sabato 9 gennaio 2016

Il linciaggio 2.0. “I giustizieri della rete” di Jon Ronson





di Damiano Palano

L’etimologia della parola «linciaggio» non è del tutto chiara. Alcune tracce riconducono infatti al latifondista Charles Lynch, che negli anni Ottanta del Settecento presiedette corti irregolari per punire lealisti filo-britannici, mentre altre portano al capitano William Lynch, che più meno nello stesso periodo, in una contea della Virginia, fu autorizzato ad amministrare la giustizia senza regolare processo. Ma, nonostante le diverse piste conducano tutte agli Stati Uniti, non si tratta di un fenomeno circoscritto alla cultura nordamericana, perché anche la storia europea è ricca di episodi (talvolta deformati e ingigantiti dalla memoria popolare) di esecuzioni sommarie compiute da folle inferocite. La rivoluzione tecnologica dell’ultimo ventennio e la diffusione dei social media hanno sancito però la nascita di una nuova forma di linciaggio, meno cruenta, ma dalle conseguenze tutt’altro che indolori. 
Nel suo ultimo libro I giustizieri della rete (Codice, Torino, 2015, pp. 238, euro 21.00), Jon Ronson – scrittore, giornalista e sceneggiatore inglese, noto al pubblico italiano per testi come Psicopatici al potere (Codice, 2014), Loro: i padroni segreti del mondo (Fazi, 2005) e L’uomo che fissa le capre (Einaudi, 2009) – indaga proprio sui meccanismi perversi che può avere la gogna mediatica dei social network. 
L’indagine di Ronson non ha nulla di accademico, perché raccoglie semplicemente alcune storie di persone coinvolte da vicende sconcertanti, e tutte accomunate dal fatto di essere legate a episodi di ‘linciaggio mediatico’. Più o meno in tutti i casi raccontati da Ronson, la ‘colpa’ compiuta dai malcapitati, oggetto di umiliazione pubblica, è davvero risibile, o comunque del tutto sproporzionata alle conseguenze. 
Il primo caso riguarda Stephen Glass, un giornalista specializzato in divulgazione scientifica, che in un libro dedicato ai meccanismi della creatività, attribuisce un piccolo frammento a Bob Dylan, aggiungendo alla frase «Sono di non essere io», tratta da un’intervista al cantante, poche parole: «Sono felice di non essere quello là». ‘Smascherato’ da un giornalista free-lance, Glass inizia a essere oggetto di pubblico dileggio. Si scopre che in passato aveva compiuto altre scorrettezze simili, e che aveva persino parzialmente ‘plagiato’ propri articoli, rimaneggiandone alcune parti in testi pubblicati su testate differenti. Naturalmente è davvero difficile considerare le ‘scorrettezze’ di Glass come episodi davvero gravi, almeno in Italia, dove la clemenza con cui si giudica il lavoro giornalistico arriva persino a far perdonare direttori che pubblicano libri scopiazzando articoli stranieri senza citarli, o persino importanti editorialisti che – incensati per anni come autorevoli esperti – confessano, messi alle strette, di essersi inventati lauree, master e mille altre cose. Ma per Glass le cose vanno molto peggio, perché perde il proprio lavoro (ben retribuito) su una grande testata, e perché ogni suo tentativo di riabilitarsi viene bocciato dall’impietoso giudizio degli utenti di Twitter. Altri episodi sono quelli che vedono coinvolti Justine Sacco, fustigata (e licenziata) per un tweet di cattivo gusto scritto mentre era in partenza per le vacanze in Sud Africa, e Lindsey Stone, che subisce la medesima sorte per aver diffuso una foto dal discutibile umorismo goliardico. Ancora oggi il loro nome è legato a questi episodi, che per qualche minuto le hanno rese celebri (loro malgrado) in tutto il mondo. E che – grazie alla memoria impietosa dei motori di ricerca – rimarranno legati ancora a lungo al loro nome. 
Nel proprio viaggio Ronson tenta anche qualche spiegazione. Evoca (con più di qualche semplificazione) le ipotesi sul comportamento delle folle elaborate sul finire dell’Ottocento da Gustave Le Bon, e si impegna anche in una lunga – e un po’ semplicistica – indagine su cosa sia la vergogna, oltre che su ciò che innesca l’umiliazione pubblica. Ma naturalmente non è qui che sta l’interesse del libro, che va letto come piuttosto una documentazione che arricchisce la fenomenologia sul tempo presente. Le storie raccontate – con un indubbio talento narrativo – da Ronson ci devono così mettere in guardia sugli effetti perversi di qualcosa che ci sembra innocuo, come i “mi piace” che mettiamo allo stato postato da un amico di Facebook, o le poche parole con cui condanniamo senza appello il tweet di qualche personaggio pubblico, o persino di qualche sconosciuto. Tutto questo ‘chiacchiericcio’ virtuale – ormai lo abbiamo capito – non migliora davvero la vita di nessuno, e in molti casi non fa altro che dilatare (e rendere manifesto al mondo intero) il narcisismo di alcuni o l’estrema solitudine di altri. Ma sicuramente contribuisce ad arricchire le multinazionali del web. E da questo punto di vista (ma si tratta di un calcolo che richiederebbe più di qualche verifica) Ronson stima per esempio che l’umiliazione pubblica di Justine Sacco abbia aumentato il traffico online, attirando utenti su Google a dunque facendo incrementare sensibilmente, in quei giorni, gli introiti pubblicitari del motore di ricerca. «Se l’interesse per Justine Sacco fosse stato sufficiente a trattenere gli utenti online più a lungo del solito, la diretta conseguenza per Google», scrive Ronson riportando l’opinione del ricercatore Jonathan Hersh, «sarebbe stato maggiori introiti pubblicitari» (p. 229). «In mancanza di dati più precisi da parte di Google», Hersh «pensava fosse prudente stimare […] che il valore di Justine, in quanto ‘query a basso valore, valesse un quarto della media. Se la stima fosse corretta, dalla distruzione di Justine Sacco Google avrebbe incassato centoventimila dollari. Forse la stima non è precisa; forse Google ha guadagnato di più, forse di meno, ma una cosa è certa: quanto ha preso chi di noi ha effettivamente contribuito a distruggere Justine? La risposta è: neanche un soldo» (p. 229). 
Ma probabilmente non è neppure questo l’unico meccanismo imprevisto innescato dai social network. Forse, osserva Ronson, c’è anche un’altra implicazione rilevante: un’implicazione che riguarda il conformismo che i social network tendono a generare, producendo capri espiatori e favorendo nuove forme di conformismo, che ci inducono ad accodarci alla lunga fila di “mi piace”, o a unirci alla folla mediatica che accerchia la vittima di turno. «Crediamo di essere degli anticonformisti, ma in realtà credo che tutto ciò stia creando un’epoca ben più conformista e conservatrice», scrive Ronson proprio alla conclusione del volumetto. «“Guarda!” ci diciamo, “noi siamo normali! Questa è la media!”. Ma il fatto è che stiamo definendo i confini di quella normalità distruggendo le persone che ne restano fuori» (p. 232). E se probabilmente il ritratto dipinto da Ronson finisce per questo per essere fin troppo cupo, è bene tenerlo presente. Quantomeno per liquidare come utopie ormai sbiadite quelle visioni che, solo alcuni anni fa, rappresentavano la Rete come l’agorà virtuale in cui confrontarsi su un piano di completa parità, e come il luogo immateriale in cui poteva finalmente prendere forma una democrazia reale.

Damiano Palano

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