lunedì 25 aprile 2011

Storia d'Italia in nero. ll noir italiano e i 'misteri' del potere


di Damiano Palano

Chi frequenta le librerie sa bene che il reparto dedicato ai gialli, ai thriller e a quello che - con maggior proprietà - viene definito il noir, negli ultimi anni è aumentato notevolmente, fino a inghiottire, in qualche caso, addirittura la metà dello spazio riservato alla narrativa. Dentro questo grande spazio c'è ovviamente di tutto, dai voluminosi tomi degli americani al giallo nordico, agli autori francesi, ma, naturalmente, non può mancare una porzione consistente dedicata anche al 'giallo' italiano. Anzi, si può dire che la vera novità degli ultimi dieci, quindici anni sia proprio il successo di questo sotto-genere, contrassegnato da un'inconfondibile connotazione nazionale e articolato in tanti diversi filoni. Gli autori e gli editori sono moltissimi, ma i nomi che non mancano mai - e che, a loro volta, costituiscono dei modelli di riferimento per il mercato - sono senz'altro quelli di Andrea Camilleri, Carlo Lucarelli, Gianrico Carofiglio e Giancarlo De Cataldo, mentre un posto d'onore nel portare avanti questa tendenza è sicuramente occupato dall'editore Sellerio di Palermo. Nell'affollata schiera dei nuovi giallisti italiani c'è ovviamente di tutto, non solo dal punto di vista delle tematiche e degli scenari, ma anche sotto il profilo qualitativo. Ed è un po' inevitabile che sia così. Come, d'altronde, è piuttosto inevitabile che al successo di pubblico debba far seguito più di qualche sospetto.


Proprio in questo senso, una sorta di invettiva contro il giallo italiano contemporaneo viene lanciata sulla rivista "Idem" - una nuova rivista di cultura, arte e politica, nel cui comitato di redazione figurano anche intellettuali come Massimo Cacciari, Angelo Panebianco e Vittorio Parsi - da Camilla Baresani, una scrittrice di romanzi come Un'estate fa, L'imperfezione dell'amore e Sbadatamente ho fatto l'amore (da poco ripubblicato in edizione tascabile da Bompiani). Baresani si scaglia infatti non tanto contro il romanzo giallo, quanto contro ciò che definisce come il "pittoresco criminale" richiesto dagli editori e, soprattutto, amato dai lettori in Italia e nel mondo. "È questa", scrive Baresani, "l'Italia che piace e conquista lettori, spettatori, pagine dei giornali, qui da noi ma soprattutto all'estero. L'Italia del crimine organizzato, del meridione messo in scena tra bei paesaggi assolati e scempi delittuosi. Caduta nel dimenticatoio l'epoca del folklore mandolinistico, delle popolane sexy e dal cuore d'oro, dei frutti della terra ubertosa cresciuta spontaneamente tra siti archeologici e osterie dove si canta e balla davanti al fiasco di vino, l'Italia che oggigiorno accende l'attenzione non è più quella del Grand Tour bensì quella del degrado camorristico, della mafia in tutte le sue declinazioni - da ridere o da morirci ammazzati". E la conclusione cui giunge Baresani è allora per molti versi scontata: "così finisce che, tra Montalbano e Gomorra, tra spazzatura napoletana e 'infermiere' del Presidente del Consiglio, l'immagine dell'Italia sia fatta principalmente di due ingredienti: una miscela di avanspettacolo, bozzettistica e goliardica, e una buona dose di criminalità animalesca, bestiale, tutto sommato circoscritta a una parte malata del Paese".

