lunedì 30 aprile 2012

La "classe" fra Marx e Benjamin. Un libro di Andrea Cavalletti

Questa recensione del volume di Andrea Cavalletti, Classe (Torino, Bollati Boringhieri, 2009, pp. 160) è apparsa, in una versione parzialmente diversa, sul primo numero del 2012 della rivista "Filosofia politica". Il fascicolo, dedicato alla questione del 'soggetto politico' (e della sua crisi), ospita contributim, fra gli altri, di Laura Bazzicalupo, Ida Dominijanni, Enrica Lisciani Petrini, Gaia Giuliani, Sandro Chignola, Sandro Mezzadra, Ernesto Laclau, Cristian Lo Iacono, Elettra Stimilli e Giorgio Grappi.


Cos’è una ‘classe’? A questa vecchia domanda – che assume oggi connotazioni inevitabilmente diverse rispetto al passato – Andrea Cavalletti cerca di rispondere con un itinerario articolato, che va oltre una semplice ricostruzione etimologica e concettuale. Il raffinato percorso compiuto da Cavalletti tenta infatti di scorgere l’elemento distintivo della classe, in filigrana, nella genesi della metropoli ottocentesca e nella nascita delle tecniche ‘biopolitiche’. Ma ciò che Cavalletti cerca di portare alla luce non è solo l’originario tratto ‘biopolitico’, che, nella riflessione dei fisiocratici e all’interno del vocabolario delle scienze di governo settecentesche, segna la genesi del termine ‘classe’. Al centro dell’attenzione è piuttosto l’elemento sfuggente che configura la classe come il limite politico contro cui la società capitalistica – pur nella sua tendenza al superamento di ogni limite – viene a scontrarsi. In questo senso, è piuttosto chiaro che Cavalletti pensa non tanto alla «classe» in termini generali – come raggruppamento individuabile sociologicamente – quanto, specificamente, alla classe operaia, o, meglio, alla «classe rivoluzionaria» in grado di fronteggiare la civilizzazione capitalistica. Marx costituisce così un riferimento dichiarato in questo percorso, ma sono soprattutto alcune riflessioni di Walter Benjamin a indirizzare la rilettura compiuta all’interno del volume. In particolare, al cuore dell’ipotesi svolta da Cavalletti, sono una serie di appunti che Benjamin – riferendosi alla psicologia collettiva fiorita a cavallo fra Otto e Novecento – dedica alla differenza strutturale tra la «massa» e la «classe» rivoluzionaria. Mentre la «massa» descritta dalla Massenpsychologie è – secondo Benjamin – un’espressione solo della piccola borghesia e un soggetto capace esclusivamente di azioni reattive, la classe rivoluzionaria è invece il prodotto di un allentamento: l’allentamento della massa che scaturisce dal costituirsi dei lavoratori in classe rivoluzionaria solidale. Nelle parole di Benjamin, la classe viene infatti a formarsi proprio nel momento in cui la solidarietà [Solidarität] fra i suoi membri indebolisce la massa.
L’idea dell’«allentamento» della massa occupa un ruolo fondamentale nella rilettura proposta da Cavalletti, il quale – proprio sulla base di questa intuizione – rilegge le pagine di Marx sulla giornata lavorativa. L’emergere della solidarietà, che ‘allenta’ la presa della massa, chiarisce la consistenza della nozione di ‘coscienza di classe’, da intendersi non tanto come conquista di una determinata visione, quanto come costituzione di un soggetto solidale capace di opporsi al processo produttivo e di far emergere, così, l’antinomia fra capitale e classe: «Quando l’antinomia viene in luce, il processo produttivo si blocca e il contrasto tra operaio e capitalista diviene ipso facto scontro di classe. Di ‘coscienza di classe’ si può forse parlare solo a questo livello. E se la parola ‘coscienza’ ha qui un senso è quello [...] del semplice raggiungimento, nella classe rivoluzionaria, della neutralità delle categorie di soggetto e oggetto. Questa neutralizzazione si chiama solidarietà. Essere coscienti, cioè lottare, cioè essere solidali o essere oggetto di solidarietà. Poiché la solidarietà non è la base della comunità, che a sua volta, come in Edith Stein, precede lo Stato. E non è una buona intenzione dell’ego, ma la forma della semplice esistenza come classe, id est come classe rivoluzionaria. [...] Per la classe rivoluzionaria, cosciente, lotta e solidarietà sono [...] inscindibili, comunicano l’uno nell’altra» (pp. 68-69). Sulla scorta dell’idea di una strutturale antinomia fra massa e classe, Cavalletti può allora leggere anche la «biopolitica» foucaultiana nei termini di una neutralizzazione della classe, ossia di un tentativo volto alla costruzione di una società per masse, per individui-massa privi di qualsiasi solidarietà. E la stessa dialettica capitale-lavoro diviene così una dialettica fra biopolitica e classe, nel senso che la biopolitica – come insieme di tecniche disciplinari e di scienze della popolazione – viene chiamata a neutralizzare il potenziale solidaristico della classe. Parigi, «capitale del XIX secolo», non può che offrire una rappresentazione paradigmatica di una simile dinamica. «Parigi è la capitale di Haussmann e del commissario Bertillon, è la società che avanza dove la moltitudine sediziosa batte in ritirata», perché, dopo la fine della rivolta, «la «città ritorna inappropriabile, mentre l’urbanistica affiora dalle polveri della massa dispersa» (p. 20). In altre parole, la ridefinizione urbanistica di Parigi non è solo mossa dal tentativo di ostacolare ogni futura insurrezione, ma, più in generale, dall’obiettivo di costruire una città per la massa individualizzata.
