lunedì 31 ottobre 2016

La lezione di Max Weber nel tempo della democrazia plebiscitaria




di Damiano Palano

Questo testo è apparso con il titolo Il carisma del leader riletto da Weber su Avvenire» del 16 settembre 2016 (come recensione a M. Weber, Il leader, Castelvecchi, Roma, 2016).

All’indomani della morte di Max Weber, avvenuta improvvisamente il 14 giugno 1920, la moglie Marianne trovò impilate sulla sua scrivania alcune grandi buste postali marroni. In quelle buste erano conservati i manoscritti preparatori, sommariamente catalogati in base all’argomento, di un’opera ambiziosa, cui il sociologo stava lavorando da almeno dieci anni, e in cui dovevano confluire i risultati di un’intera vita di studio. Nel 1909 Weber aveva infatti accettato l’offerta di curare l’edizione di un nuovo manuale di economia politica, riservando per sé la stesura soprattutto di un capitolo intitolato Economia e società. Ma a poco a poco il capitolo si era dilatato sempre di più, e la sua pubblicazione fu così progressivamente rinviata. All’indomani della morte, Marianne iniziò a riordinare il materiale del marito con l’obiettivo di giungere rapidamente alla sua pubblicazione, che in effetti avvenne tra il 1921 e il 1922. Sottovalutò però il fatto che i testi – peraltro spesso frammentari e incompiuti – risalivano a fasi differenti. Proprio per questo la prima edizione di Economia e società – come quella curata negli anni Cinquanta da Johannes Winckelman – doveva essere letta come un’opera organica e coerente, a dispetto anche delle contraddizioni che il testo presentava. La nuova edizione critica, curata da Wolfgang J. Mommsen e Michael Meyer, consente invece di ricostruire, insieme alle ipotesi principali, anche le revisioni che Weber operò nel corso del tempo, e che al momento della morte erano tutt’altro che giunte a una soluzione. E una nitida esemplificazione è offerta dal volume Comunità (Donzelli, pp. 262, euro 32.00), in cui vengono riproposti fedelmente i testi con cui Weber delineava una tipologia di tutte le grandi forme di comunità.
Prendendo le distanze dalla convinzione positivista che nella storia potessero essere individuati ben precisi stadi evolutivi delle società, Weber si discostava anche dalla classica distinzione tra «comunità» e «società», con cui Ferdinand Tönnies aveva posto le basi della sociologia tedesca. Per Tönnies la modernizzazione doveva infatti coincidere con una progressiva transizione dalla «comunità» alla «società», ossia come una decadenza delle comunità organica medievale e un passaggio alla moderna «società meccanica», nella quale prevalevano i legami utilitaristici e le relazioni contrattuali. Secondo Weber, invece, le due dimensioni potevano coesistere, e si doveva piuttosto parlare di forme di comunità che tendevano alla «comunione» (e cioè a un agire comune non riconducibile a criteri utilitaristici) oppure alla «sociazione» (e cioè a un agire razionale finalizzato allo scopo). Con questa prospettiva, Weber si soffermava così sulle trasformazioni intervenute nelle comunità domestiche e nelle relazioni tra comunità e mercato, ma anche sul grado di «apertura» e «chiusura» dei vari gruppi umani. In questo senso esaminava anche la specificità delle comunità politiche, contrassegnate dal tentativo di conquistare il monopolio legittimo della forza su un determinato territorio. E, in pagine ancora oggi davvero interessanti, toccava il nodo delle comunità etniche. In questo caso Weber si allontanava nettamente da tutte quelle letture che ricercavano un fondamento ‘oggettivo’ all’appartenenza etnica o nazionale. La comunanza etnica era in particolare definita come l’effetto della costruzione ‘artificiale’ di ascendenze comuni e di memorie condivise. Weber decostruiva così il vecchio mito della «comunità di sangue», tutt’altro che marginale nella cultura tedesca del tempo. Ma sosteneva anche che la «repulsione etnica» risultava fondata solo su elementi simbolici, ossia sulla trasformazione di determinati elementi convenzionali – un taglio capelli o un tipo di abbigliamento – in simboli di appartenenza etnica. Ed evocando per esempio un viaggio negli Stati Uniti compiuto nel 1904, ricordava come «il fetore di burro» agisse «in modo più intenso come fattore di separazione rispetto alle stesse differenze razziali», e in ogni caso ben più di quanto agisse «il fantasioso ‘fetore dei negri’», evocato spesso dai bianchi americani.
Quei frammenti risalivano probabilmente al 1910, e non è improbabile che Weber avrebbe approfondito il discorso, soprattutto intorno al pathos dell’appartenenza nazionale. D’altronde la trasformazione innescata dalla Grande guerra indusse il sociologo a tornare su alcuni nodi cruciali della sua precedente riflessione. Già prima della conflitto, in alcune pagine fondamentali – raccolte ora nel volume Il leader (a cura di Francesco Marchianò, Castelvecchi, pp. 95, euro 11.50), aveva d’altronde riconosciuto la forza travolgente della legittimazione carismatica. Ma aveva sottolineato anche come la «gabbia d’acciaio» della progressiva razionalizzazione di ogni aspetto della vita sociale fosse destinata a ridurne il ruolo. All’indomani della fine della guerra, si convinse invece che il carisma potesse giocare un ruolo anche nella nuova democrazia di massa, e che una forte leadership potesse anzi ostacolare gli effetti negativi della burocratizzazione. Il Novecento si è naturalmente incaricato di mostrare quali insidie si nascondessero sul sentiero di una Führerdemokratie. Ma è quasi scontato riconoscere come ancora oggi – in un mondo segnato dalla personalizzazione della politica e in cui tornano a proliferare muri e barriere – i problemi che Weber affrontava rimangano assolutamente cruciali. È d’altronde anche per questo che, a distanza di un secolo dalla sua stesura, Economia e società continua a fornire costanti sollecitazioni e non cessa di rappresentare un modello per una ricerca sociale che, sfuggendo alle suggestioni di ogni determinismo, punti a trovare nei significati culturali la spiegazione dell’agire umano.  

