domenica 22 luglio 2012

Aron e la guerra. Una recensione al volume di Massimilano Guareschi "I volti di Marte"



di Damiano Palano 

(Una versione parzialmente diversa di questo testo appare sul primo numero di "WARning", una nuova rivista di studi internazionali pubblicata dall'editore Morlacchi)

Non si può certo dire che la riflessione di Raymond Aron sia stata dimenticata, perché, anche dopo la morte, avvenuta nel 1983, i suoi libri non hanno cessato di essere ripubblicati e discussi. All’indomani della scomparsa del grande intellettuale francese si è anzi assistito a una sorta di ‘riabilitazione’ postuma, che ha ritrovato in Aron soprattutto l’alfiere di un liberalismo capace di resistere – nel pieno dell’età delle ideologie – alla seduzione delle utopie. Quasi inevitabilmente, il nome di Aron è stato così contrapposto a quello del coetaneo Jean-Paul Sartre, compagno di studi all’ècole normale e in seguito avversario in molte battaglie, assunto come espressione paradigmatica di un intellettuale disposto a rinunciare al proprio spirito critico in nome di un’appartenenza politica. In questo modo, l’itinerario di Aron è stato però inevitabilmente schiacciato su uno stereotipo, e l’attenzione si è indirizzata quasi esclusivamente verso alcuni aspetti della sua articolata riflessione. A orientare la ricostruzione di Massimilano Guareschi è invece l’intenzione di oltrepassare il ritratto schematico di Aron e di ricostruire gli elementi più importanti che, al di sotto dei motivi più legati all’immediata polemica politica, orientano la sua ricerca. «Una certa tendenza all’agiografia postuma», scrive in questo senso Guareschi, «sembra avere finora rappresentato il maggiore impedimento a una valutazione del pensiero aroniano più articolata ed emancipata dagli schemi della Guerra fredda» (p. 9), tanto che «si può rilevare come al di là della monumentalizzazione postuma, o forse proprio a causa di essa, molti dei più interessanti aspetti della riflessione di Aron non abbiano trovato nei decenni che seguono la sua morte un’adeguata trattazione» (p. 10). Tra questi aspetti trascurati, Guareschi privilegia naturalmente la riflessione sulla guerra, che Aron sviluppa quasi costantemente durante circa mezzo secolo e i cui tasselli principali sono testi come Il grande dibattito, Pace e guerra fra le nazioni e Penser la guerre.