Gli aspetti più originali della rilettura delineata da Cavalletti risiedono probabilmente nel tentativo di ripensare Marx in parte attraverso Foucault, ma, soprattutto, attraverso Benjamin. Da un primo punto di vista, è infatti senz’altro interessante lo spostamento del luogo genetico della classe (e della sua solidarietà) dalla sede del processo lavorativo alla società, intesa non soltanto come ambito dell’individualizzazione, ma anche come dimensione (costantemente) ridefinita dalla ‘biopolitica’. Sotto un secondo profilo, è però altrettanto rilevante (e forse qualificante) anche l’operazione con cui Cavalletti, inserendosi in una lacuna evidente del pensiero marxiano, giunge – con Benjamin – alla definizione della classe come «allentamento». Proprio perché Marx si focalizza sulle condizioni ‘strutturali’ della classe e dei suoi movimenti, rimangono infatti quasi del tutto assenti nelle sue pagine i meccanismi, anche emotivi, dell’azione della classe lavoratrice. Nella ricostruzione di Cavalletti, il momento cruciale in cui la massa si allenta e in cui emerge la classe è invece proprio la rivolta, intesa – nei termini di Benjamin – come rottura messianica della continuità storica: una rottura che esige «un ordine temporale del tutto nuovo», nel quale «non vi è più una vita integrabile senza limiti nella società, ma una vita già illimitata e immediatamente sociale, che non può cioè in alcun modo diventare sociabile» (p. 119). E, in questa prospettiva, è dunque perfettamente comprensibile il recupero di Sorel compiuto da Cavalletti, perché lo sciopero generale, come viene rappresentato nelle Riflessioni sulla violenza, sembra configurare effettivamente «l’evento creatore in cui la collettività tocca se stessa» (p. 117), il prodotto che si realizza «soltanto nell’allentamento, quale apparizione incomparabile della classe rivoluzionaria» (p. 118).
Nella dicotomia fra massa e classe individuata da Cavalletti, la massa appare certamente come il polo più saldo. La saldezza della massa non determina però la completa scomparsa della classe, o quantomeno l’eliminazione di ogni sua potenziale emersione, tanto che persino oggi – come scrive l’a. nelle pagine conclusive – è possibile pensare all’affiorare della «vera solidarietà, che sconvolge la massa compatta trasformandola in classe rivoluzionaria, ossia, da folla, semplicemente in classe» (p. 136). Ma, se l’enfasi sull’«allentamento» della massa (e sull’emergere della solidarietà rivoluzionaria) costituisce il tratto saliente dell’ipotesi di Cavallletti, è probabilmente intorno a questo punto che sono destinati ad emergere alcuni interrogativi teorici. La prima questione investe proprio l’emergere della Solidarität. Nell’ottica marxiana, la classe operaia scaturisce infatti dall’elemento materiale della cooperazione produttiva, che allestisce le condizioni per la formazione di un ‘soggetto collettivo’. La solidarietà è allora anche un elemento materiale, che si ‘cristallizza’ nel livello del lavoro socialmente necessario e, dunque, nella giornata lavorativa sociale, un processo, o quantomeno una componente (non determinata in modo necessario), di un assetto definito, per così dire, a livello strutturale. Se invece si ritrova l’elemento qualificante della classe nella solidarietà, e nella rivolta in cui tale solidarietà si manifesta, si finisce con lo svuotare di ogni determinazione materiale la nozione marxiana di classe. Con l’inevitabile difficoltà di capire dove risieda l’elemento che distingue la rivolta della classe dall’irruzione politica di quella folla – più o meno criminale – descritta (e deformata) da scrittori come Taine, Sighele o Le Bon. In altre parole, se si trova la specificità della classe nella sua rivolta e nella solidarietà che essa esprime («l’atto antipsicologico di dissoluzione della folla», p. 135), e non nella sua determinazione materiale, diventa difficile distinguere in modo chiaro la psicologia collettiva della classe da quella delle masse (magari populiste, reazionarie, razziste). Da questo primo problema consegue però un ulteriore interrogativo, che riguarda le conseguenze stesse della rivolta. Se infatti si svuota la Solidarität dalle sue determinazioni materiali e la si intende come l’elemento psicologico, emotivo, che presiede all’emergere della classe, è piuttosto scontato che tale solidarietà debba apparire come una condizione del tutto momentanea. In altri termini, se la solidarietà emerge nella rivolta, e se la rivolta si manifesta in una sospensione del tempo storico, entrambe sono destinate – fin dal loro apparire – a una rapida scomparsa. E, così, il concetto di «classe» rischia di diventare un concetto sempre più evanescente. In grado forse di cogliere il clima emotivo che contrassegna le fasi più intense di mobilitazione collettiva, ma del tutto incapace di seguire le intricate traiettorie con cui si ridefiniscono dinamiche produttive e relazioni sociali.

Damiano Palano
Andrea Cavalletti, Classe, Torino, Bollati Boringhieri, 2009, pp. 160.


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