lunedì 9 gennaio 2012

La soglia biopolitica. Appunti su una discussione contemporanea 4/4


di Damiano Palano

segue da:
La soglia biopolitica 1/4
La soglia biiopolitica 2/4
La soglia biopolitica 3/4


4. L’orizzonte del post-umano

Pur nella varietà delle singole proposte, la prospettiva del post-human, mentre accoglie la portata delle trasformazioni biopolitiche, ne enfatizza gli elementi positivi, non solo perché ritiene che la modificazione dell’essere umano mediante la tecnologia possa contribuire a un miglioramento della vita individuale e collettiva, ma anche perché pensa che si tratti di mutamenti sostanzialmente ‘neutrali’, ossia che possono essere controllati ‘democraticamente’. All’interno di questa prospettiva, che articola una variante specifica della biopolitica affermativa, in cui si collocano per esempio il Manifesto Cyborg di Donna Haraway, le tesi di Peter Sloterdijk e il programma delineato da Roberto Marchesini, lo scenario aperto della biopolitica è dunque ambivalente, aperto a molteplici sviluppi, ma spesso questa potenzialità viene considerata con un ottimismo sostenuto dalle strenua convinzione nella capacità degli esseri umani di controllare le conseguenze più inquietanti delle nuove tecnologie. Articolando proprio una simile tesi, Gaspare Polizzi ha osservato, per esempio, che sullo scenario del post-umano aleggia lo spettro di un’élite politica che «progetta, con le più raffinate biotecnologie oggi disponibili, la selezione biologica su larga scala della popolazione dominante, attrezzandola con le migliori risorse dell’ingegneria genetica», e riesce così a dar vita a «un popolo post-umano che diviene dominante e conquista l’intero pianeta, rendendo schiavi altri popoli, resi incapaci di ogni reazione» (G. Polizzi, Vite degne di essere vissute. Note sulla prospettiva «post-umana», in «alfabeta2», n. 8, 2011, p. 32). Ma – avverte Polizzi – un simile spettro non può oscurare le possibilità strabilianti aperte dalla «svolta post-umana»:

«Una svolta post-umana, oppure oltre-umana, che renda possibile la cura e la guarigione permanente da malattie ereditarie (anemia falciforme, corea di Huntington, emofilia, sindrome di Doen, talassemia), o la guarigione, con l’installazione di protesi neurologiche permanenti, di gravi malattie degenerative del sistema nervoso centrale o periferico (basti pensare all’Alzheimer o al Parkinson). O ancora che possa intervenire sui portatori di importanti handicap conducendoli a condizioni di normalità (e non è necessario scomodare la velocità post-umana di Pistorius). Non sono neppure da sottovalutare le possibilità di espansione delle potenzialità cognitive e dell’azione che scaturirebbero da una svolta post-umana. […] Molti di noi condividerebbero l’entusiasmo espresso di recente da Luigi Luca Cavalli Sforza […], sulla possibilità, non remota, di inserire un chip nel cervello con i contenuti mnemonici di un’intera biblioteca (ibidem).

In una visione come quella delineata da Polizzi, lo spettro di una sorta di élite biopolitica, capace di impugnare le biotecnologie per farne uno strumento di dominio e oppressione, non è allora molto più che uno scenario per la science fiction, quasi una caricatura degli incubi distopici del Novecento. «Se ci sarà, come possibile, una svolta evolutiva profonda nella storia dell’umanità», scrive per esempio, «abbiamo almeno il 50% di chance di dominarla a nostro vantaggio», e il problema sta semmai nel «rendere democratica e plurale ogni scelta che concerna l’umano, impedendo i silenzi delle élite o l’emergere di turbamenti strumentalmente religiosi» (ibidem). E, così, l’ombra sinistra che lo sterminio nazista delle «vite indegne di essere vissute» ancora oggi proietta sulle ipotesi di ‘eugenetica’ potrebbe finalmente lasciare il posto a una ‘umanizzazione’ di quelle stesse vite. «Le vite indegne di essere vissute», conclude infatti Polizzi, «potrebbero allora trovare proprio in una svolta evolutiva dell’umanità una sorte opposta a quella riservata loro dai criminali nazisti, rendendo più degna la facies umana» (ibidem).
Pur con un ragionamento ben più raffinato rispetto a quello seguito da Sartori, l’argomentazione di Polizzi non giunge in fondo a risultati differenti, e non manca di individuare neppure i medesimi bersagli polemici indicati dal politologo nei suoi interventi in tema di bioetica. Ma non si tratta né di eccezioni, né di esaltazioni acriticamente ottimistiche, perché, ovviamente, sono visioni che colgono – anche se in grado differente – le potenzialità negative della trasformazione biopolitica. Piuttosto, puntando lo sguardo sui benefici che nel breve o medio periodo possono giungere, alla vita di ciascun individuo, dalla «svolta post-umana», si scagliano contro quei pregiudizi umanistici, religiosi, politici, ideologici, che appaiono soltanto come i residui – ‘reazionari’, più ancora che semplicemente ‘conservatori’ – di una cultura ormai superata dall’evoluzione tecnologica. E, così, le conseguenze più radicali possono essere proiettate in un futuro tanto remoto da non risultare troppo preoccupante, come faceva per esempio Sloterdijk in uno dei suoi interventi sul destino della natura umana:

«Se poi lo sviluppo a lungo termine condurrà anche alla riforma genetica dei caratteri della specie, se una futura antropotecnica giungerà fino a un’esplicita pianificazione della caratteristiche umane, e se l’umanità, dal punto di vista della specie, potrà compiere il sovvertimento del fatalismo della nascita in una nascita opzionale e in una selezione prenatale, tutte queste sono questioni nelle quali inizia ad albeggiare l’orizzonte dell’evoluzione, anche se in modo ancora confuso e inquietante» (P. Sloterdijk, Regole per il parco umano, in Id., Non siamo stati ancora salvati. Saggi dopo Heidegger, Bompiani, Milano, 2004, p. 260).

Dentro una simile ottica, non è troppo difficile scorgere una serie di ambiguità di non poco conto, che illustrano peraltro il carattere sempre problematico di ogni discorso che si collochi in questo campo. Nel ragionamento di Polizzi, per esempio, il passaggio intorno alla necessità di rendere «democratica e plurale ogni scelta che concerna l’umano» non può che sollevare qualche domanda. Il sostantivo «democrazia» è ormai talmente abusato da essere diventato una coperta logora e buona per tutti gli usi, e allora l’invito di Polizzi non può che apparire quantomeno scontato. Ma, qualora l’aggettivo «democratica» venga adottato per indicare la volontà della maggioranza, ciò sembra avallare l’idea di una «svolta post-umana» condotta pur in presenza del dissenso delle minoranze, mentre, nel caso in cui «democratica» venga accostato – come fa Polizzi – all’aggettivo «plurale», il risultato sarebbe opposto, ossia quello di pensare a una scelta che tenga conto anche della pluralità delle voci e, dunque, delle minoranze. In quest’ultimo caso, però, non si potrebbero certo escludere anche quelle visioni del mondo che – come le religioni, interpretate da Polizzi come strumenti impugnati da élite interessate – si oppongono, sulla base di considerazioni valoriali, alla «svolta post-umana». Questi sono comunque solo alcuni dei nodi che non possono essere risolti dall’evocazione ‘politicamente corretta’ di scelte ‘democratiche’ e ‘plurali’. Un altro, ancora più intricato, è ovviamente quello in cui si trovano aggrovigliati il ‘sapere’ e il ‘potere’. Anche chiamando in causa il demos, anche cioè pensando a una scelta effettivamente ‘democratica’ sul «post-umano», è piuttosto evidente che non si può arginare uno dei dati di fatto delle liberal-democrazie, ossia il fatto che il ‘cittadino-elettore’ è sostanzialmente disinformato, che ha un’informazione – nei migliori dei casi – parziale e intermittente, che si limita a filtrare l’enorme flusso di comunicazioni che riceve sulla base delle proprie consolidate identificazioni politiche, partitiche, ideologiche. Ma tutto questo non può che diventare ancora più complicato quando, dal terreno della politica in senso stretto, si passa al terreno biopolitico, perché in ambiti come quelli cui allude l’idea di una «svolta post-umana» le conoscenze non sono soltanto più complesse, ma sono di fatto monopolio di quel campo – intangibile per i più – che è il sapere medico: sono cioè monopolio di quell’insieme di ‘tecnici’ – non solo medici in senso stretto – cui ciascuno di noi consegna senza esitazioni la propria salute, con una ‘fede’ incrollabile, e comunque molto più solida della fiducia nutrita nei confronti di ogni altra forma di conoscenza umana. Il punto è che, dinanzi a questa evidente distanza, la scelta ‘democratica’ e ‘plurale’ non può che essere condotta sulla base di considerazioni, per così dire, puramente ‘utilitaristiche’, senza alcun riguardo per l’effettiva costruzione di vincoli, controlli e meccanismi che consentano di esercitare un ‘potere’ adeguato a quello del sapere medico. Ed è proprio dentro questa logica che si insinua la forza di un meccanismo inesorabile. Quello stesso meccanismo innescato dalla promessa di redenzione delle «vite indegne di essere vissute». Perché quella promessa non solo legittima il potere a intervenire per rendere «degna» la vita, ma – più o meno implicitamente – presuppone che esista davvero una linea che distingue la vita «degna» e la vita «indegna»: una linea che, a ben vedere, viene tracciata proprio da una politica in cui il sapere di governo si fonde e confonde con il sapere medico.