Nel ricostruire la riflessione internazionalistica di Aron, l’analisi di Guareschi segue le scansioni della biografia dell’intellettuale francese. Il primo capitolo è così dedicato ai passaggi in cui, ancora al principio degli anni Trenta, inizia a prendere forma l’interesse per il fenomeno bellico. Se fino all’inizio degli anni Trenta Aron mostra posizioni nettamente pacifiste, influenzate soprattutto dalla vicinanza teorica al filosofo Alain, gli anni trascorsi in Germania, fra il 1930 e il 1933, imprimono invece una svolta nel suo percorso. Il soggiorno a Colonia e a Monaco, proprio negli anni in cui si delinea l’ascesa del movimento nazionalsocialista, rende infatti progressivamente chiaro ad Aron come il suo pacifismo si basi su quello che in seguito chiamerà un «rifiuto sentimentale» della guerra. Così, osserva Guareschi, «l’esperienza tedesca può essere vista come un momento di svolta che rende tangibile ad Aron il peso e la complessità della storia, spingendolo a manifestare un atteggiamento sempre più critico rispetto all’applicazione alla realtà politica di schemi astratti basati su opzioni morali o impulsi emotivi» (p. 21). Ma è ovviamente la Seconda guerra mondiale a spingere ulteriormente Aron a riflettere tanto sugli aspetti strategici dei conflitti, quanto sulla complessità del fenomeno «guerra». Sotto questo profilo, Guareschi sottolinea l’importanza della collaborazione a «France libre», un periodico portavoce del gollismo, di cui Aron è caporedattore a Londra durante l’occupazione tedesca. È infatti in questo periodo che Aron inizia a confrontarsi con le questioni di strategia militare e anche con il pensiero di Clausewitz, ripreso in particolare sulle pagine della rivista dell’ex generale dell’esercito asburgico Stanislas Szymanczyk. Come evidenzia l’a., durante questa esperienza si manifesta già l’ambivalenza di Aron nei confronti di de Gaulle, determinata in gran parte da una diversa lettura dell’adesione ai principi nazionali. «Al nazionalismo definito ‘integrale’ del Generale», osserva Guareschi, «Aron contrappone un atteggiamento egualmente sensibile al richiamo nazionalista, ma nel quale il destino della Francia è visto come inestricabilmente solidale a quello della coalizione antinazista, in un’ottica non solamente bellica ma strategico-politica» (p. 41).
L’adesione all’«atlantismo», oltre a determinare la rottura con il vecchio compagno di studi Sartre, rimane d’altronde un punto fermo anche in tutto il successivo itinerario di Aron, che dal 1945 si realizza soprattutto in un’intensa attività giornalistica (dal 1947 condotta sulle colonne di «Le Figaro») e in testi come Le Grand Schisme (1948). Nella stagione che si apre con la fine della guerra, ricostruita nel secondo capitolo, Aron manifesta infatti, ancora una volta con accenti critici verso de Gaulle, una «scelta di campo rigorosamente atlantista», che vede soprattutto in «una ferma alleanza con gli Stati Uniti il punto di snodo imprescindibile della politica estera francese» (p. 43). Se in questo senso è comprensibile lo scetticismo nei confronti del progetto della Ced, sono anche chiari i motivi che, qualche anno dopo, spingono Aron a mostrarsi piuttosto critico nei confronti del progetto del Generale di dotare la Francia di una force de frappe nucleare. Mentre de Gaulle è convinto che solo in questo modo si possa ristabilire il ruolo internazionale della Francia, Aron critica con forza gli stessi presupposti di questa tesi, investendo anche la riflessione strategica di Pierre Marie Gallois (nei confronti del quale matura una profonda rottura teorica). È però in questo periodo, e cioè al principio degli anni Sessanta, che risalgono i contributi più rilevanti di Aron al pensiero internazionalistico, alla cui ricostruzione Guareschi dedica una grande attenzione. Pace e guerra fra le nazioni, pubblicato nel 1962, rappresenta infatti un testo in cui confluiscono le riflessioni accumulate da Aron nel corso dei decenni, e in cui, soprattutto, si profilano i contorni di un metodo difficilmente collocabile all’interno del dibattito contemporaneo delle Relazioni Internazionali. D’altronde, il volume propone consapevolmente uno sguardo «continentale» sulle relazioni fra gli Stati: uno sguardo che diverge non soltanto dai canoni del comportamentismo degli anni Cinquanta, ma anche dai principi di fondo del realismo. E, non casualmente, Hans Morgenthau esprimerà una valutazione piuttosto severa di Pace e guerra tra le nazioni, accusato di essere solo l’esperimento di un dilettante. D’altro canto, come Guareschi evidenzia nel corso del lavoro, Aron non manca di criticare la posizione «pseudorealista» di Morgenthau (concentrandosi in special modo sul concetto di «interesse nazionale» e sulla visione della politica di potenza) e profila piuttosto un superamento del realismo, che sia in grado di tener conto anche della specificità ideologica dei regimi e di fornire una visione meno riduzionista della politica internazionale.
In sostanza, dunque, anche se Aron guarda con grande interesse al dibattito americano delle Relazioni Internazionali, e se cerca di introdurne le tematico nel contesto francese, conserva una certa dose di insoddisfazione nei confronti dei contributi che provengono dall’altra sponda dell’Atlantico. Un’insoddisfazione che si accresce nel corso del tempo e che contrassegna anche l’atteggiamento di Aron nei confronti del dibattito strategico. L’entusiasmo con cui si volge alle riflessioni statunitensi tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta si esaurisce però rapidamente, e non senza motivo in uno degli ultimi lavori, Penser la guerre, il grande intellettuale francese torna a confrontarsi con Clausewitz, da cui, durante il giovanile soggiorno tedesco, grazie alla mediazione dell’amico Herbert Rosinski, aveva preso le mosse il suo interesse per il fenomeno bellico. Dunque, come afferma Guareschi nella conclusione del volume, «nel confronto con le relazioni internazionali e il pensiero strategico, Aron sembra in fondo manifestare un atteggiamento analogo, da una parte interesse e curiosità nei confronti delle risorse esplicative che possono essere offerte da modelli altamente formalizzati, dall’altra diffidenza verso l’idea che una costruzione concettuale a elevato livello di astrazione, per l’inevitabile grado di semplificazione che comporta, sia in grado di esaurire la complessità del reale» (p. 209). La consapevolezza della complessità dei fenomeni sociali e politici, che caratterizza l’Aron sociologo, emerge così anche nell’Aron pensatore della guerra, critico di ogni riduzionismo. Ed è proprio questo aspetto che il lavoro di Guareschi – senz’altro un contributo importante per tornare a considerare pienamente la teoria internazionale di Aron – valorizza con maggiore convinzione. Il fatto che Aron non giunga a una teoria sistematica della guerra non è infatti inteso come un limite, ma semmai come l’inevitabile approdo di una precisa sensibilità culturale. «Una sensibilità culturale», osserva Guareschi, «maggiormente incline alla critica delle pretese totalizzanti dei modelli di interpretazione della realtà che alla costruzione concettuale, al rilievo dello scarto fra teorie e fenomeni che all’astrazione»; e, soprattutto, una sensibilità che «ben difficilmente si presta al privilegiamento di un’ipotesi e al suo sviluppo come chiave di intelligibilità in grado di stringere l’oggetto e di rendere conto esaustivamente di una data categoria di processi» (p. 209).

Da un certo punto di vista dunque – ed è questa la conclusione cui perviene Guareschi – il «pensare la guerra» di Aron sembra riflettere il profilo di «teologo della guerra» che l’intellettuale francese riconosceva in Clausewitz. Nel senso che anche Aron, come Clausewitz, non punta a dar conto delle ragioni profonde della guerra, ma, prendendo atto della sua ‘regolarità’, ne studia le modalità, gli elementi ricorrenti e le trasformazioni. «Il problema», scrive allora Guareschi, «non è sciogliere l’enigma di Marte, dimostrarne l’esistenza, individuarne l’origine e coglierne il volto» (p. 211), bensì, sulla scorta di Clausewitz, accedere «a una batteria di concetti per pensare la guerra e le guerre, nonché ai fondamenti per una teoria dell’azione, prudenziale non prescrittiva, incentrata su alcuni principi ordinatori quali la subordinazione della guerra alla politica, la distinzione fra le due specie di guerra, la soluzione di continuità fra guerra e pace» (p. 212).

Damiano Palano

Massimilano Guareschi,  I volti di Marte. Raymond Aron sociologo e teorico della guerra, Ombre corte, Verona, 2010, pp. 231, euro 22.00.




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