mercoledì 1 giugno 2011

L'estate in cui diventammo campioni del mondo.Il Mundial di Spagna nel classico monologo di Davide Enia






di Damiano Palano

(Questo testo, apparso originariamente sul blog "Mompracem" nel giugno 2010, viene qui riproposto con qualche piccola modifica formale).

Tra le date che scandiscono il cambiamento d'epoca, e il passaggio dall'Italia di ieri all'Italia di oggi, una non può essere dimenticata, perché continua a parlare - più di altre - a molti italiani, e soprattutto alle generazioni nate tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta. Per le ragazze e i ragazzi nati in quel periodo, le date che hanno scandito la storia italiana, imprimendo una cesura profonda, un taglio netto fra il 'prima' e 'dopo' - date come, per esempio, il 16 marzo 1978 o il 14 ottobre del 1980 - non hanno infatti un grande significato. E se ancora oggi conservano un valore, l'hanno assunto molto più tardi, in un processo di rielaborazione culturale successivo. Non certo perché non fosse ben chiaro già allora, persino a un ragazzino, cosa fosse accaduto in Via Fani, ma perché il significato reale di quei fatti e il peso che avrebbe avuto nella costruzione della memoria collettiva del paese sarebbero diventati chiari molti anni dopo. C'è però un'altra data, in cui quelle generazioni - e, insieme a loro, buona parte dell'Italia, al Sud come al Nord - sono nate davvero. E, per così dire, hanno scoperto il mondo come prima non avevano neppure mai osato pensarlo. Quella data è l'11 luglio del 1982. Perché in quella notte, come sanno davvero tutti, la nazionale italiana di calcio, quella di Zoff, Gentile, Cabrini, Conti, Rossi, ecc., saliva per la prima volta - o, meglio, dopo le vittorie (lontanissime) del '34 e del '38 - sul tetto del mondo.
Per quanto si trattasse 'soltanto' di un evento sportivo, quella notte e l'intera estate del 1982 furono con ogni probabilità un momento di snodo cruciale per la ridefinizione dell'identità italiana. Un momento che incise molto più di altre vicende politiche, pur importanti. Non soltanto perché quella notte venne vissuta da molti come il più importante avvenimento nell'esperienza collettiva del paese, e persino nelle vite individuali di ciascuno. Ma anche perché fu un momento che venne a dividere la storia dell'Italia contemporanea fra un 'prima' e un 'dopo'. Un 'dopo' in cui nulla sarebbe stato più come prima.
Davide Enia, un attore e autore di grande talento, ha dedicato il suo monologo probabilmente più popolare al momento cruciale dell'avventura della nazionale di Bearzot. In Italia-Brasile 3 a 2 - un monologo andato in scena per la prima volta nel 2002, pubblicato anche in volume dall'editore Sellerio di Palermo, e diventato ormai una sorta di piccolo classico contemporaneo - Enia rievoca proprio la straordinaria partita che contrappose la rappresentativa italiana alla nazionale verde-oro. Ma non tocca certo le corde della nostalgia. I pochi che non hanno visto lo spettacolo - sempre entusiasmante - o letto il libro possono infatti stare tranquilli, perché non c'è proprio nulla di quello che abbondava a piene mani in un testo teatrale all'apparenza simile, come Italia-Germania 4-3. In quest'ultimo lavoro (scritto da Umberto Marino e trasposto anche sul grande schermo da Andrea Barzini), l'unica nota che emergeva, alla fine, era solo un patetico alone di malinconia e di commiserazione. E la vittoria italiana nella semifinale di Mexico '70 era solo il pretesto per intonare l'ennesima elegia per una generazione in crisi di identità. In Italia-Brasile 3 a 2 non c'è nulla di tutto questo. Perché Enia, riuscendo a mettere a frutto le proprie qualità di autore e di interprete, racconta quella partita nell'unico modo possibile. Dato che Italia-Brasile - quella Italia-Brasile - è ormai una parte di noi, dato che le sequenze di quello scontro sono diventate un momento decisivo nell'esperienza collettiva, Enia non mette in scena la 'vera' partita, ma la partita - ancora più vera - giocata nel soggiorno di casa Enia, dinanzi al televisore (un solenne, avveniristico, quasi minaccioso, Sony Black Trinitron) nel torrido pomeriggio del 5 luglio 1982.
Dinanzi al racconto di quei febbrili novanta minuti, tutti noi non possiamo che riconoscerci negli indimenticabili personaggi del teatrino allestito da Enia, nei loro comici (ma così familiari) rituali scaramantici, nei loro odi viscerali, nelle loro passioni travolgenti, nei loro passaggi repentini dal più nero pessimismo alle più triviali spacconate. E non possiamo che tornare al soggiorno di casa nostra, o in qualsiasi altro luogo abbiamo seguito quello scontro epico, per incontrare ancora una volta la sagoma flemmatica di Socrates, le geometrie imprevedibili di Falçao, o le punizioni di Zico. Per rivivere le cavalcate di Bruno Conti e le gagliarde entrate di Claudio Gentile, o per ritrovare il punto esatto in cui il vecchio patriarca Dino Zoff riuscì a fermare sulla linea la spietata incornata di Leandro. Ma, soprattutto, non potremo mai dimenticare il momento in cui, indossando la maglia con il fatidico numero 20, spingeva il rachitico Paolo Rossi verso le sue indimenticabili, rapaci, imprevedibili accelerazioni. Il momento in cui indirizzava il suo piede - così apparentemente legnoso, eppure così implacabile - verso l'angolo più lontano della porta del Sarrià di Barcellona. 