Molte delle ambiguità che segnano la prospettiva del post-umano, ma che in fondo attraversano la nostra condizione quotidiana, sono portate alla luce da La salute ad ogni costo. Medicina e biopotere (M. Benasayag, La salute ad ogni costo. Medicina e biopotere, Vita e Pensiero, Milano, 2010), un denso, lucido, prezioso volume di Miguel Benasayag, filosofo e psicoanalista già autore di testi estremamente interessanti come L’epoca delle passioni tristi (M. Benasayag – G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2005) ed Elogio del conflitto (M. Benasayag – A. del Rey, Saggiatore, Milano, 2008). In La salute ad ogni costo (steso in collaborazione con A. del Rey), Benasayag prende infatti di mira la promessa del post-umano, o, meglio, la promessa che le nuove conoscenze mediche possano liberarci dalla costitutiva fragilità del nostro corpo. La preoccupazione per la nostra salute e la sorveglianza che ciascuno di opera sul proprio corpo non è infatti, nella lettura di Benasayag, solo una moda o una conseguenza dell’istinto di sopravvivenza, bensì il riflesso di un mutamento più profondo che investe le nostre società e che rimanda proprio all’estensione di quello che Foucault definì come «biopotere», ossia «una forma di potere post-moderna che si esercita sulla vita e spiega il posto centrale attribuito alla medicina nelle nostre società» (M. Benasayag, La salute ad ogni costo, cit., p. 8.). Benché non si renda conto della portata di questo mutamento, ciascuno di noi rafforza il dispositivo, nel momento stesso in cui consegna la tutela proprio corpo e della propria salute a quel sapere specializzato che è il sapere medico: «se si tratta di evitare a ogni costo i pericoli che minacciano la nostra salute, i tecnici della salute diventano i nostri referenti privilegiato, in grado di proteggerci, guarirci, metterci sull’avviso e sorvegliarci, orientarci o, almeno, permetterci ci credere che potremo, se saremo obbedienti, non soffrire (troppo)» (pp. 8-9). Ma la preoccupazione che ciascuno di noi ha – comprensibilmente – per la propria salute finisce col rafforzare la logica al fondo della presa in carico della vita da parte del potere. E la medicina occupa un ruolo particolarmente significativo, dal momento che si pone all’incrocio fra la tecnica «disciplinare», che si occupa del disciplinamento del corpo dei singoli alfine di renderlo malleabile e docile, e la «biopolitica», che attiene invece alla vita della popolazione nel suo complesso. Come scrive sotto questo profilo Benasayag:

«L’importanza assunta dalla medicina con l’emergere del biopotere si spiega proprio per il legame che essa stabilisce tra i processi biologici – che interessano la popolazione – e i processi organici – che interessano gli individui. Grazie al suo esercizio de facto, partecipa sia alla produzione che alla giustificazione di quelle norme che, da un lato, si presentano come una risposta alla domanda di salute degli individui e, dall’alto, nutrono le nuove ‘strategie’ di potere, regolazione e gestione delle popolazioni. E proprio attraverso le norme che essa giustifica e produce, le tecniche di ‘disciplina’ si vedono in un certo senso duplicate da tecniche di gestione e di regolazione, che estendono l’inquadramento della vita dall’individuo alla popolazione, dall’organico al biologico. Così la medicina nell’epoca del biopotere rende possibile la circolazione fluida della disciplina dei corpi alla gestione delle popolazioni e dalla gestione delle popolazioni alla disciplina dei corpi individuali. E può acquisire nuovi effetti di potere, molto più potenti, in quanto i suoi consigli, le sue prescrizioni e le sue tecniche di cura sono diventati normativi» (pp. 11-12).