Damiano Palano


domenica 9 ottobre 2016

Se la democrazia dei partiti precipita senza paracadute. "Governare il vuoto" di Peter Mair




di Damiano Palano

Questa recensione al libro di Peter Mair, Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti (Rubbettino, pp. 166, euro 14.00) è apparsa su "Avvenire" il 2 agosto 2016.

Proprio mezzo secolo fa, nel 1966, il politologo tedesco Otto Kirchheimer iniziò a intravedere i primi segnali della trasformazione che stava investendo i partiti di massa. L’avvento della società del benessere, l’attenuazione del conflitto di classe e l’indebolimento delle grandi appartenenze stavano infatti modificando l’ambiente in cui le grandi organizzazioni politiche erano nate alla fine dell’Ottocento. E proprio per rispondere a questi mutamenti, i partiti di massa cominciavano allora a tramutarsi in catch-all-parties, in partiti «pigliatutti», che puntavano cioè a conquistare voti non più soltanto in uno specifico segmento della società, contrassegnato da una forte identificazione ideologica e subculturale, bensì in tutti i settori. In questo modo venivano abbandonati i più ambiziosi ideali di trasformazione sociale, mentre tutte le energie venivano indirizzate verso l’obiettivo della vittoria elettorale e le risorse concentrate nell’attività di comunicazione.
A cinquant’anni di distanza, non è certo difficile riconoscere come le previsioni di Kirchheimer avessero intuito, con indubbia lungimiranza, molte delle trasformazioni successive. E il volume di Peter Mair, Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti (Rubbettino, pp. 166, euro 14.00), costituisce da questo punto di vista un prezioso aggiornamento di quelle antiche ipotesi. Un aggiornamento che mostra dove abbiano condotto quelle tendenze e, soprattutto, quali rischi esse comportino. Sulla base dell’esperienza maturata in un’intera carriera di studi, il politologo irlandese – scomparso prematuramente nel 2011 – si chiede infatti se, insieme ai partiti di massa (e a ciò che ne rimane), non sia destinata a essere messa in discussione anche la stessa forma democratica dei sistemi politici occidentali. In particolare, secondo Mair, la corrosione delle basi su cui si fondano i contemporanei regimi democratici è imputabile allo svuotamento dello spazio in cui cittadini e rappresentanti politici si trovano a interagire: questo spazio era in passato occupato proprio dai partiti, ma ora rimane sempre più sguarnito. Le cause sono in primo luogo da ricercare nel crescente disimpegno dei cittadini, di cui sono tracce (non sempre però così chiaramente interpretabili) il calo della partecipazione elettorale, l’instabilità del comportamento di voto e l’emorragia di iscritti di cui hanno sofferto pressoché tutti i partiti europei. Accanto a questo primo fattore si accompagna però anche la simmetrica tendenza al disimpegno che coinvolge le élite politiche. In altri termini, i partiti hanno quasi del tutto abdicato alla funzione di rappresentanza delle istanze sociali, assunte invece da altre agenzie. E, al tempo stesso, hanno privilegiato – in termini pressoché esclusivi – la ricerca di ruoli di governo (a livello locale e nazionale). Il ‘corpo’ dei partiti, costituito dalla rete organizzativa diffusa sul territorio, si è così progressivamente atrofizzato fino a diventare esilissimo. Mentre è cresciuta la ‘testa’, stabilmente insediata dentro le istituzioni rappresentative. I grandi partiti assumono così le sembianze di ‘agenzie dello Stato’, specializzate nel compito di reclutare il personale politico, ma del tutto incapaci di stabilire un solido rapporto (fiduciario e identitario) con la società. Per questo, scrive Mair, quella che si profila all’orizzonte «è una nuova forma di democrazia in cui i cittadini rimangono a casa mentre i partiti vanno a governare».
Le previsioni di Mair – che i travagli vissuti dell’Unione europea negli ultimi anni hanno ampiamente confermato – sono in realtà ancora più cupe. Nello spazio ‘svuotato’ dal disimpegno di élite e cittadini, vanno a infatti collocarsi tanto la protesta ‘populista’ contro l’establishment, quanto la tentazione di ‘depoliticizzare’ le democrazie, ossia di trasferire le decisioni più importanti verso arene sottratte agli umori di elettorati sempre più imprevedibili. Simili soluzioni non possono però davvero colmare il fossato aperto dalla scomparsa di quell’appartenenza comune che cittadini e leader politici condividevano grazie ai partiti di massa. Proprio per questo i nostri sistemi rappresentativi rischiano allora di scivolare nella voragine sempre più profonda aperta dalla fine della «democrazia di partiti». E di precipitare nel vuoto della società liquida.

Damiano Palano