Ed è forse proprio la figura di Paolo Rossi - o "Paolorrossi", come lo chiama Enia, nel suo vernacolo palermitano, ricco di invenzioni e persino di richiami classici - a racchiudere in sé gran parte della storia di quel mondiale:

"Paolorrossi... quello che 'non tornerai mai più il giocatore di calcio che sei stato un tempo'... quello che 'tornatene a casa'... 'sei la vergogna dell'Italia...'
Paolorrossi... quello che in 232 minuti cambia tutto.
Dal 5' minuto di Italia-Brasile al 57' minuto di Italia-Germania, Paolorrossi nato a Prato segna 6 gol consecutivi:
3: al Brasile
2: alla Polonia, in semifinale
1: il primo nella finalissima alla Germania Ovest
cambiando di fatto la storia della competizione mondiale
cambiando la storia della nazionale italiana di calcio che dal 1938 non vinceva suddetto titolo
cambiando la storia dell'Italia che si trova unificata nella più grande festa popolare di piazza da Aosta a Palermo dai tempi della Liberazione dal nazifascismo
cambiando la sua storia professionale, conseguendo il titolo di capocannoniere della competizione mondiale e venendo eletto quell'anno il migliore giocatore di calcio al mondo
e cambiando, sopra ogni cosa, la sua vicenda umana passando dalla merda che quotidianamente gli veniva gettata addosso infangandolo alla santificazione in vita per miracoli conclamati sul terreno di gioco" (pp. 45-46).



Quella partita, insieme all'epilogo della vittoria sulla Germania, al Santiago Bernabeu di Madrid, non si sarebbe semplicemente impressa nell'immaginario collettivo di una generazione. Ne sarebbe diventata l'unico tratto realmente autobiografico, l'unico momento realmente condiviso. E, soprattutto, sarebbe diventata il grande racconto attorno al quale annodare la trama di tutte le singole esistenze di giovani privi di qualsiasi rilevante riferimento ideologico, politico, culturale. Così, ognuno di loro - di tutti quelli che avevano spinto la testa e il piede di Pablito nelle fatali giornate spagnole - avrebbe vissuto i periodi di difficoltà, lo scherno degli amici, l'incapacità di ingranare, come se si trattasse della prima fase del Mundial. Come se si trovasse dinanzi al Perù e al Camerun: avversari tutto sommato inferiori, ma di cui risulta difficile venire a capo. Ognuno di loro avrebbe confidato che queste difficoltà fossero solo il 'primo turno', solo la fase di riscaldamento prima dello slancio. Nella convinzione che, dopo il risicato, sofferto passaggio del turno, le cose sarebbero cambiate del tutto. Nella certezza che la cavalcata sarebbe cominciata, travolgendo uno dopo l'altro - dinanzi allo stupore di tutti, contro tutti i pronostici, contro il discredito di tutti i critici e della stampa - le loro personali Argentina, Brasile, Polonia e Germania. Nella speranza che, alla fine, quello che tutti ritenevano un giocatore finito, si rivelasse - proprio come Paolo Rossi - l'imprevedibile, immarcabile centravanti capace di diventare, davanti agli occhi increduli del mondo, un grande campione. E che tutto si sarebbe concluso con il liberatorio, immortale urlo di Marco Tardelli.

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