Naturalmente, Benasayag non punta a sostenere che, dietro il discorso medico, si nasconda un disegno lineare di assoggettare la vita a fini utilitaristico, perché l’affermazione del dispositivo segue un itinerario molto più articolato, un itinerario in cui si incontrano, da un lato, il rifiuto della fragilità da parte dei pazienti e, dall’altro, la partecipazione dei medici all’inquadramento delle vite all’interno di norme sanitarie. L’intento di Benasayag è piuttosto segnalare come la trasformazione del sapere medico sia comprensibile come esito alla crisi contemporanea della medicina: una crisi determinata dalla condizione paradossale per cui la medicina, proprio nel momento in cui dispone di maggiore conoscenze, si trova sempre più lontana dal raggiungimento dell’obiettivo di eliminare la malattia. Proprio la malattia, scrive infatti Benasayag, «è divenuta l’ombra inevitabile della medicina e, come ogni ombra, anche questa a volte la segue, a volte la precede, a volte si confonde con essa» (p. 14). Il disordine ecologico, lo sviluppo demografico, i flussi migratori producono, come inevitabile corollario, nuove malattie, che «fanno del compito di guarire una ‘fatica di Sisifo’, un eterno ricominciare, ponendo di fatto la medicina in una posizione definitivamente tangente rispetto all’obiettivo di sradicare la malattia» (ibidem). Ma il fallimento della medicina finisce col mutare il suo profilo e per ridefinirne il ruolo, all’interno del dispositivo bio-politico. Dopo aver preso atto dell’impossibilità di eliminare la malattia, la medicina viene a occuparsi del trattamento di un corpo di cui è impossibile una definitiva guarigione.
Nella sua analisi, Benasayag coglie il mutamento di prospettiva della medicina in cinque diversi campi – il trattamento dell’handicap, la cura del cancro, le cure palliative, la classificazione delle turbe psichiche, il problema del morbo di Alzheimer – ma la logica che intravede è in fondo la medesima. Quando riconosce che la malattia non può essere eliminata, che al massimo si può gestire la vita prima della morte (come nel caso dell’Aids), allora la medicina viene a occuparsi della gestione della malattia, a livello individuale e a livello sociale. Da questo punto di vista, il caso del cancro è particolarmente significativo: si tratta infatti di una malattia che, benché possa certo essere curata nel momento in cui si manifesta, non è stata per ora debellata; inoltre, non esistono neppure significative probabilità che si trovi nel prossimo futuro una cura in grado di debellarla completamente, così come sono state debellate altre grandi malattie nel passato. Proprio dinanzi a questo fallimento, la medicina cambia la prospettiva, nel senso che tende a occuparsi non più solo del malato, bensì della vita della popolazione nel suo insieme, indicando stili di vita adeguati, in grado di ‘responsabilizzare’ il singolo sulla condotta individuale. Come sintetizza Benasayag:

«Se viene a mancare la promessa di sradicare la malattia (promessa in nome della quale si esigeva l’obbedienza dei malati potenziali), ecco allora che bisogna (qui ci troviamo, beninteso, nell’ambito delle strategie senza strateghi) fabbricarne una nuova, che esprima in termini di sicurezza delle popolazioni (del corpo sociale). Se, per la medicina disciplinare, l’obiettivo era il controllo della vita del malato, nel passaggio verso il biopotere il cancro serviràcome alibi e scusa per gestire e controllare le popolazioni. Nel primo caso, l’obiettivo era la salute degli individui; nel secondo, diventa gestione sanitaria, sociale ed economica della popolazione. Da qui in poi, l’obbedienza sarà richiesta in nome di questo nuovo paradigma che, per parte sua, permetterà di responsabilizzare le popolazioni, sempre più bersagliate» (ibi, pp. 37-38).

