lettori. «Il governo s’incentra sempre più su una Camera sola», scriveva, con la conseguenza che «la mossa d’ogni cosa sfugge poi al governo, e si lascia a una sola assemblea, che però divien nervosa e capricciosa». In sostanza, una questione cruciale consisteva nella completa soggezione dell’esecutivo al legislativo: una soggezione che, per un verso, privava il governo della necessaria autonomia e continuità d’azione, mentre, per l’altro, produceva l’infiltrazione degli interessi di “parte” nella conduzione dell’attività amministrativa. L’interpretazione suggerita da Turiello non era comunque eccezionale, perché quasi tutti i cultori della scienza politica del tempo – tra cui osservatori tutt’altro che ottusi, come Ruggero Bonghi, Marco Minghetti e il giovane Gaetano Mosca – si trovarono sostanzialmente d’accordo nel formulare una diagnosi che individuava l’origine di molte inefficienze proprio nello strapotere conquistato dalla Camera dei deputati. Contro le disposizioni dello Statuto, la designazione del presidente del Consiglio era diventata subito una prerogativa del Parlamento, con il risultato che ogni esecutivo risultava sempre debole ed esposto al ricatto di minuscole consorterie.
L’interpretazione formulata a fine Ottocento aveva certo qualche fondamento, ma era anche il riflesso di una prospettiva per molti versi incapace di comprendere la realtà della politica di massa. Quella lettura si fondava per esempio su una consolidata ostilità nei confronti dei partiti, mentre il pregiudizio anti-assembleare conduceva anche a sopravvalutare l’effettivo peso della Camera e della “dittatura”dell’assemblea. Ciò nondimeno, quelle letture risultavano estremamente convincenti. Il segreto della loro efficacia non stava però nella capacità di dar conto della trama di corruzione e clientele, bensì, probabilmente, nella semplicità della ricetta proposta. In fondo, la soluzione non andava cercata troppo in profondità, nelle modalità di costruzione dello Stato unitario, o nel ruolo delle reti clientelari, o nella definizione di strutture capaci di integrare le masse nella vita nazionale. Come invocava per esempio un celebre articolo di Sidney Sonnino, si trattava semplicemente di «tornare allo Statuto», perché solo in questo modo si sarebbe restituito al Paese un governo forte e autorevole. E perché soltanto attraverso questa strada si sarebbe prosciugato il bacino di coltura in cui allignavano il trasformismo, il clientelismo, la corruzione e il vero e proprio malaffare.
La storia successiva avrebbe mostrato come le cose fossero ben più complesse, ma la necessità di un esecutivo “forte”, capace di resistere alle ondivaghe e volubili maggioranze parlamentari, sarebbe rimasta uno degli inossidabili motivi retorici dell’opinione pubblica liberale, che d’altronde poté riconoscere nell’avvento di Mussolini al governo la tanto invocata conclusione dell’incontrastata “dittatura assembleare”. Ma anche dopo il ventennio fascista quel modo di leggere le distorsioni della storia italiana avrebbe continuato a fornire un formidabile brogliaccio. Verso la fine degli anni Settanta del Novecento, l’ossessione di Sonnino torna infatti a occupare un posto centrale nel dibattito politico, sotto la nuova etichetta della “governabilità”.Anche se il nome è nuovo, il problema è lo stesso che aveva tormentato i critici fin de siècle, e cioè il costante potere di ricatto e di intimidazione esercitato dal Parlamento sul governo, che finisce con il rendere malfermo ogni esecutivo. La soluzione non può essere ovviamente il ritorno alle disposizioni statutarie, e il rafforzamento dell’esecutivo deve passare da altre strade. Ed è proprio in questo quadro che si inizia a rinvenire nell’ingegneria elettorale lo strumento capace di porre fine a un sistema “anomalo”.