È difficile negare che, nella critica indirizzata da Baresani contro una moda tanto fortunata, qualcosa di vero ci sia effettivamente. Nel profluvio di libri a sfondo poliziesco che sono usciti negli ultimi anni in Italia, in effetti non tutto è buono, e non tutto è sempre da difendere. Ma si può però anche dubitare che davvero il noir italiano sia fotografato fedelmente da questa immagine. Mettere insieme Camilleri e Saviano, per esempio, è evidentemente una forzatura, ma, a parte questo, è piuttosto semplicistico sostenere che il giallo italiano contemporaneo sia solo una rivisitazione del vecchio folklore, una declinazione aggiornata dell'Italia 'pittoresca' ricercata dai turisti di mezzo mondo. Perché forse - in un mare letterario non sempre limpido - c'è anche qualcosa di più. E, forse, oltre a discernere ciò che è valido da quello che non lo è, diventa anche necessario cogliere i meriti reali - se ci sono - di una tradizione specificamente italiana. In gran parte (anche se probabilmente non è il caso di Baresani), si tratta di superare l'eterno pregiudizio sulla produzione di 'genere', un pregiudizio che ha pesato a lungo, in negativo, sulla critica italiana. Un simile pregiudizio sostiene che il romanzo e il cinema di genere siano solo prodotti commerciali, seriali, confezionati con ingredienti di scarto secondo una ricetta costante, e dunque sostanzialmente indegni di rilevante considerazione. In altre parole, non c'è invenzione, non c'è arte, perché l'autore è vincolato da esigenze commerciali inaggirabili e da codici troppo angusti. Codici che, in breve, dicono: il giallo richiede dei morti ammazzati, un'indagine e un colpevole, il western pretende un pistolero buono, un pistolero cattivo e un duello finale, la spy-story vuole una spia, intrighi internazionali e belle donne, e così via. Naturalmente è proprio così. I codici e le regole ci sono. Ma non per questo possiamo considerare il 'genere' come un sottoprodotto, perché dentro le sequenze obbligate di una trama i grandi autori riescono a infilare tutto il loro mondo, il loro stile, persino le loro convinzioni politiche. Rendendo così il loro giallo o il loro western inconfondibile rispetto a qualsiasi altro giallo o a qualsiasi altro western, nonostante qualche volta la trama sia la medesima di dieci o cento altri libri o film.
C'è però soprattutto un altro motivo per cui le critiche di Baresani sono solo in parte puntuali. E risiede nel riferimento polemico al "pittoresco criminale", nell'idea che il giallo italiano contemporaneo debba la propria fortuna a un'immagine del tutto irrealistica dell'Italia, a uno stereotipo che trasforma l'Italia reale in un gigantesco, feroce, assolato Meridione. Un Meridione del tutto fittizio che finisce solo col risultare la variazione contemporanea - o forse postmoderna -  del classico "paradiso abitato da diavoli" descritto dai viaggiatori europei alla scoperta del Regno di Napoli. Anche qui, il bersaglio rimane sfuocato. Innanzitutto, perché il giallo italiano contemporaneo non limita affatto il suo sguardo all'infernale "Gomorra" di Saviano, o alla Sicilia canicolare di Montalbano, ma segue i rivoli della criminalità contemporanea un po' dappertutto. E per averne una conferma è sufficiente prendere in mano uno dei tanti romanzi di Massimo Carlotto, capace di descrivere le trasformazioni - sociali, economiche, antropologiche - del Veneto odierno molto più di molti studi sociologici. Ma rimane sfuocato anche perché la tradizione del giallo italiano - come ha d'altronde mostrato chiaramente la sociologa americana Wendy Griswold - pretende che il racconto poliziesco sia, quasi per definizione, 'provinciale', e che sia connotato cioè in senso territoriale. Il 'giallo all'italiana', in altre parole, si connota proprio perché (a differenza del noir americano e del giallo inglese) è calato in un territorio ben preciso, identificabile per il suo dialetto, i suoi gerghi, i suoi luoghi e i suoi vizi. Proprio per questo, riesce a essere attento - molto più di quanto richiederebbero i codici del genere - alle trasformazioni sociali, alla rappresentazione degli ambienti, alla raffigurazione dei tipi. Tutto questo non si traduce - o, almeno, non sempre si traduce - in un pittoresco dozzinale. Anche perché ciascun autore ricostruisce la provincia, o la metropoli, a modo proprio, proiettandoci rimpianti, disillusioni, inquietudini. E così nessuno - davvero nessuno - potrebbe confondere la Milano di Giorgio Scerbanenco con la Milano di Renato Olivieri. Nessuno potrebbe riconoscere nella Bologna turbolenta dei primi romanzi di Loriano Macchiavelli la città - forse un po' artefatta, ma comunque suggestiva - che offre lo sfondo ai migliori romanzi di Lucarelli. E nessuno potrebbe per un solo secondo confondere la Sicilia metafisica di Leonardo Sciascia con quella di Camilleri e Montalbano. È per tutti questi motivi che l'"Italia calibro 9" - l'Italia dipinta dal noir italiano, forse qualche volta un po' bozzettistica, qualche altra un po' manierata o deformata - continua a parlarci meglio, o con quantomeno in modo più accattivante - di quanto non faccia tanta letteratura 'alta'. Proprio per questo, l'"Italia calibro 9" riesce a coagulare l'attenzione e le energie di scrittori (e di intellettuali) così diversi, riesce a coniugare il gusto (e talvolta la sapienza) del racconto con uno sguardo puntato sulla realtà e su quello che siamo diventati. Oltre che, forse, su quello che vorremmo essere.



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L'eterno revival. Il mondo impolitico di Walter Veltroni (e altri frammenti sulla memoria italiana)  








1 commento:

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