Il paradosso di questo meccanismo – in cui si consuma il fallimento dell’ambizione medica – è che i programmi di prevenzione, benché abbia successo nell’influenzare il comportamento dei singoli, si rivelano inefficaci rispetto all’obiettivo primario della diminuzione dell’insorgere della malattia. E non potrebbe essere diversamente dato che – non solo secondo Benasayag – le cause all’origine del cancro sono ambientali, più che strettamente individuali. Di fronte a un problema che richiederebbe dunque misura sociali, urbanistiche e inevitabilmente politiche, la risposta del biopotere è dunque una responsabilizzazione del singolo: una responsabilizzazione che tende a trasferire le ‘colpe’ della malattia dalle condizioni ambientale sulla condotta – ‘irresponsabile’ – del malato. In altre parole, come scrive Benasayag, alla radice di questa forma di biopotere sta una sorta di dépistage:

«Il carattere disciplinare della consegne sanitarie caratteristiche del biopotere risiede nel fatto che, come nella vecchia figura giuridica che afferma che l’‘ignoranza della legge non è una scusante’, coloro che non seguono le consegne sanitarie formulate per il loro bene ne pagheranno le conseguenze, sia in termini di salute che sul piano economico. Più ancora, diventeranno dei nemici della società, non solo dei malati, perché mettono in pericolo la società tanto da un punto di vista sanitario quanto da un punto di vista economico o, meglio, da entrambi i punti di vista. Nel dispositivo del biopotere, il malato può dunque ritrovarsi molto facilmente a vestire i panni del deviante: le campagne di prevenzione, i test di sorveglianza, come pure i protocolli di cura, formattano e normalizzano sempre di più le popolazioni considerate. E così, l’individuo diventa colui che si merita la salute o la malattia, anche quando questo è sempre meno vero» (ibi, p. 45).

Esiti simili possono essere anche ritrovati nel mutamento dello sguardo medico nei confronti dell’handicap, che Benasayag definisce addirittura come il «laboratorio del biopotere». Da una decina d’anni, osserva Benasayag, l’approccio nei confronti dell’handicap da parte della medicina cambia, nel senso viene ad affermare che «non esiste un modo di essere handicappato, esistono solo handicap parziali che disturbano la vita di alcuni individui», e per questo diventa necessario «attaccarsi regionalmente a ciò che viene riconosciuto come handicap, cioè alle ‘competenze negative’» (p. 25). Il corpo viene scomposto in funzioni e organi, Con l’obiettivo di sopperire alle ‘competenze negative’ con l’introduzione di nuove ‘competenze positive’, e sulla base di una visone dell’organismo ‘normale’ costruita mediante la misurazione statistica della ‘norma’ della popolazione. Dopo aver in passato costruito la figura dell’handicap mediante la sua separazione dalla norma, la medicina procedesse ora a dissolvere il confine fra handicap e norma, puntando a isolare quelle ‘competenze negative’ – che costituiscono l’handicap di cui il singolo è portatore – per ‘normalizzarle’ mediante nuove competenze. «D’ora in poi», osserva Benasayag, «tutta una società avrà la possibilità di considerarsi, potenzialmente, dalla parte della norma e del potere», «tutta una società potrà considerarsi anche suscettibile di acquisire, grazie ai progressi della tecnica, competenze in più» (p. 26). Questo meccanismo di «unidimensionalizzazione disciplinare degli handicappati» prelude a una più generale «unidimensionalizzazione dell’insieme della società», e, soprattutto, al suo interno si nasconde però un’implicazione determinante, che conduce ciascun individuo a percepire se stesso come una sorta di «uomo senza qualità», un insieme di funzioni e organi da controllare e sviluppare. Un uomo in cui, peraltro, le ‘competenze positive’ non corrispondono, alle «qualità» cui si riferiva Musil nel suo romanzo, ma «a capacità che sono positive o negative in base al loro possibile utilizzo da parte dell’apparato produttivo» (p. 27). Proprio per questo allora, secondo Benasayag, «mentre offre ad alcuni una sorta di onnipotenza che permette loro di raggiungere il vertice», il modello di società che va prendendo forma, «intima agli altri di accontentarsi di quello che hanno», ma, «a questo punto l’uomo guarda i suoi mezzi e le sue competenze e organizza la propria vita in funzione di essi, più che in funzione del proprio desiderio e dell’epoca in cui vive» (p. 27).
Un esempio emblematico dell’estensione del biopotere alla società è però offerto – con gli scenari che apre, e che già sono in parte realtà – dalla prevenzione dell’handicap. La sorveglianza medica della gravidanza ha la finalità – del tutto razionale – di prevenire che nasca un bambino handicappato, ma innesca un processo di estensione del potere medico sui comportamenti dei genitori e della madre in particolare: un processo di estensione che investe tutte le dimensioni della loro vita. Operando all’interno della cornice del «rischio» (e dunque sulla base della probabilità che il rischio si traduca in realtà), il sapere medico si poggia naturalmente sulle basi della conoscenza tecnica e dei risultati compiuti dalla ricerca scientifica, ma una conseguenza pressoché scontata di questo processo è l’approdo alla pratica di un’«eugenetica soft», che consiste nella decisione di non far nascere un bambino handicappato. «Ecco perché», scrive infatti Benasayag, «non è assurdo dire che il potere della tecnica medica produce una eugenetica soft, che si determina automaticamente per il fatto stesso che si è posti davanti a una simile scelta» (p. 28). Gli effetti sociali di una simile pratica sono prevedibili, e vanno dall’eliminazione delle strutture a sostegno degli handicappati, in virtù della loro diminuzione quantitativa, alla decisione – già adottata negli Stati Uniti – con cui le assicurazioni potrebbero non pagare alcun risarcimento a quei genitori che, pur essendo a conoscenza del rischio statistico di mettere al mondo un figlio handicappato, sono comunque ‘responsabili’ per aver portato avanti la gravidanza. Ma l’aspetto più subdolo del biopotere consiste forse – come scrive Benasayag, in termini che è difficile non condividere – nella sua apparente ‘neutralità’, ossia nel fatto che la penetrazione del potere nella vita avviene sotto le spoglie di una ‘tecnica’, di cui è impossibile negare i benefici:

«Si obietterà, forse, che non bisogna in ogni caso attribuire intenzioni a uno strumento tecnico che, malgrado tutto, è sempre possibile rifiutare. Ma il potere stesso della tecnica, nel nostro caso medica, dipende dal fatto che essa avanza in modo non ideologico. È in questo stato che essa determina una biopolitica, una strategia senza stratega di gestione delle popolazione ‘a rischio’, e così pure dei rischi legati alle popolazioni. Peraltro, è il caso di insisterci, tale potere consiste nel fatto che impone una visione completamente normativa di quel che dobbiamo essere. Ciò che la prevenzione oggi banalizzata mette in luce è il modo unilaterale di considerare l’handicap e la persona handicappata. Abbiamo un bel dichiarare con fierezza che le nostre società post-moderne non hanno un modello d’uomo e che siamo democratici: eppure pratichiamo un’eugenetica vera e propria! Quest’ipocrisia rivela che, ben lungi dai discorsi lenitivi di chi arriccia il naso appena si pronuncia la parola ‘handicappato’ – perché pretende di aver superato quei confini decisamente troppo normativi -, le nostre società post-moderne procedono alla messa in atto di processi ultra-repressivi che tendono a uniformare la vita riconducendola a modelli egemonici. La biodiversità è attaccata anche sul terreno dell’umano. E questo, beninteso, in nome della massimizzazione del bene di tutti, in una società che si appresta a tollerare tutte le differenze… il giorno in cui non ce ne sarà nessuna. Dietro l’‘uomo senza qualità’, si nascondono norme molto precise relative a ciò a cui gli uomini devono servire!» (p. 29).