Tra gli anni Settanta e Ottanta del XX secolo, l’Italia non è certo l’unico sistema politico a sperimentare i rischi di una crescente ingovernabilità, e in molti Paesi occidentali cresce un intenso dibattito sulle sfide che essa pone alle democrazie mature. In questo contesto, l’ingovernabilità viene intesa però come il riflesso delle difficoltà mostrate dal sistema politico nel rispondere a una società sempre più esigente, a fronte di risorse sempre più scarse. Al principio degli anni Ottanta, la sfida dell’ingovernabilità e del “sovraccarico” suscita anche in Italia alcuni grandi progetti di riforma istituzionale, il cui obiettivo è ripensare l’assetto dei pubblici poteri in relazione ai mutamenti in atto, ma il dibattito tende rapidamente a imboccare una strada ben precisa. Ben presto, i progetti di radicale revisione della Costituzione vengono infatti accantonati, mentre il vero obiettivo diventa la riduzione della dipendenza dell’esecutivo dal Parlamento. In altre parole, il problema della governabilità si riduce al problema dell’instabilità di governo, e il dibattito – con l’obiettivo di limitare il potere di “ricatto”che il Parlamento esercita sull’esecutivo – tende a indirizzarsi sempre più verso soluzioni di ingegneria elettorale. Soluzioni per molti versi“semplici”, e persino teoricamente facili da realizzare, proprio come il ritorno allo Statuto invocato da Sonnino. Eppure capaci di porre fine alle tante storture che vengono imputate alla classe politica.
L’ingegneria elettorale è ovviamente uno strumento prezioso, che può risultare cruciale nel dar forma alla dinamica politica. La progettazione dei sistemi elettorali non si limita a definire quali sono le regole con cui i voti espressi dagli elettori vengono trasformati in seggi. Una volta che è stato costruito, un sistema elettorale influisce anche sulla strutturazione del sistema partitico, sia perché può mettere fuori gioco alcuni attori (con soglie di sbarramento esplicite o implicite), sia perché può incentivare o disincentivare i partiti a fondersi o a raggrupparsi in coalizioni. E, in questo modo, può allora contribuire davvero a rendere un sistema partitico più o meno frammentato. L’ingegneria elettorale tende però a tramutarsi in Italia, a partire dall’inizio degli anni Novanta, in una vera e propria ossessione, perché viene interpretata come lo strumento che può finalmente trasformare l’Italia in un“Paese normale”.
Anche se le letture che vanno ad alimentare il nuovo mito sono sensibilmente differenti, tutte sono però accomunate da una sorta di visione “idraulica” dei problemi italiani: in sostanza, tutte riconoscono all’origine delle anomalie italiane un “blocco” che determina una“stagnazione” politica, e che soprattutto impedisce alle energie della società civile di poter fluire liberamente. A seconda delle varie prospettive, la causa dell’“intasamento” è individuata nell’immobilismo della classe politica, nella voracità della “partitocrazia”, in ideologie retrive, nel “bipartitismo imperfetto”. Ma, a dispetto della diversità di queste interpretazioni, sembra che il blocco italiano possa essere risolto grazie alla costruzione di un nuovo sistema elettorale. Piuttosto agevolmente – e senza neppure dover mettere mano alla Carta costituzionale– pare possibile eliminare i piccoli partiti, ma anche sbarazzarsi di un’inamovibile classe politica e dare finalmente voce alla società civile. E, soprattutto, attraverso questa strada si ritiene di poter rendere l’Italia un Paese in cui vi sia un’effettiva alternanza di governo, in cui la tendenza centripeta moderi i richiami ideologici e in cui i governi siano responsabilizzati dalla minaccia di una bocciatura da parte degli elettori.
Benché le proposte di introdurre i collegi uninominali e il sistema elettorale maggioritario a turno unico attingano alle famose “leggi di Duverger”, questa visione mitizzata dell’ingegneria elettorale non è un prodotto della comunità politologica. Ciò nondimeno, anche la riflessione politologica si è rapidamente uniformata al nuovo clima, finendo con l’adottare e spesso con il sostenere l’idea che il passaggio a un modello di democrazia maggioritaria sia un cammino necessario per modernizzare il sistema italiano, e che dunque debba essere sostenuta la causa di una transizione, intesa e rappresentata quasi invariabilmente come una lotta del “nuovo che avanza” contro il“vecchio”, contro le scorie della decrepita democrazia consociativa e della partitocrazia. Accettando in modo per molti versi acritico la retorica del cambiamento, il dibattito sul sistema politico italiano si è così trovato a recepire l’idea che con la crisi di Tangentopoli si sia verificata davvero una cesura nella storia italiana. Tanto che, come scrive Luca Lanzalaco, «si è pensato, o comunque si è dato per scontato, che modelli, interpretazioni e chiavi di lettura elaborati per comprendere e spiegare la Prima Repubblica non fossero più utili, fossero datati, obsoleti, sostanzialmente inadeguati ad interpretare la Seconda». Ma, se si sono abbandonati gli schemi interpretativi del passato, non sono emerse nuove chiavi di lettura capaci di inscrivere la brusca modificazione intervenuta fra il 1993 e il 1995 nelle traiettorie di lungo periodo della storia politica unitaria. Più che essere colmata da nuovi sforzi interpretativi, questa lacuna è stata invece aggirata, se non oscurata, dai marcati accenti prescrittivi assunti dalla discussione sulla transizione maggioritaria.
