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venerdì 18 novembre 2016

Dipinti di guerra, battaglie d'artista. Il nuovo libro di Luigi Bonanate





di Damiano Palano


Questa recensione al volume di Luigi Bonanate, Dipinger guerre (Aragno), è apparsa su "Avvenire" il 18 novembre 2016.

Se un giorno dovessero essere ospitati in un solo museo i grandi dipinti che hanno tentato di fissare sulla tela l’orrore della guerra, quasi sicuramente – accanto alle opere di Rubens, Goya, Manet e molti altri –  nella sala centrale si troverebbe collocato Guernica di Pablo Picasso. Perché, come ben poche altre opere, il grande quadro dell’artista catalano è riuscito a dar forma al nostro modo di concepire (e condannare) la guerra, cogliendo la trasformazione della violenza nell’età della tecnica. Un simile museo della pittura di guerra naturalmente non esiste, e con ogni probabilità non esisterà mai. 
Ed è forse questo che rende particolarmente prezioso il nuovo e sorprendente volume Luigi Bonanate, Dipinger guerre (Aragno, pp. 475, euro 65.00), perché il politologo allestisce proprio una simile galleria, mettendo l’uno accanto all’altro capolavori noti e meno noti dell’arte occidentale che, con stili e sensibilità talvolta abissalmente lontani, hanno tentato di ‘afferrare’ l’orrore della violenza bellica. E nelle quasi cinquecento pagine del suo libro accompagna così il lettore attraverso i corridoi di questa immaginaria «Galleria della guerra», in un viaggio che è anche un’esplorazione attraverso l’immaginario occidentale e i suoi mutamenti.
La prospettiva che guida Bonanate è infatti quella dello studioso di politica internazionale. Ed è questo specifico punto di osservazione a rendere il volume davvero unico nel sul genere. Bonanate si volge cioè alle rappresentazioni artistiche della guerra con un obiettivo che rimane squisitamente «politologico» (nel senso più nobile del termine). Perché l’intento è innanzitutto di comprendere se le trasformazioni intervenute nella guerra abbiano interagito con le rivoluzioni artistiche. Ma soprattutto perché Bonanate indaga su una metamorfosi culturale che nel corso del tempo viene a modificare l’atteggiamento nei confronti della guerra. Nel definire le coordinate della propria esplorazione, Bonanate torna in particolare all’«iconologia» di Erwin Panofsky, e cioè a uno sguardo capace di cogliere – al di là dei «valori formali» – il «senso essenziale» dell’opera d’arte, il suo significato profondo. L’«iconologia» consente allora di riconoscere nei «quadri di guerra» un riflesso delle immagini del mondo che orientano gli artisti nelle differenti stagioni storiche, ma anche di cogliere la valutazione della guerra che ciascuno di essi intese fissare nelle proprie tele. In altri termini, come scrive Bonanate, «il bombardamento di Guernica non è stato rappresentato da Picasso nell’unico modo possibile, ma in uno che esprimeva il suo giudizio sull’evento, sulla guerra, sull’arte, sui movimenti pittorici del tempo, sulla storia, sulla vita». E qualcosa di simile avviene anche per Le conseguenze della guerra di Rubens, o per le incisioni I disastri della guerra di Goya, o per un’opera come La Guerra di Henry Rousseau.



Nella vicenda della «pittura di guerra» Bonanate individua alcune scansioni storiche ben precise. Dalla nascita dello Stato moderno fino alla sua piena affermazione alla metà del Seicento l’iconografia bellica è principalmente pubblica, e soprattutto riflette una concezione alta e drammatica della funzione che la guerra svolge nella storia. Accanto a questa pittura pubblica si consolida inoltre un «battaglismo» dagli esiti talvolta notevoli – come nel caso di capolavori coma la Leggenda della Vera Croce di Piero della Francesca, la Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, la Battaglia di Costantino contro Massenzio di Giulio Romano – che però non pone al centro la guerra, dal momento che mette in scena lo scontro militare solo per farne «una manifestazione retorica, svuotata di significato e offerta semplicemente al culto della forma per la forma». Una rottura radicale interviene invece con la Rivoluzione francese, quando, con l’ingresso sulla scena della «nazione», la pittura è costretta a ‘prendere parte’, a farsi ‘militante’. 


 

E il simbolo del passaggio non sono certo gli artisti che esaltano i successi di Napoleone, bensì due celebri dipinti di Goya, 2 maggio 1808 e 3 maggio 1808, che celebrano la rivolta dei patrioti spagnoli e che fissano peraltro un modello destinato a essere rivisitato in seguito da Édouard Manet, da Hans Hartung, da Picasso e da altri ancora. Un salto ulteriore è sancito poi dal 1870, e ancora più nettamente dalla Grande guerra. In questo senso, molti dipinti di Otto Dix e di C.R.W. Nevinson, oltre a Guernica di Picasso e a Premonizione della guerra civile  di Salvador Dalì, riflettono un mutamento netto nella collocazione rispetto alla guerra. Perché l’artista prende ormai posizione ‘contro’ la guerra, dichiarando esplicitamente il proprio disgusto ed esibendo gli effetti distruttivi della violenza.



Certo una simile condanna non ha fatto scomparire la violenza armata dalla scena del mondo. Ma forse – insieme a Bonanate – si può riconoscere anche una vittoria della pittura nella caduta di qualsiasi pregiudizio positivo sulla guerra. Perché il lungo cammino che da Piero della Francesca conduce sino a noi – se certo non si conclude con il tramonto della guerra – sembra però sancire la capacità dell’arte di ‘sconfiggere’ la violenza bellica. E cioè la capacità di denunciarne le tragedia, di discuterla criticamente, di proporne la condanna, anche in una stagione in cui la guerra diventa addirittura «indescrivibile».

Damiano Palano

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