L’insidiosa penetrazione di un’eugenetica soft riflette però un meccanismo più generale, in cui si può ritrovare la conseguenza più dirompente della costruzione dell’orizzonte del post-umano. Dal momento che il bio-potere procede dalla visione di un «uomo delle competenze», non può che prefigurare il post-umano nei termini di una progressiva «artefattualizzazione della vita»: poiché l’uomo è concepito come un aggregato di competenze che il sapere medico può scomporre e conoscere, poiché è raffigurato «come la superficie liscia (quindi senza qualità), senza rugosità né sporgenze, sulla quale si vanno ad aggregare delle competenze in vista di un ‘rendimento ottimale’», il biopotere può pensare il post-umano come un processo capace di aggiungere sempre nuove funzioni. In questa concezione, in cui è ovviamente assente fin dal principio l’idea che la funzione sia sempre integrata in un organismo, «il tutto dell’organismo è considerato migliorabile all’infinito dalla tecnica», «aggiungere una parte è sempre considerato positivo», e, ovviamente, «le possibilità di modifica dell’organismo aperte dalla tecnica hanno dunque la tendenza ad apparirci spontaneamente sotto la forma di un progresso» (p. 97). Nel concepire la tecnica come neutrale, e nell’immaginare il suo progresso come sempre positivo, il biopotere si trova evidentemente a sottovalutare l’eventualità – tutt’altro che ipotetica – che la tecnica diventi incontrollabile e che possa essere piegata agli usi più inquietanti, senza che d’altronde sia più neppure possibile più opporsi alla sua marcia in nome della vecchia immagine umanistica dell’essere umano. In altre parole, il tratto più insidioso del modo in cui si delinea l’orizzonte del post-umano coincide con la convinzione che le possibilità consegnate dalla tecnica siano, prima ancora che opportune, inevitabili e obbligatorie:

«La caratteristica del biopotere e della sua biopolitica risiede nel fatto che tutto ciò che la tecnica rende possibile, a più o meno breve termine, tende a diventare obbligatorio. La strategia (senza stratega) vuole che la questione della modificazione del vivente (e quindi della specie umana) venga presentata, in modo completamente innocente e neutro, come l’apertura di nuove possibilità che la tecnica metterebbe, gentilmente, a nostra disposizione, e che noi possiamo o meno ‘acquistare’… Cittadini consumatori nell’età del biopotere, quindi consumatori di salute e di vita continuata, crediamo in questo racconto, così come scegliamo, con il nostro libero arbitrio beninteso, di acquistare o meno questa o quella competenza che ci viene offerta sul mercato. E non è certamente in nome di un ipotetico e, soprattutto, astratto ‘carattere sacro della vita’, neanche della vita umana, che potremo orientare o delimitare, o addirittura determinare gli sviluppi della tecnica, perché sappiamo benissimo (fin troppo bene) che la cosa diventerà, un giorno o l’altra, obbligatoria. La tecnica (e in particolare la tecnica applicata ai fenomeni della vita) non produce mai possibilità opzionali: o le possibilità esistono, o non esistono (ancora), ma, se esistono, diverranno obbligatorie. Mentre produce i suoi oggetti, la tecnica produce, anche… soprattutto… una norma» (p. 98).

