lunedì 26 dicembre 2011

La soglia biopolitica. Appunti su una discussione contemporanea 3/4



di Damiano Palano

Segue da:


3. ‘Quale’ vita?

Proprio quell’insieme di processi, colto dal dibattito sulla biopolitica, non risulta in realtà del tutto assente da una prospettiva come quella articolata da Sartori. Per quanto le sue categorie stilizzate non riescano certo a decifrare concettualmente la portata delle trasformazioni biopolitiche, in realtà le proposte del politologo ne recepiscono le potenzialità in termini di dilatazione delle capacità di governo. Quando Sartori formula l’idea che una somministrazione di massa della pillola anti-concezionale alle donne dei paesi poveri sia lo strumento necessario per il governo del ‘benessere’ del pianeta, per la limitazione della povertà, per preservare la qualità dell’ambiente, per arginare il riscaldamento globale, si colloca proprio su un terreno ‘biopolitico’, ossia su quel terreno che assume come oggetto specifico dell’esercizio del governo la regolazione politica della vita e della riproduzione. E proprio nella combinazione fra l’ingenuità delle premesse e la violenza delle soluzioni avanzate che risiede, con ogni probabilità, il motivo della seduzione che una simile proposta effettivamente esercita.  Ma la forza del dispositivo che si nasconde dentro la promessa biopolitica non può passare inosservata.
In modo piuttosto evidente, le conseguenze implicite nel passaggio della soglia biopolitica si trovano sullo sfondo del confronto a due voci, fra Adriana Cavarero e Angelo Scola, sul comandamento «Non uccidere». Commentando il comandamento, Cavarero non può fare a meno di sottolinearne, al tempo stesso, la portata radicale della prescrizione e la tendenza ricorrente a farne valere la vigenza solo in alcune circostanze, e soprattutto a non considerare la «guerra» come un evento strutturalmente differente dall’omicidio individuale. «Cos’ha la guerra di speciale per non rientrare sotto la categoria di assassinio, per di più perpetrato in massa e ormai quasi esclusivamente sui civili?» (A. Cavarero, Archeologia dell’omicidio, in A. Cavarero – A. Scola, Non uccidere, Il Mulino, Bologna, 2011, p. 78). Ma la discussione non può che farsi più complessa, nel momento in cui la discussione sulla liceità della soppressione della vita si volge «a una condizione tecnologicamente prodotta in cui la soglia stessa fra la vita e la morte rimane indefinita» (p. 94). La scena del «fine vita» diventa infatti «sconcertante», se osservata non solo da una prospettiva religiosa, ma anche da una prospettiva laica:

La ‘nuda vita’ esula essenzialmente dalle rappresentazioni che l’individuo autonomo della modernità ha di per sé come vivente e, per estensione, di ogni altra persona vivente alla quale riconosce lo statuto del sé. L’orizzonte è tale per cui, qualsiasi sia il senso dato all’omicidio e al suicidio, si tratta di un senso che arriva al limite della figura del sé ma non la oltrepassa. Il sopravvivente a sé nella nuda vita, infatti, non può essere ucciso perché è già oltre il senso possibile della propria morte. È già, per così, dire l’indifferente: mero processo vitale insediato in un organismo che esso tiene temporaneamente in forma, ovvero forza anonima che si nutre della sembianza di un giorno umana e ne falsifica l’immagine. Appunto, nuda vita. Vita. Procrastinabile ma non più uccidibile (pp. 97-98).

Ma il passaggio oltre la soglia biopolitica – se certo conferisce a ogni decisione e a ogni discussione intorno alla vita i tratti dell’«eccesso», come nota Cavarero – innesca però anche una trasformazione più radicale: una trasformazione in virtù della quale il concetto cristiano di «vita sacra» (e dunque il principio della non uccidibilità della vita) si tramuta nel concetto della «vita degna», con la conseguenza che la vita ‘indegna’ può essere uccisa. Lungo questo percorso, come osserva Scola, «il concetto di ‘qualità di vita’, che sostituisce quello della sacralità, è stato inteso come un insieme di parametri che consentirebbero di stabilire il reale valore di ogni vita umana», con la conseguenza logica che «si può giungere a togliere a esseri umani la qualità di persone» (A. Scola, L’insopprimibile volto dell’altro, in A. Cavarero – A. Scola, Non uccidere, cit., p. 44). La vita, da questo punto di vista, non solo è posta integralmente nelle mani degli esseri umani, e dunque privata di ogni riferimento che non sia empiricamente misurabile, ma la definizione del confine tra la vita degna e la vita indegna viene consegnato al potere:

L’ambito della biopolitica diviene, dunque, un terreno insidioso, in cui si tende a smantellare la tesi dell’indisponibilità/inviolabilità della vita umana. L’idea oggi corrente, infatti, suppone il contrario dell’inviolabilità, nel senso che la vita è divenuta progressivamente un oggetto di controllo minuzioso da parte del potere, fino al punto che è il potere stesso a decidere quando una vita è degna di essere vissuta e quando invece merita di finire (p. 45).