Ma il problema non consiste semplicemente nel rilievo che assumono gli intenti prescrittivi, o nell’enfasi posta sull’ingegneria elettorale. Il problema risiede piuttosto nella stessa prospettiva da cui si osserva il sistema politico italiano. Una prospettiva che viene a concentrarsi sulla composizione del Parlamento, sul mutato rapporto fra esecutivo e legislativo, sulla tendenza alla “presidenzializzazione”. Ma alla quale – non diversamente da quanto avveniva ai critici fin de siècle – finiscono con lo sfuggire il contesto in cui tali mutamenti si collocano e il quadro sistemico in cui si innestano i meccanismi della trasformazione. A distanza di vent’anni dall’avvio della transizione, non abbiamo oggi molte difficoltà a riconoscere tutti gli abbagli dei riformatori degli anni Novanta e tutte le “promesse non mantenute” dell’ingegneria elettorale. La frammentazione partitica non è affatto stata eliminata, il quadro politico non appare affatto semplificato rispetto a quello della Prima Repubblica, l’instabilità degli esecutivi non è stata per nulla ridotta, la durata dei governi ha registrato un incremento piuttosto esiguo. Inoltre, se i governi degli ultimi vent’anni non sono apparsi molto più responsabili nella gestione della spesa delle vecchie maggioranze del “pentapartito”, anche la distanza ideologica fra le due coalizioni – in un’Italia spaccata in due fronti contrapposti – non è risultata sostanzialmente attenuata. Tanto che, come ha sottolineato spesso Ilvo Diamanti, le stesse tradizioni sub-culturali, pur modificate nei loro contorni, non hanno affatto cessato di orientare il comportamento di elettori molto meno mobili di quanto si potesse pensare. Dinanzi a tutti questi fallimenti, l’opzione più scontata – e largamente sfruttata dal dibattito pubblico – consiste nell’evocare la nuova anomalia della “discesa in campo” di un magnate della comunicazione. In questo modo, si può rinvenire in un’anomala concentrazione di potere economico, politico e informativo la giustificazione delle tante“promesse non mantenute” dell’ingegneria elettorale. E, soprattutto, si può replicare uno schema interpretativo largamente consolidato, che in fondo si limita a sostituire il “fattore B” al vecchio “fattore K”, che nel quadro della Guerra fredda determinava l’anomalia del sistema italiano e il blocco della fisiologica alternanza al governo. Ma, per quanto non si tratti certo di fenomeni irrilevanti, il rischio è di ricorrere soltanto a una suggestiva scorciatoia interpretativa. Una scorciatoia che, più che spiegare davvero il caso italiano, tende ad allestire un disorientante gioco di specchi in cui le anomalie si riproducono all’infinito. Una scorciatoia che impedisce di riconoscere come l’anomalia sia in fondo inscritta nel codice genetico del sistema politico italiano (come, d’altronde, si potrebbe sostenere anche per gli Stati Uniti, per la Germania, per il Regno Unito, tutti a loro modo “anomali”). E che, per questo, finisce con il dimenticare la storia e le radici del sistema politico italiano: radici che non riguardano solo la Prima Repubblica e la sua crisi, ma che affondano nelle modalità di costruzione dello Stato nazionale, e – ancora più in profondità – nelle eredità dell’età feudale. La discussione sul sistema elettorale finalmente capace di rendere l’Italia un “Paese normale” ci accompagnerà ancora a lungo, e il sostegno di volta in volta accordato ai diversi progetti elaborati dai cultori (più o meno improvvisati) dell’ingegneria elettorale continuerà a registrare l’andamento delle mutevoli convenienze dei legislatori. Ma – al di là della maggiore o minore ragionevolezza delle diverse soluzioni – è molto probabile che la ricerca di un sistema elettorale efficiente, in grado di assicurare la tanto sospirata governabilità, sia destinata ad apparire molto simile alla ricerca della pietra filosofale. Non perché l’ingegneria elettorale sia inutile, ma perché in questo modo si tende ad attribuire al sistema di voto un compito che non può garantire. Al fondo dell’ossessiva insistenza sulla governabilità, che un buon sistema elettorale dovrebbe garantire, si nasconde d’altronde un equivoco tutt’altro che marginale.