Per quanto possa dare la sensazione di rimpiangere nostalgicamente il passato, Benasayag è d’altronde ben consapevole che l’avvento del biopotere innesca processi irreversibili, e che la via che conduce a un ritorno alla centralità dell’essere umano è ormai di fatto impraticabile, nel senso che un recupero della concezione umanistica dell’uomo non può rappresentare un argine adeguato e credibile dinanzi alla «dispersione della vita naturale e culturale, che conosce gli esseri solo come aggregati utilizzabili» (p. 96). Nell’epoca del post-umano, ai suoi occhi, «la vera sfida passa attraverso il conflitto che oppone da un lato le tendenze alla dispersione (quelle che costruiscono chimere e artefatti che, così facendo, distruggono dimensioni della vita e della cultura) e, dall’altro lato, lo sviluppo di molteplici correlazioni (uomo/natura/ambiente/tecnica) che forma la nuova unità […] e che non si fonda su di un’angusta visione delle nuove possibilità tecniche» (ibidem). In altre parole, «l’alternativa non è tra la tecnoscienza associata all’economia da un lato e il ritorno alle caverne dell’altro» (p. 99), ma piuttosto – dinanzi alla realtà ormai prossima di una «artefattualizzazione della vita» capace di modificare non solo il fenotipo, ma lo stesso genotipo –di elaborare strategie e riflessioni adeguate a fronteggiare il rischio che l’epoca del post-umano possa essere interamente assorbita dentro la normatività. In questo scenario, i margini di una possibile resistenza non vengono consumati interamente, e – osserva Benasayag - «la costruzione delle entità miste, o addirittura degli ibridi, può essere pensata in progetti di emancipazione», come ritengono le diverse declinazioni affermative della biopolitica. Ma – avverte - «è importante sottolineare che mai costruzione e resistenza sono state così vicine, quasi sinonimi» (p. 102). Il punto cruciale non consiste allora nella negazione del post-umano, bensì nella costruzione di un terreno conflittuale «a partire dal quale la logica utilitaristica del biopotere potrà essere superata». Ciò comporta, però, prendere atto che l’«artefattualizzazione della vita» con cui il bio-potere riduce gli essere umani ad aggregati di organi e funzioni, e con cui punta a ottimizzarne le potenzialità produttive, non è un processo privo di alternative. E, soprattutto, impone di interrogarsi su cosa sia davvero la «vita». «Quel che si chiede» - scrive infatti Benasayag, proprio alla conclusione del suo lavoro - «è infatti sapere in cosa consista quella vita in nome della quale il biopotere avanza, anche quando la trasforma in sopravvivenza… Il punto di vista che pretende di trattare l’insieme del vivente come un aggregato di competenze utilizzabili non è moralmente condannabile. Si tratta di capire che l’utilitarismo, che ama presentarsi come la sola realtà possibile, non lo è» (p. 103).
Ovviamente, la proposta di Benasayag può lasciare insoddisfatti non solo i sostenitori delle potenzialità del post-umano, che ritrovano in una simile impostazione una indebita interferenza nella traiettoria del progresso scientifico, ma anche tutti coloro che – sulla base di opzioni valoriali e prospettive politiche differenti – intravedono risvolti negativi e derive deleterie nell’ipotesi di un’integrazione fra essere umano e macchina, e più in generale nella possibilità di modificare la dotazione di ciascun individuo, o della stessa specie umana, mediante gli strumenti offerti dallo sviluppo tecnologico. Ciò nondimeno, è difficile sostenere che il passaggio oltre la soglia biopolitica, dentro uno scenario in già si profilano i contorni di una sorta di nuova «condizione post-umana», non comporti la necessità, l’urgenza, ma anche la difficoltà di elaborare strategie di resistenza – teoriche e pratiche – a un processo all’apparenza inevitabile. E il fascino del post-umano consiste d’altronde proprio nel suo carattere ‘inevitabile’, perché l’orizzonte della possibile liberazione dal dolore, indicato dalla tecnica e dall’evoluzione del sapere medico, non può non apparirci travolgente, perché non possiamo cedere al suo fascino, e perché non possiamo non adottarne la prospettiva. Per questo, non possiamo che abbandonare ogni residuo scrupolo morale, o aggirare sbiadite tracce di etiche ‘obsolescenti’, forzando i vecchi precetti all’insopprimibile esigenza di proteggere il fragile corpo in cui siamo ospitati. Ma, in questo modo, non possiamo non cedere alla penetrazione del potere nella vita, non possiamo che spianare la strada alla marcia del biopotere proprio dentro la vita.
Il biopotere di oggi, il biopotere che si insinua quotidiana nella nostra vita, è certo diverso da quello di cui Foucault, nel primo volume della sua Storia della sessualità, aveva intravisto le origini intorno alla metà dell’Ottocento. Allora, smontando lo schema della ‘repressione’ sessuale, ereditato dalla Tiefenpsychologie e declinato in mille direzioni dal freudo-marxismo, Foucault puntava a mostrare come l’idea stessa di una ‘liberazione’ delle pulsioni sessuali si inquadrasse coerentemente in quel dispositivo biopolitico che aveva prodotto la «sessualità», come oggetto di studio, di riflessione, di controllo. Oggi, la scomposizione dell’essere umano in un «uomo senza qualità», in un insieme di organi, in una somma di capacità, attiene a una fase molto più avanzata di questo processo. Il biopotere contemporaneo rivela un’«artefattualizzazione della vita» molto più elaborata e complessa, che chiama costantemente, ciascuno di noi, a sorvegliare ‘responsabilmente’ il nostro corpo, i nostri organi, persino il nostro stato psichico, in ogni momento e in ogni fase della nostra esistenza. Ma, nonostante questa modificazione, il meccanismo implacabile rimane lo stesso. Nel momento in cui ci dischiude la speranza di una salvezza dalla malattia, dal dolore, persino nella fase terminale che conduce alla morte, penetra dentro la nostra la vita, la scompone, chiama ciascuno di noi a farsi responsabile custode dell’efficienza del nostro corpo, dei nostri organi, del nostro stato psichico. E l’ironico, terribile paradosso – come scriveva Foucault – è che ci fa credere che ne vada della nostra liberazione.

Damiano Palano 



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