Da questo punto di vista, la biopolitica viene intesa da Scola nei termini di una penetrazione della vita da parte di una tecnica che, di fatto, la assoggetta a una logica di dominio. E, così, è significativo che, per cogliere la logica che sta al fondo della ‘misurazione’ della «qualità della vita», Scola ricorra alla lettura svolta da Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo, in cui i due filosofi osservano che «l’assoggettamento di tutto ciò che è naturale al soggetto padrone di sé si conclude proprio nel dominio dell’oggettività e naturalità più cieca», e che proprio «questa tendenza livella tutti i contrasti del pensiero borghese, a partire da quello fra rigore morale e amoralità assoluta» (T.W. Adorno – Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino, 1966, p. 125).
Su una simile linea di argomentazione, si pongono anche le considerazioni di Ernst-Wolfgang Böckenförde, che affronta il tema dalla prospettiva del dibattito tedesco sul principio costituzionale della dignità della persona e sulla opportunità di estendere la garanzia di tale principio agli embrioni. Le prospettive potenzialmente aperte dai progressi della biomedicina e delle biotecnologie profilano infatti la questione della dignità della persona in termini radicalmente diversi rispetto al passato. «Non è più utopia ma reale possibilità praticare la selezione della discendenza sia nell’ottica di una selezione negativa, orientata sui difetti, sia in quella della selezione positiva che si ferma sui caratteri desiderati», osserva Böckenförde, e «non sono più in alcun modo escluse anche terapie di inseminazione, la modificazione dei caratteri ereditari umani e la cosiddetta clonazione terapeutica, per esempio la produzione di cellule staminali pluripotenti, e con ciò la possibilità di cura» (E.-W. Böckenförde, Dignità umana e bioetica, a cura di Sara Bignotti, Morcelliana, Brescia, 2010, p.  39). E proprio tali nuovi scenari «rendono urgente la domanda sul fondamento e l’orientamento rispetto alla natura, alle modalità e ai confini di come noi uomini vogliamo relazionarci l’un l’altro e organizzare la convivenza degli uomini» (p. 40). In particolare, dinanzi alla domanda sull’estensione della garanzia della dignità umana, sancita dal Grundgesetz, Böckenförde sostiene la tesi che sia necessario riconoscere tale garanzia non solo alle «persone umane già nate» ma anche all’«embrione». Ma, osserva Böckenförde, all’interno di questo quadro la stessa nozione di «persona» finisce col perdere parte della propria pregnanza ed essere utilizzata per portare avanti un processo del tutto coerente con la logica del dominio dell’«oggettività» e della «naturalità più cieca» di cui scrivevano Adorno e Horkheimer. Come scrive proprio a questo proposito il giurista tedesco:

Il concetto di persona ha certamente una rispettabile tradizione filosofica che risale a Boezio […]. L’odierno impiego del concetto di persona si è tuttavia distaccato da questa origine. Ha ora la funzione di introdurre una distinzione fra vita umana e vita personale e di concepire la personalità, ossia l’essere-persona, come un concetto più ristretto rispetto a quello dell’essere-uomo. Non ogni vita umana, ma solo una con caratteristiche determinate e distinte qualità può essere vita di persona e di conseguenza può esserne titolare una persona. A che cosa invece la personalità debba essere legata è a sua volta determinato in modi differenti. In parte è legata alla interazione con l’organismo materno dopo l’impianto, in parte alla vitalità fuori dal grembo materno, in parte – procedendo oltre – all’autocoscienza o alla capacità dell’agire autodeterminato; in quest’ultimo caso ci si sofferma sulla presenza in atto di queste qualità e non sulla loro potenzialità. Poiché si considera la dignità dell’uomo fondata in una personalità – così definita – ne segue che non spetta a ogni essere vivente umano la dignità umana, ma solo alla vita umana ‘personale’. Il concetto di persona si presa in questo modo a circoscrivere l’ambito tutelato dalla norma di rispetto della dignità umana: non tutti gli uomini o non tutte le fasi della vita umana partecipano della dignità umana (pp. 49-50).

