lunedì 19 marzo 2012

Il futuro di un menagramo? La «Terza rivoluzione industriale» di Jeremy Rifkin

di Damiano Palano

Un posto d’onore nella categoria dei futurologi spetta sicuramente a Jeremy Rifkin, forse il più noto tra gli studiosi dei grandi trend economici, politici, ambientali. Nella sua lunga carriera di esploratore di tendenze future, Rifkin ha dato alle stampe quasi una ventina di libri, alcuni dei quali sono diventati dei best-seller mondiali. La sua popolarità in Italia risale alla metà degli anni Novanta, quando il suo libro La fine del lavoro aprì un fitto dibattito, nel mondo politico, economico e sindacale. Ma l’attenzione per le tesi di questo ‘futurologo’ si è accresciuta negli anni, dopo la pubblicazione di libri come L’era dell’accesso, Empatia, Economia all’idrogeno, che hanno trovato grandi sostenitori, così come – è doveroso ricordarlo – più di qualche critico. Ora Rifkin torna in libreria con un nuovo lavoro, intitolato La Terza Rivoluzione Industriale (Mondadori, Milano, 2011, pp. 330, € 20,00). L’appassionato lettore dei testi di Rifkin può ritrovare nelle pagine di questa nuova fatica l’enfasi consueta, con cui viene salutato l’inizio della nuova rivoluzione industriale, una rivoluzione che – secondo il futurologo – è già cominciata, e che ha solo qualche elemento in comune con le due precedenti rivoluzioni. La stagione che sta per aprirsi dinanzi ai nostri occhi sviluppa infatti le grandi promesse delle prime due rivoluzioni industriali, ma se ne discosta perché, in questo caso, non aprirà una fase di conflitti, né sancirà un capitolo della lunga storia dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Le parole di Rifkin, da questo punto di vista, non lasciano spazio ai dubbi: «La Terza rivoluzione industriale è, insieme, l’ultima fase della grande saga industriale e la prima di una convergente era collaborativa. Rappresenta l’interregno tra due periodi della storia economica: il primo caratterizzato dal comportamento industrioso e il secondo dal comportamento collaborativo. Se l’era industriale poneva l’accento sui valori della disciplina e del duro lavoro, sul flusso dell’autorità dall’alto al basso, sull’importanza del capitale finanziario, sul funzionamento dei mercati e sui rapporti di proprietà privata, l’era collaborativa è orientata al gioco, all’interazione da pari a pari, al capitale sociale, alla partecipazione a domini collettivi aperti, all’accesso alle reti globali» (ibi, p. 294). Per quanto i contorni di questa Rivoluzione non siano ancora evidenti ai profani, Rifkin ne riconosce invece molto chiaramente i segnali, che non possono non essere occultati dalla complessità di un passaggio storico estremamente complicato, dal potere «gerarchico» al potere «laterale».