Ogni ragionamento sulla capacità del sistema elettorale di garantire la governabilità, ossia la stabilità degli esecutivi, ha senso soltanto se i partiti esistono, e soprattutto se esistono dei partiti coerenti, stabili nel tempo, con una base territoriale relativamente omogenea sul territorio, e con una forte disciplina interna. È invece proprio l’assenza di questi elementi che, paradossalmente, pare contrassegnare il sistema politico italiano della Seconda Repubblica. E, d’altronde, come si potrebbe spiegare con lo schema della governabilità il disfacimento della maggioranza uscita dalle elezioni del 2008? La cosiddetta “legge Calderoli” ha prodotto la maggioranza più ampia e all’apparenza coesa dell’intera storia repubblicana. Ma ciò non ha impedito che, ben prima della conclusione della legislatura, quella maggioranza monolitica iniziasse a decomporsi e a frammentarsi, fino quasi a svanire. Senza dubbio nelle sorti della maggioranza indicata dalle elezioni del 2008 hanno pesato le dinamiche interne di un “partito personale” legato alle fortune del suo fondatore, alle convenienze degli aspiranti leader, ai calcoli più o meno nobili dei tanti “trasformisti”.Ma si tratta realmente di elementi che possono essere considerati anomali? O non si tratta invece di anomalie che si inscrivono con piena coerenza nelle logiche strutturali del sistema politico italiano? A ben vedere, non è difficile riconoscere proprio nelle tante anomalie della Seconda Repubblica tratti tutt’altro che eccezionali della storia nazionale. Nella sua vicenda unitaria, l’Italia ha d’altronde adottato più o meno tutti i principali sistemi elettorali: il maggioritario a doppio turno, il proporzionale, un maggioritario a turno unico (con correzione proporzionale) e persino un proporzionale corretto da un notevole premio di maggioranza assegnato alla coalizione vincente. Ma, osservati da una prospettiva di lungo periodo, i tratti di continuità sono impressionanti. E, in particolare, risultano quasi sconcertanti – per la loro capacità di resistere a ogni mutamento istituzionale– fenomeni come il trasformismo, l’esistenza di robustissime trame clientelari radicate a livello territoriale, le marcate divisioni subculturali. Tanto che, dopo molta retorica sulla discontinuità, dovremmo probabilmente riconoscere che la Seconda Repubblica non configura affatto un’anomalia, ma si inscrive piuttosto coerentemente in una storia lunga centocinquat’anni. E che, forse, l’anomalia è stata la stagione dei partiti di massa, radicati sul territorio, relativamente disciplinati e almeno parzialmente capaci di convogliare e incapsulare (se non certo di controllare pienamente) le reti clientelari.
Un simile quadro non lascia molti spiragli all’ottimismo, e d’altronde è ancora difficile capire se, dal crepuscolo della Seconda Repubblica, uscirà davvero un nuovo quadro politico. Ciò nondimeno, è quasi certo che le discussioni sull’eterna riforma elettorale continueranno a risuonare ancora a lungo. Se però cercassimo di trarre qualche insegnamento dall’ultimo ventennio, dovremmo forse ribaltare molti di quei luoghi comuni che hanno accompagnato la lunga transizione. Paradossalmente, dovremmo riconoscere che il problema dell’ingovernabilità non nasce dall’eccessivo potere dei partiti, bensì dalla loro debolezza. Ma, soprattutto, dovremmo abbandonare quelle attese eccessive che abbiamo inutilmente riposto nelle operazioni di ingegneria elettorale. Non perché i sistemi elettorali non siano uno strumento importante per far funzionare una democrazia, quanto perché non possiamo più confidare che ci siano davvero soluzioni semplici a problemi complessi. Perché non possiamo più attenderci che davvero l’ingegneria elettorale possa trasformare l’Italia in un “Paese normale” (sempre che i “Paesi normali” esistano davvero), e fornirci una classe politica competente, responsabile e onesta.

Anche se non possiamo pretendere che dal nostro passato possano giungere lezioni per il futuro, non possiamo neppure illuderci che espedienti“tecnici” possano recidere di netto il legame con la storia. E, soprattutto, non possiamo più confidare che marchingegni ben costruiti siano veramente in grado di liberarci dalla responsabilità intellettuale di considerare il peso che il passato continua a esercitare sul nostro presente e sulle nostre istituzioni. Un proverbio russo dice: «Chi si affida al passato perde un occhio. Chi lo dimentica li perde entrambi». E forse dovrebbero ricordarsene anche i politologi.
Damiano Palano
 

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