Al contrario, osserva Böckenförde, la dignità di un individuo non può disgiungersi dalla storia di quell’individuo, e pertanto deve comprendere non solo l’esistenza al suo stato compiuto, bensì anche l’inizio della sua storia, l’inizio della vita, che deve essere collocato nel momento della nascita dell’embrione:

questo primo inizio di una vita propria dell’uomo formato e sviluppato però si trova allora nella fecondazione, non più tardi. Con essa si forma una coppia [gegenüber] di uno spermatozoo e un ovulo, che sono anch’essi forma di vita umana, di un essere vivente nuovo e a sé stante. Esso è contrassegnato in modo inconfondibile e individuale attraverso la combinazione di gruppi di cromosomi stabiliti così e non diversamente. È questo, dal punto di vista indiscusso delle scienze naturali, il fondamento biologico dell’uomo singolo. Lo sviluppo successivo, spirituale e psichico, è già fondato in concomitanza in ciò; l’uomo è una unità di corpo-spirito-anima. Dopo che è fissato il gruppo dei cromosomi individuale, non avviene infatti alcuna svolta nella qualità di ciò che si sviluppa. Il programma genetico di sviluppo si presenta ultimato, non ha bisogno di alcun altro completamento: qui dall’interno esso si dispiega nel corso del processo biologico, secondo il criterio della propria organizzazione. E questo è appunto il segno caratteristico che costituisce un organismo umano: è la forma impressa che vivendo si sviluppa (pp. 55-56).

Sulla base di un simile ragionamento, Böckenförde può allora ritenere necessario che la garanzia stabilità dall’art. 1 della Legge fondamentale tedesca vada estesa anche agli embrioni, e che, dunque, venga vietata la produzione (artificiale) di embrioni finalizzata al loro sfruttamento per la ricerca scientifica (così come è vietata – proprio in nome del principio dell’inviolabilità della dignità umana – la soppressione di vite umane per fini scientifici), l’importazione di cellule staminali provenienti dalla distruzione di embrioni, la diagnosi pre-impianto e la clonazione terapeutica.
Naturalmente, è scontato – e comprensibile – che una posizione come quella di Böckenförde possa sollevare obiezioni e perplessità, e soprattutto che possa essere accusata di violare quella stessa dignità di cui si accredita la difesa. Un’accusa di questo tipo potrebbe essere per esempio indirizzata alle argomentazioni del giurista tedesco, a proposito della tesi secondo cui è necessario vietare la diagnosi genetica pre-impianto (Pgd): in sostanza, si potrebbe osservare – ma non si tratta di rilievi ipotetici, dal momento che argomentazioni simili vennero effettivamente formulate nel corso del dibattito che precedette i referendum italiani sulla procreazione assistita – che, in nome della tutela della dignità dell’embrione, ossia di un individuo non nato, viene violata la dignità dei genitori e in particolare della madre, perché essi vengono privati del diritto all’autodeterminazione. La diagnosi pre-impianto consiste in un esame diagnostico con cui, nel quadro di una fecondazione extracorporea intrapresa artificialmente, all’embrione prodotto in vitro vengono prelevate una o più cellule, al fine di appurare l’esistenza di difetti o predisposizioni genetiche. Laddove tale diagnosi non è vietata, viene effettuata con l’obiettivo di non trasferire sulla donna un embrione in cui si possa attestare una grave malattia, o che abbia una predisposizione genetica, e, dunque, con l’obiettivo di selezionare gli embrioni difettosi. È piuttosto scontato che Böckenförde escluda la compatibilità fra la Pgd e il rispetto della dignità dell’embrione, dal momento che l’embrione, in questo caso, viene selezionato in base alle proprie caratteristiche. Ma è altrettanto scontato che tale divieto venga percepito come la violazione del diritto della donna a decidere sulla possibilità di interrompere una gravidanza, avviata con la produzione in vitro dell’embrione, sia perché in questo modo alla donna sembra essere sottratto il diritto di autodeterminare la scelta di avere un figlio, pur entro i limiti temporali fissati dalla legislazione sull’aborto, sia – e forse soprattutto – perché pare che i genitori vengano privati della possibilità di utilizzare gli strumenti offerti dalle tecnologie per migliorare la vita dei loro figli, per impedire loro di nascere con gravi malformazioni o con malattie incurabili. In altre parole, un simile divieto non può che apparire lesivo del diritto a quella vita sana e normale, che le nuove conoscenze mediche e genetiche rendono disponibile, solo in nome di principi religiosi. Ma è proprio sulle implicazioni più inquietanti (ma tutt’altro che irrealistiche) innescate dalla seduzione della Pdg che Böckenförde attira l’attenzione:

Non si può sottovalutare quale grande porta venga aperta se si ammette la Pgd, come già accade in certi paesi. I possibili ambiti di applicazione sono davvero svariati. In realtà la Pgd è appoggiata attualmente dai suoi fautori solo per i casi di determinate malattie ereditarie gravi, nella misura in cui esista un alto rischio genetico. Questo implica già una pesante discriminazione di persone colpite da handicap o gravate da malattie ereditarie; sono coloro che propriamente non dovrebbero esistere, la cui vita non appare come degna d’essere vissuta e che una donna, la quale agisca responsabilmente – anche a motivo del peso che ne risulterebbe – non dovrebbe dare alla luce. Questa discriminazione si rafforza ulteriormente nel momento in cui le malattie in questione vengano esplicitamente nominate in un catalogo. Infatti, per quale ragione un tale catalogo non potrebbe essere ampliato? Vi sono casi similmente gravi accanto alla serie addotta, con quale ragione vengono esclusi? E ancora: sono da prendersi in considerazione solo malattie che si presentano subito, o anche malattie che insorgono in secondo momento, per esempio dopo i 40 anni di vita? […] perché solo il rifiuto di gravi malattie condizionate geneticamente, e non anche l’eugenetica positiva, il suo impiego per l’ottenimento di qualità fisiche o psichiche desiderate, come per esempio sesso, corporatura, intelligenza? Che cosa c’è qui di riprovevole una volta che si sia dischiusa in linea di principio la possibilità di una diagnosi e di una predisposizione? L’uomo non fa che cogliere le possibilità che ha esplorato. Ma per che fine vi si appresta? (pp. 68-69).

Le domande che Böckenförde si pone a proposito della Pgd non sono esercizi retorici, volti a mettere in luce le più inquietanti implicazioni di una tecnologia già disponibile, e non sono neppure domande alle quali sia sempre possibile fornire una risposta univoca. D’altronde, sono proprio queste le domande che si ripropongono nel passaggio oltre la soglia biopolitica, perché le presa in carico della vita da parte del potere si incontra con la richiesta di salute, di sicurezza, di «immunizzazione». Ma ciò che è più sorprendente, e per molti versi preoccupante, è che – per utilizzare le parole di Scola – le conseguenze di un simile processo di assoggettamento, che si conclude «nel dominio dell’oggettività e naturalità più cieca», passino del tutto inosservate, e che anzi la prospettiva di una penetrazione sempre più profonda del potere nella vita sia accolta con sollievo e sostegno:

Preoccupante è il fatto che quando la vita entra nell’orizzonte della disponibilità politica, le decisioni di potere hanno inevitabili effetti non solo sui singoli, ma sull’intera sorte della specie umana. Ma preoccupante è altresì il fatto che questa disponibilità politica pressoché totale della vita non suscita alcuna ribellione morale, anzi è rinforzata da una compatta e diffusa approvazione. Il biopotere, infatti, è in grado di rastrellare il consenso più o meno generalizzato perché si presenta con una faccia benefica, che si regge, a sua volta, su una separazione sintomatica: da una parte una vita umana degna, fatta di relazioni con il mondo e con gli altri (cioè la vita che possiede ‘qualità’ standard, ritenute irrinunciabili da chiunque); dall’altra la vita biologica, quella che consiste semplicemente nella sussistenza del nostro organismo animale. Ora, ‘normalmente’, è pacifico che i padroni di queste ‘due’ vite siamo noi. Ma quando accade che queste due vite in qualche modo si separino (evento oggi possibile), cioè quando accade che un individuo perda certi standard qualitativi che si pretende ‘certifichino’ la dignità della vita umana, si pone il problema di chi divenga l’amministratore della vita organica residua, di quel resto di vita organica che in qualche modo è rimasta priva del suo legittimo e naturale proprietario. È a questo punto che interviene il potere ‘benefico’, avallando la tesi – ormai assai diffusa – che la soppressione di una vita umana ‘ridotta’ al mero funzionamento biologico non solo non è omicidio, ma è il miglior modo di prendersene cura (pp. 46-47).

In fondo, il fascino ambiguo della penetrazione della vita da parte del potere – oltre che di idee come quelle suggerite da Sartori – si innesta in modo pienamente coerente in quella trasformazione dell’immaginario che consegna alla vita un ruolo di cardine nella legittimazione dei più diversi tipi di intervento. Ed è proprio quello stesso fascino che promana dalla prospettiva del «post-umano», di quel mutamento del genere umano – reso possibile dall’integrazione fra l’essere umano e la tecnologia – attorno al quale è crescita negli ultimi due decenni una vera e propria filosofia.

Continua

Damiano Palano




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