 Più in generale, l’edificio della Terza Rivoluzione Industriale – un edificio ancora in costruzione – si baserà comunque su cinque pilastri, ognuno dei quali è indispensabile per reggere l’intera impalcatura economico-sociale: «1) il passaggio alle fonti di energia rinnovabile; 2) la trasformazione del patrimonio immobiliare esistente in tutti i continenti in impianti di micro-generazione per raccogliere in loco le energie rinnovabili; 3) l’applicazione dell’idrogeno e di altre tecnologie di immagazzinamento dell’energia in ogni edificio in tutta l’infrastruttura, per conservare l’energia intermittente; 4) l’utilizzo delle tecnologie Internet per trasformare la rete elettrica di ogni continente in una inter-rete per la condivisione dell’energia che funzioni proprio come internet; 5) la transizione della flotta dei veicoli da trasporto passeggeri e merci, pubblici e privati, in veicoli plug-in e con cella a combustibile che possano acquistare e vendere energia attraverso la rete elettrica continentale interattiva» (p. 46). Perché ognuno di questi pilastri venga effettivamente eretto sono necessarie alcune misure, non proprio di poco conto, come, per esempio, il passaggio a una «economia all’idrogeno», una transizione dalla geopolitica alla politica della «biosfera», l’adozione di una nuova visione del progresso sociale (fondata sull’idea di una co-creazione), l’accesso a una politica di sviluppo economico sostenibile. Ma, soprattutto, affinché la Terza Rivoluzione Industriale inneschi effettivamente la sua marcia, portandoci fuori dalle secche della crisi globale, è necessario forgiare un mondo ‘orizzontale’, basato sulla solidarietà e sulla cooperazione, che trasformi le relazioni ‘verticali’ in un ricordo del passato.
È certo difficile negare che Rifkin non risulti dotato di una capacità visionaria che gli consente di immaginare il futuro a partire dalla tendenze presenti. Ma forse è anche opportuno riconoscere come il futuro dipinto da Rifkin sia solo uno dei molti futuri probabili, o, meglio, dei futuri possibili. D’altro canto, è piuttosto evidente come lo studioso americano tenda a leggere una serie di tendenze oggettive in chiave inguaribilmente ottimistica: una chiave in cui non solo sono espulse le potenzialità negative delle trasformazioni tecnologiche, ma in cui non vengono neppure prese in considerazione le dimensioni conflittuali connesse a ogni processo di mutamento. Da questo punto di vista, può forse utile tornare a riesaminare le posizioni sostenute da Rifkin nei suoi libri precedenti, a partire proprio da quello che gli ha dato una certa popolarità presso i lettori italiani, ossia La fine del lavoro.
In sostanza, in quel volume, apparso all’inizio degli anni Novanta, la tesi di Rifkin era che la rivoluzione informatica avrebbe prodotto un drastico mutamento nelle società occidentali: in sostanza, le nuove tecnologie avrebbero richiesto sempre meno lavoro umano, perché gran parte della fatica sarebbe stata svolta dalle macchine. Si aprivano allora nuove prospettive per attività non lucrative, dedicate all’assistenza e alla cura della persona. In quel momento, dopo la crisi dei primi anni Novanta, ci si stava incamminando verso la fase di massima ascesa della bolla della new economy, e si sperimentavano anche gli entusiasmi della ‘terza via’, di cui l’amministrazione Clinton costituiva la variante americana. Ma la previsione di Rifkin era destinata a essere smentita in modo drammatico. Gli anni seguenti, infatti, non furono affatto segnati da una ‘fine del lavoro’, ma, al contrario, negli Stati Uniti e poi anche in Europa, da un incremento sostanziale degli effettivi orari di lavoro. Le tecnologie informatiche, internet, i telefoni cellulari, se venivano celebrati come strumenti in grado di liberare le energie individuali e persino dall’obbligo di recarsi quotidianamente in ufficio, si sono rivelati in realtà dei formidabili strumenti per allungare gli orari di lavoro. Non solo per trasferire il lavoro dentro casa, come hanno fatto migliaia di consulenti e collaboratori (più o meno pagati, più o meno tutelati). Ma anche per estendere il tempo reale di lavoro a tutte le ventiquattro ore, e a tutti i sette giorni della settimana. Perché, una volta che si è raggiungibili ovunque ci si trovi e in qualsiasi momento, diventa anche impossibile sottrarsi a richieste ‘improrogabili’, a compiti ‘urgenti’, a necessità impellenti. Anche se si è ormai fuori dall’ufficio (se l’ufficio esiste), anche se non si è più ‘formalmente’ in orario di lavoro, anche se si è virtualmente in vacanza. Delle utopie della rivoluzione digitale, come ha mostrato per esempio Carlo Formenti in alcuni suoi scritti recenti (soprattutto Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro, Egea, Milano, 2011), è rimasto ben poco, e soprattutto si è dissolta completamente la convinzione ottimistica che davvero le nuove tecnologie possano essere strumenti capaci di consegnare ai singoli individui una maggiore autonomia rispetto alle richieste di un mercato vorace e onnipresente. E la crescita dell’orario di lavoro reale – non registrato dai cartellini, e non fissato nei contratti – è diventata un fenomeno così diffuso che persino l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha lanciato l’allarme, dovuto non solo al fatto che un dipendente su cinque nel mondo lavora oggi più di quarantotto ore alla settimana, ma anche al conseguente aumento delle cause di rischio sanitario, con la lievitazione dal 30%  all’80% delle possibilità di contrarre patologie tumorali (cfr. E. Livini, L’era dell’ufficio no-limits, in «la Repubblica», 21 marzo 2011, pp. 31-33). Dinanzi a questa realtà, il mondo non ci appare allora quello dipinto da Rifkin nella Fine del lavoro, ma piuttosto come una sorta di dilatazione globale del modello Wal-Mart, che garantisce aumenti di produttività grazie una riorganizzazione del lavoro finalizzata ad aumentare gli orari e a distenderli sull’intera giornata.
Dopo il successo della Fine del lavoro, Rifkin ha diretto la sua attenzione verso l’energia, con il best-seller Economia all’idrogeno, le cui tesi sono state persino prese sul serio da qualche amministratore che – sottovalutando rischi e costi dell’utilizzo dell’idrogeno – ha avviato sperimentazioni ancora ben lontane dall’avere qualsiasi rilevante ricaduta. D’altronde, allo stato attuale, i costi di produzione, gestione e distribuzione sembrano ancora abissalmente distanti da poter avvicinarsi a una seppur timida realizzazione dei progetti di Rifkin. E, così, l’economia all’idrogeno sembra ancora rimanere solo un sogno.  Probabilmente, è però uno degli ultimi libri di Rifkin ad acquistare oggi un fascino quasi sinistro, perché nel suo formidabile Il sogno europeo lo studioso americano preannunciava al Vecchio continente un futuro radioso, in cui l’Unione Europea sarebbe stata capace, se non proprio di surclassare, comunque di insidiare gli Stati Uniti. Anche in questo caso, la suggestione della tesi nasceva dal rovesciamento dei luoghi comuni più consolidati: in sostanza, il sogno americano era stato offuscato da un nuovo sogno europeo, capace di coniugare giustizia sociale, tolleranza, pluralismo e persino l’idea che in campo internazionale fosse possibile influire esercitando solo una ‘potenza civile’ (e non militare). La cosa più significativa era che, in quel momento, Rifkin non solo non si accorgeva di tutti i limiti dell’Unione Europea e dell’unificazione monetaria, ma non sembrava neppure avere il sospetto che l’economia del Vecchio continente e il modello sociale europeo fossero già da tempo investiti da profonde trasformazioni. Oggi sappiamo come sono andate le cose. E se forse il ‘sogno europeo’ non è stato definitivamente archiviato, sicuramente rimane per ora soltanto un ‘sogno’, offuscato dalla realtà di una crisi di cui è molto difficile prevedere gli esiti.
Se si esamina a fondo la carriera di futurologo di Rifkin, si possono prendere allora le previsioni sulla «Terza rivoluzione industriale» come esercitazioni suggestive, ma ben poco credibili. Perché, in fondo, la profezia della fine del lavoro si è rovesciata nel suo contrario, l’annuncio sull’avvento dell’economia all’idrogeno rimane un’anticipazione visionaria, e la celebrazione del sogno europeo ha dovuto scontarsi con l’incubo che stiamo vivendo. E, così, più che un efficace futurologo, sembrerebbe un infallibile menagramo. Ora Rifkin predice l’inizio di una nuova «era collaborativa», un’era «orientata al gioco, all’interazione da pari a pari, al capitale sociale, alla partecipazione a domini collettivi aperti, all’accesso alle reti globali». E forse, visti i precedenti, vale la pena di iniziare a preoccuparsi.

Damiano Palano


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